L’8 dicembre in piazza Duomo a Milano si è tenuta una manifestazione che ha visto coinvolti studenti, genitori e professori e che ha tentato di mettere in luce i problemi che il comparto dell’istruzione italiano ha dovuto affrontare nell’ultimo anno di pandemia. Tuttavia, sappiamo bene che oltre la didattica a distanza c’è una situazione ben più complessa, che vede la scuola come protagonista principale del declino italiano.
In un Paese arretrato è l’istruzione ad essere danneggiata
Nell’arco della crisi pandemica il governo del nostro Paese, malgrado le frequenti pacche sulle spalle, è stato in grado di contraddistinguersi per un’impeccabile puntualità nello sperperare qualsiasi genere di risorsa e nel selezionare accuratamente politiche stataliste, inefficienti, di breve respiro e finalizzate a un unico arricchimento: quello elettorale dei partiti. Naturalmente però le politiche degli ultimi mesi sono solamente la manifestazione di quelli che sono stati anni di abbandono da parte della classe politica di qualsivoglia tentativo di prendere decisioni lungimiranti e che mirassero all’arricchimento sul lungo periodo di tutto il Paese.
Una di queste scelte politiche è stata indubbiamente quella di lasciare chiusi gli istituti scolastici più a lungo di molti Stati dell’Unione, facendo affidamento sul fatto che si potesse raggiungere un livello di operatività simile a quello ordinario anche con la didattica a distanza (DAD). Inutile dire che, nonostante lo sforzo di molti insegnanti, senza un’adeguata preparazione le conseguenze sono state in alcuni casi persino disastrose, andando ad acuire quei problemi che già contraddistinguevano il nostro sistema scolastico, come un’elevata dispersione scolastica e la scarsa preparazione degli studenti in confronto col quadro internazionale.

Una delle cause primarie di questo atteggiamento, sostenuto in primis dalla classe politica, ma in secondo luogo anche da più categorie all’interno della popolazione generale, è stata la concezione secondo cui durante questa contingenza fosse necessario proteggere a tutti i costi il mondo produttivo, sottintendendo che la scuola non possa essere motore di sviluppo economico e sociale. Non credo ci sia bisogno del mio contributo per ammettere come, al contrario, la scuola sia stata, nei luoghi più sviluppati del globo, vettore principale del progresso e del miglioramento delle condizioni di vita della popolazione. In una nazione in cui l’opinione pubblica detenga un benché minimo senso della progettualità parrebbe naturale la conclusione: per continuare a crescere la scuola è il nostro presidio ed essa dev’essere il nostro principale investimento, quindi non possiamo assolutamente permetterci di abbassarne la qualità.
Un’altra delle cause della chiusura è stata l’associazione alle scuole di luogo causa di focolaio: questa è un’obiezione su cui si potrebbe sicuramente discutere, ma ci sono prove che dimostrano il contrario. Per esempio, è del 30 dicembre 2020 un rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità che ha rivelato che i focolai avvenuti in ambito scolastico non hanno mai superato il 4% dei focolai totali nel periodo tra il 31 agosto e il 27 dicembre. Ulteriori controprove a questo argomento sono state poi fornite da uno studio dell’istituto di ricerca tedesco IZA uscito nello scorso ottobre: primo nel suo genere, questo lavoro ha mostrato come in Germania non solo la riapertura delle scuole abbia mantenuto i nuovi contagi sotto controllo, ma abbia anche aiutato a ridurli. Questo principalmente per due motivi: innanzitutto sono state imposte ai giovani misure di igiene molto severe, che hanno impedito che si contagiassero tra di loro, ma in più gli istituti scolastici hanno fatto da tramite per un più efficiente tracciamento, che ha aiutato ad adottare misure preventive alla diffusione del virus.
Perché la DAD in Italia non può funzionare
Non ci bastasse quello che ci siamo già detti, presupponiamo anche – e forse è una supposizione corretta – che non siamo in grado di prendere misure preventive come quelle tedesche: davvero varrebbe comunque la pena lasciare da parte l’istruzione? Considerate le stime, che vedono la possibilità per 34mila studenti delle superiori di abbandonare gli studi, verrebbe da dire il contrario. Del resto il fenomeno dell’abbandono scolastico non è raro in Italia: secondo i dati Eurostat, la percentuale di early leavers (ragazzi tra i 18 e i 24 anni con titolo di studio non superiore alla licenza di scuola media che sono fuori dalla scuola o da altri percorsi di formazione) nel 2019 era in media il 13.5%. Un dato ancora più scandaloso se si pensa che è il quinto più alto su tutto il territorio europeo e che raggiunge picchi incredibili nelle regioni del sud e nelle isole: la percentuale regionale più alta è quella della Sardegna, che si attesta al 23%.
Con le politiche attuali però il gap, sottolineato più volte anche dal lato prettamente didattico dai test Invalsi, potrebbe allargarsi ancora di più. Naturalmente il nostro governo non si è mostrato intenzionato a calibrare la propria azione politica sotto questo punto di vista e infatti non ha neanche messo in campo strumenti di ascolto per comprendere le competenze e le conoscenze non acquisite durante il periodo di DAD. Fortunatamente quest’ultima idea è stata invece presa in considerazione da Paesi più oculati, come Olanda, Francia e Stati Uniti, che come sappiamo hanno avuto misure meno restrittive e che però hanno rilevato gravi e difficilmente riparabili lacune didattiche in seguito alla – seppur breve – chiusura delle scuole.
Non bastasse, questi studi hanno messo in evidenza un altro grave problema: molti non hanno la possibilità di accedere allo stesso modo all’istruzione in didattica a distanza, perché la dotazione digitale cambia a seconda dello studente e non tutti vivono in un ambiente favorevole allo studio. La situazione in Italia sotto questo punto di vista è disastrosa: un report della Commissione Europea ha rivelato non solo che siamo il Paese in cui gli studenti hanno minore accesso a internet in casa, ma anche quello in cui la maggioranza degli studenti non ha una stanza per sé dove studiare in tranquillità. Come pensiamo di poter affrontare una didattica a distanza in queste condizioni, considerata anche l’arretratezza dei docenti italiani in campo informatico?
A queste mancanze strutturali aggiungiamo quindi anche una didattica carente, incapace di adattarsi ai tempi correnti e uguale a se stessa da tempo immemore. Quest’arretratezza è stata dimostrata più volte, ma significativo è il test PISA, che misura le performance degli studenti nella lettura e nella comprensione di un brano, nella matematica e nell’ambito delle conoscenze scientifiche. Su un campione di 79 Paesi, nel 2018 gli studenti italiani hanno ottenuto un punteggio ben minore di quello medio in tutti i campi, ma in particolare in quello scientifico (468 contro 489) e nella lettura, che dovrebbe invece essere molto più sviluppata data l’inclinazione letteraria della nostra scuola (476 contro 487).
Dobbiamo rimboccarci le maniche
Naturalmente, come ogni problema di natura sociale, anche questo è estremamente complesso e sarebbe sciocco da parte mia fornire una soluzione univoca. D’altra parte, ritengo essenziale cercare di focalizzare il dibattito pubblico sul problema scuola e, in generale, su tutti i problemi che in questo momento coinvolgono investimenti futuri per il nostro Paese, perché a problemi complessi abbiamo il dovere rispondere con indagini soppesate e accurate. Se questo avverrà, forse avremo una chance di lasciare alle generazioni future un tessuto sociale non del tutto devastato dalle nostre inettitudini, altrimenti, mentre gli altri crescono, noi resteremo alla deriva nell’oceano delle nostre illusioni.
1 comment
Stupisce che un bravo maturando di liceo classico possa abbandonarsi al “pensiero unico” istituzionale (asse Azzolina-Conte di pura “normalizzazione”) e riportare dati con una certa approssimazione.
Il citato report dell’Iss relativo al 4% dei contagi avvenuti nelle mura scolastiche (in realtà il 3,7%) non tiene conto dei contagi nei percorsi per/da scuola e degli assembramenti davanti ad un istituto scolastico. Tutta la pubblicistica in materia è per questo contraddittoria e va dalla ricerca di Wired che penalizza pesantemente il mondo scolastico in termini di contagi fino al lavoro di Viola-Bucci che è più neutrale. Di certo è incontestabile, come rileva il professor Battiston, che la scuola italiana muova 30 milioni di contatti al giorno tra studenti, docenti, personale scolastico, fornitori e familiari e ciò non è ignorabile in ambito sanitario.
Il dibattito sulla Dad, che non sarà mai la soluzione, è quindi fuorviante e somiglia ad un totem ideologico ad uso di certe nostalgie vetero-sessantottine: non a caso quelli che volevano tornare a tutti i costi in classe, ora continuano a protestare fuori scuola perché “non in sicurezza”. Davvero pensavano che una metropolitana si costruisce in un mese?