Chiunque abbia avuto la sfortuna di ascoltare i maggiori telegiornali italiani avrà notato non solo che i servizi dedicati alla pandemia rappresentano la maggioranza (se non la totalità) delle notizie, ma anche, e soprattutto, che il tema viene trattato non con la razionalità e il distacco neccessari, ma in maniera piuttosto grossolana e con troppa enfasi sull’empatia.
Siamo esseri umani, ci piace ascoltare e raccontare storie, ma se da un lato queste possono essere utili a spiegare un fenomeno, ci sono casi in cui possono risultare fuorvianti. Spetta dunque al giornalista, almeno in teoria, capire quando il racconto del singolo caso di un fenomeno può essere utile alla spiegazione del complesso e quando invece è meglio mantenere una visione più oggettiva. Non stupisce che in Italia si tende a fare l’opposto.
Le storie funzionano perché si basano sull’empatia: se mi parli di una persona che come me ha degli affetti e delle emozioni, io tendo a identificarmi e a sentire emotivamente ciò che l’altro prova. Non è niente di nuovo, è un meccanismo alla base della letteratura e della poesia più antica, tuttavia una comunicazione basata sull’empatia, se traslata su problemi complessi e di interesse pubblico, può portare a gravi fraintendimenti.
Citando Paul Bloom, “l’empatia è come un faro che dirige attenzione e aiuto dove è richiesto”. Tuttavia, questo significa che “l’empatia è limitata dal fatto che si concentra solo su singoli individui”. Dunque, sebbene l’empatia possa avere un ruolo centrale nella nostra moralità (basti pensare alle argomentazioni a riguardo di Hume e Smith), quando si tratta di comprendere e risolvere problemi conviene affidarsi piuttosto alla ragione. Infatti l’empatia ci porta a sovrastimare i problemi presenti e sottostimare i costi futuri. La razionalità ci permette di calcolare i vantaggi e gli svantaggi di una certa azione, ma richiede tempo; una risposta empatica invece è automatica e rapida. Spesso infatti un’azione motivata dall’empatia non è la migliore. Dunque, sostiene Bloom, “è solo quando sfuggiamo dall’empatia e ci affidiamo invece all’applicazione di regole e principi o su un calcolo di costi e benefici che noi possiamo, per quanto possibile, essere giusti e imparziali”.
Considerate queste premesse, dovrebbe essere evidente l’errore che molti media, tradizionali e non, fanno comunicando notizie relative alla pandemia affidandosi a narrazioni parziali ma emotivamente toccanti. È un errore che ha i suoi vantaggi sul breve termine per l’autore, a causa dell’impatto maggiore che l’empatia ha rispetto alla ragione, tuttavia rappresenta un grave danno all’informazione: non permette di comprendere da un punto di vista razionale e distaccato il reale stato delle cose.
Una retorica basata interamente sulla drammaticità che un evento come una pandemia rappresenta sulla vita di moltissime persone, se non è controbilanciata da un’analisi seria e puntuale dei dati, rischia di far passare in secondo piano l’andamento effettivo della situazione. Raccontando solo del dolore lacerante delle persone che hanno perso i loro cari e di famiglie distrutte, si fanno prevalere i sentimenti e le passioni più immediate senza produrre alcun risultato concreto. La paura e il panico sono enormi impedimenti a una competente capacità di decisione.
Lo sappiamo che eventi tragici come una pandemia producono molta, troppa sofferenza, ma non è parlando delle persone morte e delle lacrime che possiamo pensare di migliorare la situazione. Un’informazione seria e responsabile dovrebbe fornire i dati, spiegare le cause, mostrare alcune possibili soluzioni, indagare sui motivi di certe decisioni che vengono prese. Sono questi gli strumenti con cui si combatte la disinformazione e lo scetticismo di molti, ed è su queste basi che si dovrebbero prendere e valutare le decisioni politiche.