Si perdonerà il tono provocatorio ma chi vi scrive oggi viene da un intenso e appassionante evento organizzato dall’associazione Liberi Oltre le illusioni a tema “scuola italiana”. Due giorni di panel con relatori d’eccezione, tanta dura e cruda realtà, ma soprattutto tantissima voglia di fare e cambiare le carte in tavola.
Non c’è bisogno di prese in giro, chi vive o è a stretto contatto con la scuola lo sa bene: la situazione è gravissima e peggiora di giorno in giorno. Quel sistema che più di ogni altro dovrebbe essere al centro del dibattito pubblico informato e critico, è invece da lungo tempo relegato alla chiacchiera ideologica; dove tutti i problemi ribollono all’interno della stessa categoria che li soffre e, irrisolti, si incancreniscono spingendo lo stesso meccanismo scuola un passo alla volta più vicino al baratro.
Questo articolo risulterà banale per tutti coloro i quali sono avvezzi al tema, tuttavia se si vuole allargare quella constituency necessaria affinché la pressione sulla politica possa produrre dei risultati, occorre mettere un po’ di ordine nel caos e, ognuno nel proprio piccolo, dare un contributo.
Una serie di problemi
Di problemi da elencare ce ne sarebbero indubbiamente molti. Per comodità, chi vi scrive elenca solamente alcuni, quelli maggiormente comprovati da dati empirici e quelli che egli giudica autoevidenti.
- La dispersione scolastica è un dramma di cui si parla troppo poco. I giovani che hanno rinunciato a concludere il ciclo di studi, nel 2020, erano il 13.1%; una delle quote più alte a livello dell’Unione Europea. Questi ragazzi avranno enormi svantaggi sul piano economico-sociale e non è difficile immaginare che molti tra di loro finiranno con il rimpinguare le fila degli, ad oggi, oltre tre milioni di NEET italiani, ossia i giovani che non studiano e non lavorano. Ma oltre alla dispersione scolastica esplicita di cui si è parlato finora, è importante sottolineare il gigantesco elefante nella stanza che tutti nella scuola italiana si rifiutano di guardare: la dispersione implicita, ovvero il fenomeno per cui diversi giovani giungono alla fine del percorso scolastico con dei livelli di apprendimento talmente bassi che, a ragione, si può supporre dimenticheranno del tutto le conoscenze e abilità acquisite.
- Collegata a doppio filo con la dispersione scolastica è la drammatica mancanza di preparazione. I tristemente famosi risultati dei test OCSE – PISA 2018 sono molto chiari: gli studenti italiani sono sotto la media dei Paesi OCSE, le scuole del Nord funzionano meglio (a volte molto meglio) di quelle del Sud, c’è una evidente sproporzione di genere nelle discipline. Quest’ultima, in particolare, evidenzia come gli stereoptipi di genere (per cui, ad esempio, le ragazze non sarebbero portate per le STEM) siano a tutti gli effetti nutriti dal sistema scolastico sin dall’infanzia. Per non parlare del manifesto disprezzo culturalmente coltivato nei confronti di Istituti Tecnici e Professionali (ma questo è materiale per un altro articolo).
- Lo skill mismatch: il fenomeno per cui i giovani neodiplomati o neolaureati che entrano nel mercato del lavoro non hanno le abilità richieste dalle aziende. Banalmente, la scuola italiana non è in grado di fornire gli strumenti utili per muoversi nel mondo.
- La valutazione: in Italia abbiamo la fobia di essere valutati. Gli studenti non ne comprendono il funzionamento meccanico e asettico che spesso subiscono impotenti; i docenti cercano di districarsi tra gabbie burocratiche e amministrative ma, al contempo, temono e rigettano aprioristicamente l’idea di essere valutati a loro volta. Eppure quanto potrebbe fare bene un sistema di valutazione correttamente pensato! (Su questo tema, si consiglia il primo panel dell’evento di Liberi Oltre)
- Dulcis in fundo, la pandemia. Ovviamente questa non rientra nei problemi strutturali della scuola italiana, è stata invece un’emergenza straordinaria che, tuttavia, ha esacerbato le storture dell’istruzione nostrana mostrandole in maniera chiara ed evidente anche a chi sperava di poter continuare a far finta di nulla.
Una radice comune
Sarebbe intellettualmente disonesto sollevare un mucchio di problemi polverosi senza quantomeno tentare di individuare alcune delle cause che li producono; un assist per questo oneroso compito lo offre proprio la recente e lunga polemica sorta con l’introduzione della didattica a distanza (DaD).
Per qualche bislacca ragione che oscilla tra la genuina incomprensione e la metastatica ossessione per la cultura italiana, siamo stati a lungo convinti che tutti i problemi della scuola italiana fossero legati al “come” e non al “cosa” (prendo qui in prestito alcuni concetti e considerazioni da “La quarta rivoluzione” di Luciano Floridi). È meglio la didattica in presenza o a distanza? La lezione frontale oppure quella alla pari? L’apprendimento sui banchi normali o sui banchi a rotelle? Questo metodo oppure quello? Una serie di come sterminata e, in una certa misura, chiusa su se stessa, fortemente limitata. Limitata non perché inutile, anzi, i come sono domande importantissime che meritano una discussione seria e il più scientifica possibile. Tuttavia l’arrovellarsi su tali domande risulta inconcludente quando si dimentica di rispondere al cosa vogliamo che la scuola insegni ai giovani.
Quando si dice che la scuola italiana è gentiliana si sottintende proprio questo: una scuola anacronistica, che non riesce più a fornire ai ragazzi le conoscenze e le competenze necessarie a tentare di capire il mondo. Sia molto chiaro al lettore scettico: Giovanni Gentile era un fascista, non uno stupido. Se la scuola italiana è ancora profondamente elitaria, sbilanciata verso le materie umanistiche, fonte di profondissime diseguaglianze sociali ed economiche è -anche- colpa di chi ha lasciato che, nel 2022, la risposta al cosa fosse fondamentalmente la stessa data da Gentile nel 1923: cultura umanistica elitaria, disprezzo più o meno evidente della tecnica e tutto ciò che fosse necessario al fiero balilla per diventare un vero intellettuale (sic!) italico.
Per citare nuovamente Floridi, non ci siamo accorti che è avvenuto uno scollamento fondamentale tra la cultura, la civiltà e l’istruzione. Essere colti (per esempio ricordare “il 5 Maggio” a memoria) ed essere civili (nel senso di beneducati) sono fenomeni estremamente relativi al luogo in cui si nasce e cresce. È palese che la cultura di un bambino italiano sarà radicalmente diversa da quella di un bambino giapponese. È evidente che un gesto educato negli USA può essere privo di significato o addirittura offensivo dall’altro lato del Pacifico (e viceversa). Tuttavia questa evidenza condivisa nel quotidiano viene meno quando parliamo di scuola; è quasi paradossale. Ma l’istruzione?L’istruzione, ovviamente, non è un qualcosa di facilmente definibile. Sicuramente, però, chiamiamo istruita quella persona che ha terminato un dato ciclo di studi. Ed è sempre su quella strana cosa chiamata istruzione che si giocano i concorsi, i bandi, i premi a livello internazionale basati su meccanismi standardizzati che prescindono da singoli elementi culturali o civili. L’istruzione non è relativa.
Personalmente, definirei l’istruzione come quell’insieme di conoscenze di base, approfondite poi con il tempo e secondo le proprie attitudini, che gli esseri umani ricevono e acquistano tramite i sistemi scolastici. La domanda allora torna ad essere il “cosa”: quali informazioni di base vogliamo che un ragazzo ottenga come punto di partenza nella conoscenza della società dell’informazione del 2022? È pacifico che non esista una sola risposta a tale domanda, ma è altrettanto lampante la complessiva inadeguatezza del sistema scolastico attuale nel fornire conoscenze di base.
La sfida è stata lanciata da molto tempo, ma è ora che venga raccolta da tutti coloro i quali hanno voglia di dibattere seriamente, mettere in discussione le proprie idee e ragionare dei problemi della scuola scientificamente, non arroccandosi nelle ideologie.
Con la scuola ci stiamo giocando il futuro.
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1 comment
Ottimo articolo.
In Italia mi è capitato di dover dare lezioni private di matematica a studenti universitari di Fisica e Biologia provenienti da Liceo Classico e diplomati col massimo dei voti, perché scoprivano troppo tardi di essere assolutamente impreparati ad affrontare una facoltà scientifica.