Conoscere è una di quelle attività che maggiormente hanno occupato gli esseri umani sin dalla loro comparsa su questo mondo (seconda forse solo al dormire). Una di quelle attività fondamentali che, a detta di molti, sarebbe ciò che rende la nostra specie così unica. Ma le cose stanno davvero così? Che cosa significa “avere conoscenza di qualcosa”? Abbiamo davvero un privilegio naturale di qualche tipo nelle attività conoscitive? E, infine, la fantomatica conoscenza scientifica che cos’è? C’è un modo per capirlo? Questo articolo proverà a rispondere in maniera molto elementare a questioni annose e complesse che, tuttavia, risultano essenziali per chiunque tenti di capirci qualcosa in questo casino immenso che chiamiamo mondo.
L’analisi tripartita della conoscenza
Coloro i quali studiano o si dilettano con la filosofia non avranno certamente mancato di notare l’immenso caos rappresentato dalla moltitudine di teorie e punti di vista che affastellano da sempre i dibattiti intellettuali. Un esempio da manuale potrebbe essere il dibattito sulla natura delle idee nel XVII secolo: agli estremi innatisti ed empiristi e, nel mezzo, uno spettro di teorie tra di loro così simili eppure così diverse da risultare quasi comiche.
Tuttavia, il dibattito sulla natura della conoscenza è un caso definibile propriamente singolare, dato che si fonda su un assenso durato per circa duemila anni. Semplificando, infatti, si potrebbe ragionevolmente sostenere che dal celeberrimo Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) al molto meno famoso Edmund Gettier (1927-2021) l’assenso sulla risposa alla domanda “cos’è la conoscenza?” è stato assolutamente maggioritario. Tale risposta si ottiene attraverso la cosiddetta analisi tripartita della conoscenza, la quale sostiene: la conoscenza è uguale a credenza, vera e giustificata.
Il significato della suddetta definizione è invero molto semplice, eppure sufficientemente i) solido da sostenere il peso delle numerose teorie e asserzioni che vi si basavano sopra e ii) abbastanza ampio da poter effettivamente nutrire diverse interpretazioni delle sue tre componenti essenziali.
L’analisi tripartita può essere quindi così esplicata: un qualsiasi soggetto S ha conoscenza di una qualsiasi proposizione P se e solo se S crede effettivamente a P, la proposizione P è vera e S ha delle ottime ragioni per ritenersi giustificato a credere P.
Un esempio concreto può aiutare a capire: Io ho conoscenza della proposizione “davanti a me c’è un computer” se e solo se io credo effettivamente che ci sia il computer (credenza); il computer c’è realmente e, per esempio, non me lo sono sognato (la credenza è vera); io credo che ci sia un computer perché lo vedo e lo tocco (la mia credenza è giustificata empiricamente).
Gettier e il crollo dell’analisi tripartita
I secoli passano, le società cambiano, le lingue si evolvono e il cammino conoscitivo dell’umanità raggiunge vette impensabili. In tutto questo marasma di eventi l’analisi tripartita resta in un qualche modo un punto fermo capace di fungere da perno per chiunque avesse l’ardire di cercare di capire anche una singola minuscola porzione del mondo. Tutto cambia nel 1963 quando il filosofo Edmund Gettier pubblica “Is Justified True Belief Knowledge?”, un articolo di sole tre pagine in grado di far tornare in auge un dibattito che, secondo alcuni, era impossibile poter riaprire. Come? È presto detto.
Immaginiamo che Alice oggi, giunta nella cucina del suo appartamento, abbia guardato l’orologio a muro e le lancette di quest’ultimo segnavano le 08:05. Alice si forma così la credenza che in quel momento siano le 08:05 del mattino. Supponiamo però un ulteriore elemento, e cioè che l’orologio di Alice si sia rotto il giorno prima e fermato esattamente alle 08:05. Caso ha voluto, tuttavia, che nel momento in cui Alice guarda l’orologio siano effettivamente le 08:05 del mattino. In sostanza Alice ha una credenza, questa è vera ed è giustificata e, tuttavia, nessuno di noi direbbe che si tratta di un caso di conoscenza.
Questa è precisamente la particolarità dei cosiddetti esempi à la Gettier: ossia controfattuali che dimostrano come possano esistere infinti casi in cui il soggetto abbia una credenza vera e giustificata eppure non si abbia conoscenza a causa della presenza di una massiccia dose di fortuna epistemica.
La fortuna epistemica è in un certo senso lo scheletro nell’armadio degli epistemologi. Tutti cercano una teoria che spieghi come si ottenga conoscenza ed è fondamentale che tale teoria eviti in ogni modo possibile la fortuna epistemica, ossia che le nostre credenze siano vere per puro caso (come accade negli esempi di Gettier).
È importate sottolineare che l’analisi tripartita non viene direttamente falsificata dai casi a la Gettier. Il loro vero obbiettivo è mostrare che essa è insufficiente nella determinazione di cosa sia conoscenza.
Ma quindi dove si annida il problema? Difficile capirlo; tra gli estremi di chi sostiene che la nozione di giustificazione debba essere ripensata e chi, invece, vorrebbe del tutto abolirla, si innestano una serie di svariate posizioni intermedie che proiettano altrettanti scenari a loro modo degni di essere presi seriamente in considerazione. Sarebbe confuso e inutile provare a riassumere qui gli scorsi sessant’anni di dibattito ma, al contempo, può essere interessante cercare di trarre qualche spunto da un dibattito tutt’oggi apertissimo.
Modestissima opinione di chi scrive è che lo studio della conoscenza sia molto poco utile alla conoscenza stessa. Almeno nel senso in cui (mi si perdonerà l’enorme semplificazione a scopo divulgativo) è inutile definire l’amore agli innamorati. Tuttavia l’analisi della conoscenza permette delle importanti acquisizioni nella comprensione di come i diversi meccanismi conoscitivi avvengono; di quali nozioni sono delle false credenze mascherate da conoscenze; di come agire nella ricerca e nella costruzione di conoscenza, anche nella vita di tutti i giorni.