A quanto pare, scrivere #losapevamotutte è tutto ciò che sappiamo fare.
Dal giorno del ritrovamento del cadavere di Giulia Tramontano, di fronte ad un fallimento sociale, umano, giuridico e giudiziario, c’è solo una sfilata tra chi si pavoneggia senza fine nel ruolo di vittima che già sa, o nel ruolo di uomo, quello sconcertato dalla violenza, che però non rientra, ovviamente, nella cerchia perché “not all men”, perché per ogni maschio non c’è un misogino e incredibilmente non conosce nessuno che lo sia.
E all’ennesimo episodio di una violenza sistemica, siamo tutti ancora davanti a uno schermo a parlare, parlare e ancora parlare, arrovellandoci sui dettagli macabri di una vicenda di cui chiunque conosceva già l’esito. Fiumi di inchiostro, o click digitali su monitor touch screen, fatti di sera, comodamente sdraiati sul divano, certo disgustati per quello che leggiamo. Siamo davanti allo schermo di un telefono per digitare un hashtag che marchi bene i confini tra un “noi”, le vittime inascoltate, e “loro”, gli impuniti, quelli che li giustificano, il poliziotto che non ha accettato la denuncia, il giudice che non ha concesso la misura restrittiva. Noi, di qua, loro, di là. Un di là, però, di colpevoli invisibili nella quotidianità della violenza non truculenta, che serve meno alla pornografia del dolore: quella delle donne ancora “biologicamente” vive, con i loro polmoni che ancora funzionano, con un cuore che ancora batte. Il loro ruolo di donna nel mondo è ben intatto, soffrono – come il loro destino richiede – e sono succubi di un rapporto violento. Poco importa se sono diventate ancora più invisibili di quelle donne che vogliamo salvare più di chiunque altra, quelle col velo, capo che, si dice, ne eliminerebbe la dignità facendole apparire come fantasmi. La donna nel vortice del ciclo della violenza è viva, respira, esiste, è ben visibile. Ma non importa se non esiste più per sé stessa, se il suo ruolo è storicamente quello di vivere per, ed in funzione di, qualcos’altro: il marito, i figli, la casa.
Dunque, mentre siamo tutti impegnati a mostrare la frase con l’effetto più drammatico, quella che meglio possa raggiungere l’obiettivo di diventare una “lacrima strappastorie”, per ricevere il cuoricino della nostra bolla social, c’è qualcuna che è diventata invisibile persino a sé stessa, in un incubo senza fine, in un’identità ormai persa che nessuno è in grado di restituire a colpi di tweet o tracce di pennarello su un cartone-manifesto ad un sit-in.
E allora verrebbe da chiedersi: ma tutta questa energia, tutto questo tempo, tutta questa voglia di scrivere e di indignarsi, tutto questo risentimento per essere sempre inascoltate (nel ruolo di vittima) o additati come carnefici (nell’identità di esser maschio), a che servono? Stiamo dando voce, stiamo tendendo la mano – quella fatta di carne, ossa, legamenti, nervi, quella vera – a quelle donne che si guardano allo specchio senza vedere altro che un ingombrante zavorra, o stiamo semplicemente pompando il nostro ego, autoassolvendoci e illudendoci che si tratti di qualcosa che “a me non può succedere”, di assolutamente lontano dalla realtà quotidiana di migliaia di donne?
La realtà, virtuale o meno, è solo un’arena in cui le vittime sono solo parte del gioco di una macabra conta. Una scommessa in cui siamo tutti spettatori, in attesa di vedere se nella gabbia in cui li abbiamo chiusi, la spunterà il leone (“che bestia malvagia!”) o la donna (“ma non sapeva che era rischioso?”). Chiunque abbia anche soltanto il ricordo remoto di quella viscidissima sensazione, sa perfettamente che l’urgenza è nel fare concretamente, parlare, metterci la propria faccia. Smetterla di stare a sbirciare, ma raccontare la propria storia, fare la domanda difficile, mettersi in mezzo, aiutarla a scegliere di aprire la gabbia. Invece di stare sugli spalti a guardare lo spettacolo urlando tutto il proprio orrore, avvicinarsi alla gabbia e fare il tifo per lei. Incoraggiarla, passarle l’acqua perché non svenga, fino a quando non si fiderà ed accetterà l’offerta di delle scarpe per non farsi male, di una benda per smettere di sanguinare, di protezioni per sentire meno dolore sui punti più dolenti. Perché possa tornare a sentirsi, e avere le forze di decidere, da sola, di usare le mani per aprire la gabbia, anziché per difendersi dalla bestia.
Che Giulia Tramontano fosse morta per mano del fidanzato #losapevamotutte. E quindi?
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