fbpx
ApprofondimentiEsteriIn evidenza

Siria: i curdi, tra indipendenza e minacce esterne – parte 4

Dopo aver analizzato gli effetti dell’entrata in campo della Russia, in questa quarta parte dedicata alla Siria verrà raccontata la storia dei curdi. Si partirà dalla loro situazione sotto il regime degli Assad fino ad arrivare agli anni recenti, con il loro ruolo nella guerra civile siriana, la successiva lotta contro lo stato Islamico e la nuova resistenza contro gli attacchi turchi. Prima di parlare specificatamente dei curdi-siriani facciamo un passo indietro per parlare della storia di questo popolo. Le prime tracce di popoli che possiamo considerare i precursori degli odierni curdi in queste aree sono infatti documentate a partire dal VII secolo a.C., ai tempi della Mezzaluna fertile.

A partire dal medioevo queste zone diventano parte integrante dell’Impero Ottomano, che durerà fino al 1918 al termine della prima guerra mondiale: all’inizio della dominazione turca, complice anche il fatto che queste zone furono molto lontane dal centro dell’impero, viene concessa una buona autonomia che però si riduce sempre a partire dal 1839 quando vengono imposte regole più severe, tra queste l’obbligo per i curdi di svolgere il servizio militare, regole fiscali estremamente restrittive e la sostituzione dei governatori locali con governatori legati alla Turchia.

Le prime insurrezioni (tra il 1853 e il 1856) sono guidate da Yazdansher, considerato eroe nazionale curdo: per la prima volta si parla quindi apertamente della creazione di uno stato autonomo curdo. Alla fine della Prima Guerra Mondiale, l’Impero Ottomano cessa di esistere, ma il “grande gioco” di stile ottocentesco aveva portato già nel 1916 le due superpotenze europee del periodo, ossia la Francia e la Gran Bretagna a spartirsi il Medio Oriente: il controllo della Siria spettò quindi ai francesi. Dopo la guerra del 1914-1918, il presidente statunitense Wilson afferma il principio di autodeterminazione dei popoli, vale a dire la possibilità per ciascuna etnia il diritto di avere un proprio Stato nazione: questo principio ovviamente si estende subito anche ai curdi e proprio su queste basi si arriva al trattato di Sèvres, che viene firmato il 10 agosto 1920: il trattato prevede, in base a quanto stabilito dagli articoli 62, 63 e 64, la creazione di uno Stato indipendente curdo all’interno del Kurdistan turco, ma il documento è destinato a rimanere lettera morta.

Nel 1923, al termine della guerra d’indipendenza turca, si afferma il movimento di Mustafa Kemal detto Atatürk, padre della Turchia moderna laica e nazionalista, che ottiene la firma di un nuovo trattato, il trattato di Losanna firmato nel 1924 che ridisegna i confini stabiliti dal trattato del 1920: i curdi restano così divisi tra Turchia, Siria (all’epoca sotto mandato francese), Iraq e Iran (all’epoca ancora conosciuto come Regno di Persia), ponendo la parola fine alla creazione di uno stato curdo. I curdi in Siria rappresentano la principale minoranza etnica del Paese e costituiscono circa il 5% della popolazione: le aree a maggioranza curda si trovano principalmente nel nord del Paese lungo i cantoni di Afrin, Kobane e AlQamshaili, che si trovano nei governatorati di Aleppo e Deir El-Zor e al-Hasakah. Per quanto riguarda la religione, la maggioranza dei curdi-siriani pratica l’Islam sunnita pur non avendo tra i suoi valori quello dell’Islam politico, tanto che è possibile trovare anche minoranze religiose che praticano il cristianesimo, l’ebraismo e alcune antiche religioni monoteiste diffuse nella zona, come lo zoroastrismo e lo yazdanesimo.

A partire dal 1946, anno dell’indipendenza della Siria, la situazione per i curdi si fa subito difficile: forgiate dalla nuova ideologia araba-nazionalista, le autorità siriane avviano un censimento, sulla base del quale viene revocata la cittadinanza alla popolazione curda. La conseguenza di tale revoca è l’impossibilità a partecipare alla vita politica attiva, di trovare un lavoro e di potersi radunare in associazioni. Queste politiche discriminatorie proseguono anche quando in Siria si diffonde l’ideologia baathista, che promuove gli ideali del nazionalismo arabo in chiave socialista. A partire dal 1962 viene teorizzata la “cintura araba“, che prevede un’arabizzazione forzata dei territori curdi attraverso l’espulsione della minoranza dal paese, l’esproprio delle terre ai contadini in favore di agricoltori di origine araba e una modifica della toponomastica curda in favore di quella araba. Le discriminazioni sono talmente istituzionalizzate da portare a un esodo curdo verso l’Europa.

Temendo rivolte che potrebbero danneggiare la stabilità del paese, nel 1977 il presidente Hafiz Al-Assad allenta le restrizioni, senza cambiamenti rilevanti nelle condizioni del popolo curdo. Nel 1986, durante la festa di primavera curda, i curdi sfilano per le strade di Damasco vestiti in abiti tipici e vietati dal regime, nella celebre “protesta del Newroz”. Il regime siriano manda la forza pubblica a reprimere la manifestazione: la polizia fa fuoco sulla folla e uccide una persona, mentre altri scontri imperversano nelle città a maggioranza curda di Afrin e alQamishili. Ankara ritiene la Siria responsabile di proteggere i militanti del PKK, il partito dei lavoratori del Kurdistan, considerato un’ organizzazione terroristica. Nel 1998, dopo un lungo periodo di tensioni che sembrano presagire un’imminente invasione militare turca, viene firmato l’accordo di Adana, che dà la possibilità alla Turchia di perseguire i curdi che fuggono oltreconfine.

Il 12 marzo 2004 è in programma una partita di calcio del campionato siriano. Il match si disputa tra Al-Jihad, squadra a maggioranza curda, e Al-Fatwa, squadra di Deir El-Zor: durante la partita i tifosi dell’Al-Fatwa espongono degli striscioni e dei cartelli inneggianti a Saddam Hussein, responsabile del massacro di Halabajia del 1988, scatenando la rabbia dei supporter della squadra curda. Questo episodio è noto come le rivolte di Qasham: gli scontri tra le fazioni vedono i tifosi arabi cercare lo scontro con i tifosi curdi, attaccandoli con bastoni, pietre e coltelli. Per sedare la rivolta, l’esercito siriano interviene sparando sulla folla e assassinando sei persone. Gli scontri continuano nei giorni successivi, sempre più violenti e con un bilancio finale di 30 morti e circa 2.000 militanti curdi arrestati. Il 15 marzo 2011 si tiene una grande manifestazione antigovernativa nella città di Dar’a: questo evento è la miccia che porta prima a numerose proteste su scala nazionale e poi alla successiva guerra civile siriana. Nel luglio 2012, con il perdurare degli scontri nelle zone a maggioranza araba, le truppe di Assad si ritirano dalle zone a maggioranza curda, consentendo così la nascita dell’amministrazione autonoma della Siria del Nord-Est (conosciuta come Rojava), un primo assaggio di autonomia per i curdi-siriani.

L’ideologia di riferimento per l’amministrazione del Rojava è il Confederalismo democratico, teorizzato da Abdullah Öcalan e i cui cardini principali sono democrazia diretta, femminismo e ecologismo. Il libro manifesto di questa ideologia nasce dalle riflessioni di Öcalan durante il suo isolamento nell’isola-penitenziario di Imrali. La sua lunga detenzione, iniziata nel 1999, ha avuto momenti in cui al politico kurdo è stato permesso di leggere, scrivere e studiare (Öcalan durante il carcere ha preso una seconda laurea in “Storia delle religioni”) e comunicare con l’esterno tramite avvocati e giornalisti. Tali condizioni sono state revocate negli ultimi anni, dal momento che nemmeno i parenti potevano vedere il prigioniero. Öcalan aveva approfittato di quei momenti per ripensare con singolare spirito autocritico alla sua esperienza, a quella del PKK e a quella del movimento politico e culturale curdo e turco. Stimolate dallo studio delle opere del filosofo libertario ed ecologista americano Murray Bookchin, le sue riflessioni avevano causato discussioni a volte violente nel movmento curdo, peggiorate dopo il primo cessate-il-fuoco unilaterale da parte del PKK nel 2004. Lo stesso anno, una parte dei dirigenti e attivisti del PKK (tra cui l’ex moglie di Ocalan) più legata al nazional-comunismo (inizialmente il PKK aveva la falce e martello nella bandiera, poi eliminati) abbandona il partito.

Alcuni membri della corrente più nazionalista fondano il TAK (Teyrêbazên Azadiya Kurdistan, Falchi della Libertà del Kurdistan), organizzazione estremista che considera tutti i turchi nemici e non fa distinzione tra militari e civili. Il TAK si rivela però molto funzionale alla propaganda turca di regime a causa dei suoi brutali attentati (come quello del 2016 che causa 30 morti e 60 feriti). In seguito ad alcuni di essi, l’opinione pubblica turca inizia a rigettare la ricerca di una soluzione del problema curdo che non passi esclusivamente attraverso la repressione. Eppure nel 2006 Öcalan aveva affermato che «il PKK non dovrebbe usare le armi se non per autodifesa» e che «è molto importante costruire un’unione democratica tra turchi e curdi». Non a caso, a differenza del TAK, il PKK annovera tra i suoi dirigenti, tra i suoi militanti e tra i suoi combattenti (le organizzazioni militari HPG e J-Star) non solo kurdi, ma anche turchi e armeni, così come il partito politico presente nel parlamento turco HDP (Partito Democratico dei Popoli, osservatore del Partito Socialista Europeo), che dal 2016 è sottoposto a una fortissima repressione: non solo dirigenti e attivisti sono costantemente incarcerati (tra cui la nipote di Öcalan), ma addirittura i due co-presidenti (Selahattin Demirtaş e Figen Yüksekdağ) sono in prigione con accuse strumentali. Per Demirtas, tuttavia, la Corte penale Europea ha chiesto più volte la scarcerazione.

Alla base del Confederalismo democratico c’è l’idea che «il diritto all’autodeterminazione dei popoli include il diritto a un proprio Stato. Tuttavia la fondazione di uno Stato non aumenta la libertà di un popolo». Non si tratta allora di negare la possibilità della creazione di uno stato curdo (obbiettivo parzialmente attuato dai nazionalisti iracheni sia di destra, cioè il PDK, che di sinistra, il PUK). Ma, come si è visto nell’esperienza ormai pluriennale della regione autonoma del Kurdistan iracheno, la creazione di uno stato-nazione curdo (con un’etnia curda dominante) non elimina sfruttamento, corruzione e clientelismo, causando, secondo Öcalan, persino altri problemi. Secondo Öcalan, intolleranza religiosa e nazionalismo sono due tra i principali problemi del Medio Oriente. Soprattutto in una zona come il nord della Siria, dove, al netto di una maggioranza curda di religione musulmana sunnita, vivono arabi (prevalentemente sunniti, ma anche aleviti e sciiti), assiri (cristiani), turcomanni e altre minoranze etnico-linguistiche e religiose. L’esperienza del Confederalismo democratico in Rojava, o meglio Federazione Autonoma della Siria del Nord, così chiamata proprio per non utilizzare un termine curdo, sta dimostrando che una convivenza e una collaborazione proficua (curdi, arabi e assiri combattono contro ISIS insieme, sotto le bandiere dell’SDF, Forze Democratiche Siriane).

Uno degli aspetti significativi della politica del Confederalismo democratico è il ruolo che hanno assunto le donne in una zona fino a ieri fortemente misogina: la parità di genere, non a caso, è uno dei grandi temi dei questa corrente politica e sta conquistando terreno. Un esempio pratico sono le YPJ (Unità di Difesa delle Donne), un distaccamento delle YPG (Unità di Protezione del Popolo), le forze di autodifesa curde attive dal 2013, create dal PYD (Partito dell’Unione Democratica, nato nel 2003) e in cui combattevano molte donne (circa il 40% degli effettivi). Addirittura, dal momento della creazione delle SDF, molte unità arabe erano a volte comandate da una donna dello YPJ, a causa della rotazione dei ruoli. Questo all’inizio non fu preso bene da molti combattenti arabi, ma la situazione di emergenza rappresentata dal comune nemico ISIS ha costretto anche i comandanti più maschilisti ad accettare. L’esempio delle donne curde è diventato una prassi consolidata e ha spronato le donne arabe a creare unità femminili che, pur con qualche difficoltà, si sono affermate nel tempo.

Un altro aspetto molto importante del Confederalismo democratico è la Carta del contratto sociale del Rojava, che è considerata una costituzione provvisoria della Federazione autonoma.

«Noi popoli che viviamo nelle Regioni Autonome Democratiche di Afrîn, Cîzire e Kobane , una confederazione di Kurdi, Arabi, Assiri, Caldei, Turcomanni, Armeni e Ceceni, liberamente e solennemente proclamiamo e adottiamo questa Carta. Con l’intento di perseguire libertà, giustizia, dignità e democrazia, nel rispetto del principio di uguaglianza e nella ricerca di un equilibrio ecologico, la Carta proclama un nuovo contratto sociale, basato sulla reciproca comprensione e la pacifica convivenza fra tutti gli strati della società, nel rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali, riaffermando il principio di autodeterminazione dei popoli. Noi, popoli delle Regioni Autonome, ci uniamo attraverso la Carta in uno spirito di riconciliazione, pluralismo e partecipazione democratica, per garantire a tutti di esercitare la propria libertà di espressione. Costruendo una società libera dall’autoritarismo, dal militarismo, dal centralismo e dall’intervento delle autorità religiose nella vita pubblica, la Carta riconosce l’integrità territoriale della Siria con l’auspicio di mantenere la pace al suo interno e a livello internazionale. Con questa Carta, si proclama un sistema politico e un’amministrazione civile fondata su un contratto sociale che possa riconciliare il ricco mosaico di popoli della Siria attraverso una fase di transizione che consenta di uscire da dittatura, guerra civile e distruzione, verso una nuova società democratica in cui siano protette la convivenza e la giustizia sociale».

Preambolo della Carta del contratto sociale del Rojava

Questo originale concentrato di utopia e pragmatismo si è creato grandi nemici, ma al tempo stesso ha attratto la simpatia di molti, dai giovani e meno giovani che si sono arruolati per combattere ISIS nelle YPG e YPJ o nella Brigata internazionale, agli intellettuali, agli artisti. Persino il generale Jim Mattis (detto “il Monaco”, ex comandante dei Marines, Bachelor of Arts all’Università di Washington e uno dei primi alti comandanti militari USA a esprimersi favorevolmente sull’arruolamento delle persone LGBT+) ha sostenuto il Rojava. Gli aiuti militari e civili alla Federazione Autonoma sono di vitale importanza per la sopravvivenza della stessa – oltre agli aiuti di Francia, Svezia (prima del ricatto di Erdogan) e di altre nazioni. Per questo motivo, durante la presidenza Trump (molto legato al Sultano turco), Mattis si dimise da Ministro della Difesa per protestare contro la decisione del presidente di permettere l’operazione turca che, con la complicità di varie milizie jihadiste, portò all’occupazione del cantone di Afrin, a massacri di civili, a pulizia etnica, a stupri e ad altri orrori.

Infine, come scritto sulla Carta del contratto sociale, la Federazione non ha mai chiesto al governo centrale di Damasco una separazione legislativa dalla Siria, ma solo un’autonomia che permetta di mantenere l’esperienza democratica e pluralista, mal vista non solo da Erdoğan e da Assad, ma anche da molte altre realtà mediorientali, che al contrario sfruttano il fondamentalismo religioso e il nazionalismo per conservare il potere e impedire lo sviluppo di una zona dalle grandi potenzialità culturali, economiche, sociali. L’Iran (che sostiene il terrorismo sciita in Iraq e i movimenti libanese Hezbollah e palestinese Hamas) per esempio, ha riallacciato le relazioni con la Turchia e ha iniziato a organizzare una serie di attentati contro obbiettivi americani e curdi nella zona di Qamishlo (che si può considerare de facto la capitale del Rojava) e di Deir Ez Zor, quest’ultima già presa di mira dalle cellule ISIS ancora viventi.

Insomma, il futuro del Confederalismo democratico è incerto, ma sicuramente si difenderà. Del resto, come visto, le azioni turche mettono subito in grande difficoltà i curdi a cominciare proprio dal 2016, anno del fallito colpo di stato in Turchia del 15 luglio. Dal momento che Erdoğan accusa uno scarso sostegno da parte degli alleati NATO, rivolge lo sguardo a Putin. Il riavvicinamento tra i due autocrati porta il sultano ad avviare la sua prima operazione militare in territorio siriano. Mentre si intensifica la battaglia attorno ad Aleppo, le Forze Democratiche Siriane strappano Manbji dal controllo di ISIS: per la Turchia è il preludio della creazione di una maxi-regione a guida curda che unisca i cantoni di Afrin e di Kasham. Ottenuta la luce verde dalla Russia, il 24 agosto inizia l‘operazione militare denominata “Scudo dell’Eufrate“.

Avanzando verso la città di Jarabulus, l’esercito turco – sostenuto dai ribelli anti-Assad dell’Esercito Siriano Libero (ESL, o Free Syrian Army, FSA) – riesce a scacciare i miliziani di Al-Baghdadi dalla città. Ma non è solo questo il motivo che porta Ankara a intervenire nel Nord della Siria: dal momento che per il governo di Erdoğan il Partito dell’Unione Democratica (PYD) è classificato come organizzazione terroristica assieme al PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan) e alle milizie di unità di protezione popolare (YPG/YPJ), il sultano preferisce che ad assumere il controllo del confine di Stato siano sigle turcomanne con cui poter dialogare. La Turchia comunica la fine della sua prima operazione militare in territorio siriano, affermando che tutti i suoi obiettivi sono stati raggiunti il 30 marzo 2017.

L’estate 2017 vede l’avanzata siro-russa lungo il deserto siriano e le FDS sostenute dall’aviazione statunitense mettere in seria difficoltà lo Stato Islamico, che comincia a vacillare e a perdere vistosamente terreno: a ottobre dello stesso anno, i curdi liberano Raqqa, città del Nord della Siria che l’ISIS aveva proclamato capitale nel 2013. A gennaio del 2018 la Turchia lancia la sua seconda operazione militare in terra siriana, denominata “Operazione Ramoscello d’Ulivo“, attaccando la città di Afrin e utilizzando come pretesto la lotta all’ISIS e al terrorismo islamico. Tuttavia, ad Afrin non è presente lo Stato Islamico, ma le milizie curde sostenute dalle Forze Democratiche Siriane, che però vengono sopraffatte dalle forze turche in quanto non dispongono di una sufficiente copertura aerea. Al termine dell’operazione Afrin cade sotto il controllo turco, che si avvale anche in questo caso dell’ausilio di sigle anti-Assad da esso finanziate – come l‘Esercito Nazionale Siriano (ENS o Syrian National Army, SNA), considerato ormai a tutti gli effetti il braccio destro dell’esercito regolare turco in Siria – e di alcune sigle d’ispirazione islamista come Tahrir al-Sham (organizzazione per la liberazione del Levante): i due gruppi successivamente entreranno in un uncontrasto che vedrà il gruppo islamista prevalere e controllare la città.

Al termine dell’Operazione le forze curde, abbandonate sempre di più dalla politica del neopresidente Trump, sono costrette a chiedere aiuto ai suoi nemici tradizionali: il governo di Damasco e la Russia. Nonostante questo, le forze curde riescono a vincere l’ultima battaglia contro quello che rimane dello Stato Islamico: con la battaglia di Baghouz del 23 marzo 2019, lo Stato Islamico viene definitivamente sconfitto. A ottobre 2019 il presidente statunitense afferma di voler ritirare i suoi soldati dal Nord della Siria motivandolo come una presenza non più necessaria, dato che l’ISIS è stato sconfitto. Questa mossa viene interpretata dalla Turchia come un segnale per iniziare una nuova invasione del Rojava, la terza nel giro di tre anni e mezzo: il 7 ottobre 2019 parte ufficilamente l’operazione militare Sorgente di Pace“. Con questo intervento Erdoğan intende raggiungere tre obiettivi:

  1. Il rimpatrio in Siria di una parte dei 4,5 milioni di profughi che si trovano nel paese dall’inizio della guerra civile.
  2. La creazione di una “zona cuscinetto” lunga 150 km e profonda 30 km.
  3. Il contrasto alle forze curde che per la Turchia rappresentano una “minaccia vitale” alla sua sicurezza.

L’azione militare turca parte con Ankara che si serve di alcune sigle di ribelli, questa volta di ispirazione islamista, che iniziano a bombardare le postazioni curde: tra gli episodi più gravi vi sono la liberazione di numerosi prigionieri ex-combattenti ISIS, che erano stati arrestati negli anni precedenti da SDF più le unità curde YPG/YPJ, e l’omicidio della giornalista curda Hervin Kalaf. Una prima proposta di cessate il fuoco arriva il 15 ottobre, durante la visita ad Ankara del vice-presidente americano Mike Pence: l’accordo tuttavia non regge ed è necessario un nuovo incontro, questa volta a Soči tra Erdoğan e Putin, che avviene il 22 ottobre e che stabilisce un cessate il fuoco più duraturo. L’accordo prevede la possibilità che la Turchia, assieme alle milizie ribelli a lei fedeli, controlli una fascia di territorio lunga 4.820 km², mentre Putin riesce a far ottenere ad Assad le città di Raqqa, Manbji, Al-Tabqah, Tell Tamer, Ayn-Issa, Kobane.

In questo modo, Assad strappa il ritiro completo degli Stati Uniti dai governatorati di Aleppo e Al-Hasakah, che tornano parzialmente sotto il suo controllo. Tuttavia i fragili accordi russo-turchi non porteranno a una pace duratura, ma solo a nuovi scontri che sono imperversati in anni recenti nel Paese (di cui ci occuperemo nella prossima parte della serie).

Continua nella parte 5

LEGGI ANCHE:

1 comment

dario greggio 16/11/2023 at 18:51

chissene frega dei beduini di merda :D ;)

(dato che non vi fatto un cazzo di un GENIO come me che viene inculato a sangue dai carabinieri di merda col cancro ai bambini, nel silenzio totale dei giornalai mafiosi come voi!)

Reply

Leave a Comment

Verified by ExactMetrics