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Criticare il marxismo in un paese innamorato del suo linguaggio: una riflessione posticcia sul caso Dufer

In un famosissimo saggio del 1926, “La fine del laissez-faire”, John Maynard Keynes confessava di non riuscire a spiegarsi l’enorme successo del marxismo nella storia del pensiero politico; «come una dottrina così illogica e vuota possa aver esercitato un’influenza così potente e durevole sulle menti degli uomini e, attraverso questi, sugli eventi della storia».

Quella menzione del marxismo, così dura e caustica, era inserita in un contesto più ampio in cui Keynes denunciava la presunta debolezza del marxismo e del protezionismo in opposizione alla dottrina del laissez-faire; dottrina che lo stesso Keynes ha ridotto a un enorme cappello ideologico, tessuto da un’alleanza silenziosa di economisti classici e filosofi utilitaristi. Eppure, quasi cento anni dopo, i dubbi di Keynes permangono irrisolti: com’è possibile che una dottrina come il marxismo non smetta di influenzare le menti degli uomini?

Per molti questa domanda può sembrare capziosa, o peggio ideologicamente schierata. Ma sarebbe il caso di domandarsi per quale motivo, in un paese industrializzato del XXI secolo come il nostro, persista un’atavica insofferenza nei confronti di qualsiasi critica al marxismo. 

Nella comunità social italiana, infatti, non è passata in sordina la pubblicazione di un video critico dello youtuber Rick Dufer, dedicato agli apologeti del marxismo e delle sue colpe. Il video in questione ha infatti scatenato, ai danni dello stesso Dufer, un rigurgito tribale di insulti, minacce di morte e fetida intolleranza intellettuale. Ora ciò che ci preme non è ricostruire l’accaduto a mo’ di cronaca, e nemmeno di prendere le difese di Dufer, il quale non ha certo bisogno di avvocati d’ufficio. Non ha senso contribuire a un dibattito con mere levate di scudi che hanno l’unico effetto di rinsaldare le reciproche tifoserie. Piuttosto ciò che è importante sottolineare è che, a prescindere da come la si pensi, il caso Dufer testimonia dell’intoccabilità di una narrazione (quella marxista per l’appunto) divenuta una specie di santone ideologico che gode di uno status di protezione privilegiato. 

Ma il dato curioso sul marxismo è soprattutto un altro, e cioè quell’inspiegabile fascinazione che lo stesso esercita sui giovani e sulle masse istruite. Intendiamoci: essere marxisti non significa essere ignoranti, piuttosto il mistero deriva da un fatto semplice, quasi banale, ossia dal constatare che il marxismo è una teoria falsa. E lo è da un punto di vista scientifico. 

La storia dell’economia infatti, già da quando scriveva Keynes, si è incaricata più volte di smentire la teoria oggettiva del valore, decretando la morte di tutti i suoi corollari marxisti: plusvalore, caduta tendenziale del saggio di profitto etc. La famosa distinzione tra valore d’uso e valore di scambio, che Marx riprese da Smith e Ricardo (ma che il pensiero economico andava trascinandosi dietro dai tempi di Aristotele) era una distinzione fuorviante, figlia di una teoria che ormai si stava incanalando su un binario morto (ossia quello, grossomodo, del valore-lavoro). Da Carl Menger in poi la teoria del valore ha virato verso il marginalismo, lasciandosi alle spalle l’idea che il valore di una merce dipenda solo dal costo o dalla quantità di lavoro impiegato a produrla. C’è poco da fare. 

È importante sottolineare che non si tratta di un’opinione personale o di una questione interpretativa, ma del semplice perfezionamento di una scienza sociale. Nulla di più, nulla di meno. Asserire il contrario sarebbe un po’ come sostenere il sistema tolemaico ai danni di quello copernicano, o la teoria del flogisto al posto della legge di Lavoisier. Insomma, sarebbe un ostinato anacronismo.

Ma se non può reclamare una piena pretesa di scientificità, da dove sorge l’attrazione per il marxismo, soprattutto fra i giovani? Per chi scrive una risposta possibile è la seguente: la fascinazione per il marxismo viene dal suo linguaggio, dalla sua retorica piena di parole altisonanti ed evocative; quelle parole che ti danno la sensazione di aver scoperchiato il vaso di Pandora dei meccanismi sociali. Il marxismo non è una semplice filosofia, tantomeno una teoria scientifica. Il marxismo è una pratica linguistica, e lo è per almeno un paio di caratteristiche. 

In primo luogo perché fa uso di un lessico che assomiglia a una rivelazione divina, piuttosto che a una scienza. Prendiamo il termine “capitalismo”. “Capitalismo” è una catch-all word, un concetto talmente vago che spesso non ha nessun significato e che, per così dire, non designa alcun oggetto concreto nel mondo. Esistono talmente tante varietà e sfumature di ciò che un marxista chiama “capitalismo” che il termine di per sé può voler dire tutto e niente. Per darle un valore la parola andrebbe quantomeno circostanziata, cosa che si fa nei dibattiti seri. Ma quando sentiamo espressioni sibilline come “crisi del capitalismo” (che va in crisi ogni due anni bisestili), “ultra-capitalismo” et similia; ebbene tali espressioni trovano forza nel tono professorale che conferiscono al parlante. Dire “crisi del sistema dell’iper-capitalismo finanziario” comunica all’uditorio un non so che di profondo, quasi divinatorio. Peccato che nella sostanza non si sia detto nulla: è un’operazione magistrale di semplificazione, mascherata da un incantesimo linguistico.

In secondo luogo il marxismo veicola una narrazione potentissima: quella dell’eroe che lotta contro un fantomatico sistema. Non importa se il “sistema” in realtà non è definibile, non importa se la nostra è una società ad altissima complessità che non si lascia ricondurre a uno. Al marxismo importa solo di costruire una vera e propria epica della liberazione, che si nutre del fascino eroico del ribelle, via via incarnato dalla classe rivoluzionaria di riferimento. E questo perché proviamo un malcelato piacere intellettuale nel non sottoscrivere quel vasto sistema di diritti, libertà, consumi, merci di cui godiamo ogni giorno ma verso cui facciamo finta di provare disprezzo. Il marxismo, da questo punto di vista, è una postura intellettuale molto comoda, perché consente di tenere il piede in due staffe: critici sì, ma solo a patto di continuare a beneficiare del tanto odiato “sistema” (ammesso che questa parola significhi qualcosa). 

Oggi essere marxisti, dunque, significa adottare uno specifico codice linguistico, che spesso funge da retroterra lessicale di stilemi retorici diffusissimi: antiglobalizzazione, critica del consumismo, anti-individualismo, elogio della decrescita felice e via enumerando. Perciò attaccare il marxismo non è come attaccare una semplice idea, ma vuol dire attaccare qualcosa di molto simile a ciò che Wittgenstein chiamava “forma di vita”, e cioè un complesso di usi linguistici che concorrono a definire le abitudini e le credenze di una comunità di parlanti. È per questa ragione che il marxismo è in un certo senso un totem intoccabile; è per questa ragione che lo stesso Dufer, in un video successivo, è costretto a chiedersi da dove venga quella paura, quasi irrazionale, che ha spinto tanti ad attaccarlo per metterlo metaforicamente a tacere.

Quella paura è il meccanismo di autodifesa di una forma di vita molto radicata, ma decisamente intollerante verso qualsiasi corpo estraneo che rischi di intaccarla. Una forma di vita che si finge elitaria, ma che in realtà, anche dopo la disgregazione di uno dei partiti comunisti più forti di tutta l’Europa occidentale, ha continuato a nutrire il sottosuolo politico e culturale di intere generazioni italiane. 

Onore quindi a Rick Dufer: ci vuole una sana dose di coraggio per criticare il marxismo in un paese così innamorato del suo linguaggio.

2 comments

Giuseppe Lucchesini 26/11/2020 at 22:46

Mah. Parlare di “intoccabilità del marxismo” in un Paese in cui Marx è stato sradicato dalla vita politica nazionale (ora anche gli ex-comunisti si ammantano di anticomunismo) e persino dalle librerie, beh, mi sembra abbastanza paradossale. Sarò strano io.

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Stefano tritto 28/11/2020 at 21:57

Povera filosofia, infangata da gente che critica cose che si è guardata bene dallo studiare; che assume come ovvia una teoria cumulativa della conoscenza come fosse un fatto e che riduce una discussione teorica a un’opinionismo degno dei programmi della D’Urso.

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