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Perché è così difficile riforestare l’Amazzonia?

La scorsa settimana l’agenzia di stampa Reuters ha pubblicato un lungo reportage dal Brasile, documentando le sfide e i pericoli che le tante ong ambientaliste affrontano nel tentativo di riforestare l’Amazzonia. Ad esempio Reuters ha parlato con Milton da Costa Junior, membro dell’ong Rioterra, che è stato minacciato con una pistola da due uomini che gli hanno intimato di smetterla di piantare alberi.

Ma le minacce sono solo una delle tante sfide che Rioterra e gli altri gruppi ambientalisti affrontano nel loro tentativo di riforestazione.

Secondo la maggior parte della comunità scientifica, progetti come quelli di Rioterra potrebbero aiutare a rallentare il riscaldamento globale grazie all’ingabbiamento dell’anidride carbonica negli alberi. La riforestazione inoltre aiuta il ripristino e il mantenimento degli habitat della fauna selvatica. Senza contare che nel caso dell’Amazzonia si salvaguarderebbe l’umidità atmosferica responsabile degli acquazzoni che tanto servono ai campi e ai bacini idrici locali.

Tuttavia in Brasile molti agricoltori hanno costruito le loro fortune proprio nella foresta pluviale, e temono che i gruppi ambientalisti vogliano cacciarli dai loro campi. A ciò si aggiungono le frequenti inondazioni stagionali e i numerosi incendi, talvolta di origine dolosa.

E poi c’è il problema dei soldi. L’obiettivo della riforestazione è quello di evitare il cosiddetto “punto di non ritorno”, cioè un livello di disboscamento tale da trasformare l’ecosistema della foresta pluviale in una grande e degradata savana. A tal fine, secondo le stime di Carlos Nobre, uno dei più eminenti climatologi del Brasile, occorre ripristinare un’area di foresta grande il doppio della Germania. Il costo stimato di questa operazione è di 20 miliardi di dollari.

Le operazioni di riforestazione finora sono modeste, anche se in rapida crescita. Alla loro guida troviamo principalmente ong, fra le quali spiccano la già citata Rioterra e la Black Jaguar Foundation, un’ong metà europea e metà brasiliana. Rioterra negli ultimi dieci anni ha ripiantato alberi su una superficie paragonabile a quella di Manhattan, e prevede di raddoppiare questo sforzo entro il 2030. Per portare avanti le sue operazioni Rioterra spende ogni anno circa 2,4 milioni di dollari.

La Black Jaguar Foundation è ancora più ambiziosa. L’ong spera di ripristinare un’area forestale pari alle dimensioni del Libano, spendendo circa 3,7 miliardi di dollari nei prossimi vent’anni. Tuttavia finora tramite finanziatori privati ha raccolto soltanto lo 0,2% dei soldi previsti, riuscendo così a coprire solo lo 0,03% della superficie sperata.  

Nel frattempo la deforestazione dell’Amazzonia prosegue a un ritmo frenetico. Secondo i dati del governo, nel 2022 ad ogni minuto è stata disboscata una superficie pari a tre campi da calcio. In poche ore i disboscamenti illegali distruggono ciò che le ong impiegano un anno a piantare.

Dal 2008 sono stati disboscati circa 123.000 chilometri quadrati di foresta, più o meno quanto il Nicaragua.

Nonostante tutte queste difficoltà, gli scienziati continuano a sostenere che il Brasile sia il paese più adatto per queste missioni di riforestazione. Il Brasile infatti possiede una quantità enorme di terreni precedentemente boschivi che rimangono adatti ad operazioni di ripristino. Gran parte di questi terreni potrebbero riaccogliere porzioni di foresta semplicemente lasciando che la giungla adiacente resti intatta, in modo che possa reclamare naturalmente le superfici disboscate dall’uomo. Inoltre le leggi brasiliane garantiscono un livello di protezione delle foreste di gran lunga superiore rispetto agli altri paesi.

In Brasile la deforestazione è esplosa negli anni ’70 del secolo scorso, quando la dittatura militare al comando del paese ha incoraggiato i cittadini a stabilirsi nel vasto territorio della foresta pluviale.

Poi nei primi anni dell’amministrazione Bolsonaro (l’ex presidente brasiliano che ha governato fino allo scorso gennaio) sono stati tagliati i fondi per la riforestazione, congelando anche il cosiddetto “Fondo Amazzonia”, uno strumento creato dal governo nel 2008 che aveva investito 60 milioni di dollari nella riforestazione di 317 km2 di foresta pluviale.  

Bolsonaro dopo aver perso le elezioni ha lasciato il governo all’attuale presidente Lula, che ha prontamente riaperto il “Fondo Amazzonia”. L’amministrazione Lula si è poi detta pronta ad espandere gli incentivi economici e l’assistenza tecnica atta a rafforzare le operazioni di riforestazione, investendo poi nella crescita della produzione di sementi e alberi.

Ma anche con Lula trattare con gli agricoltori brasiliani rimane un tema complesso.

In Brasile solo nel 2021 sono morti ben 26 ambientalisti. Per questo le ong cercano di evitare guai, sospendendo le operazioni di riforestazione nelle zone dove ricevono più minacce.

Per cercare di risolvere questo problema, i governi brasiliani nel corso degli anni hanno varato diverse leggi atte a creare un sistema di incentivi che spinga gli agricoltori a trattare con le ong ambientaliste. Nel 2012 sono state revocate le multe e i divieti di produzione agricola agli agricoltori che avessero accettato di rendere le loro aziende conformi al codice di riforestazione o che avessero accettato di acquistare terre vergini da proteggere.

Si è poi deciso di sospendere i prestiti bancari agli agricoltori trovati in violazione del codice forestale. La legge ambientale infine richiede agli agricoltori brasiliani di ripristinare collettivamente un’area grande quasi quanto la Siria. Questa legge aiuterà notevolmente il Brasile a riforestare 120.000 km2 entro il 2030, rispettando così l’impegno preso nell’ambito degli Accordi di Parigi sul clima.

Il Brasile è anni luce avanti rispetto alla stragrande maggioranza degli altri paesi. È l’unico ad avere un quadro normativo così sviluppato per le operazioni di riforestazione.

Ha dichiarato Cristina Banks-Leite, ecologista tropicale dell’Imperial College di Londra.

Ciononostante gli agricoltori ostili alle operazioni di riforestazione rimangono numerosi.

Quasi tutti gli incendi nella regione amazzonica sono appiccati da agricoltori con l’intento di creare nuovi terreni per le loro coltivazioni e per il loro bestiame.

Ma salvare l’Amazzonia rimane una missione decisiva per il futuro di ognuno di noi. Rimuovere l’anidride carbonica dall’atmosfera è essenziale per evitare le peggiori conseguenze del cambiamento climatico, e piantare alberi è il modo più economico e semplice per catturare CO2.

Con gli Accordi di Parigi ci si è posti l’obiettivo di limitare il riscaldamento globale entro 1,5 gradi Celsius. Ciò potrebbe richiedere fino a 9,5 milioni km2 di foresta in più entro il 2050. Una superficie verde paragonabile alla superficie degli Stati Uniti.  

Circa il 18% dell’Amazzonia è già stato distrutto. Secondo il climatologo Nobre, se tale cifra dovesse raggiungere il 20-25% e il cambiamento climatico dovesse continuare a peggiorare, la foresta pluviale potrebbe prosciugarsi rilasciando nell’atmosfera una vera e propria bomba di CO2. All’attuale tasso di distruzione questa catastrofe diventerà realtà nel giro di 20/30 anni.

Per Nobre, oltre a fermare la deforestazione, è necessario ripristinare circa 700 000 km2 di foresta, così da evitare l’innesco di questa spirale mortale.

Se si continua così un giorno non avremo fiumi, non avremo foreste, non avremo questa bellissima natura da trasmettere ai nostri figli e nipoti. Nonostante le minacce che ogni giorno dobbiamo affrontare, non possiamo fare marcia indietro. La posta in gioco è troppo alta.

Ha dichiarato Milton da Costa Junior, volontario dell’ong Rioterra.

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1 comment

dario greggio 12/06/2023 at 23:50

non avete nessun futuro.

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