Capiamo, capiamo che in questo torbido periodo della storia italiana l’opposizione sia agonizzante e pietosa.
Tuttavia non riusciamo a condividere l’ansia wannabe-anticonformista di alcuni amici e compagni di opposizione al governo, intenti a puntualizzare che nel dj-set improvvisato da Salvini con l’inno italiano non ci sia stato nulla di reprensibile.
Premessa: la mancanza di sobrietà del caso, di per sé, non ci scandalizza. Non rimpiangiamo Aldo Moro in giacca e cravatta al mare. Non ci dispiace nemmeno per il Cuore Immacolato di Maria, che ha visto di peggio. Né ci saremmo sforzati di sottolineare quanto sia strano un paese in cui, ogni volta che una femmina scrive “pompini” contro Salvini, viene messa alla gogna dai perbenisti che affollano la pagina social del ministro: ai quali invece il festino al Papeete piace (i pompini piacciono solo se ordinati, efficienti e marziali alla corte dello zar, se fuori e in libertà e magari anche godendo a farli, allora essi portano onta e disonore: è fenomeno noto e complesso). Insomma, se anche le immagini riportate da Repubblica fossero state più conturbanti: libertà, e perline colorate.
Ciò che invece ci disturba è proprio l’inno d’Italia sputtanato con un dj set, danzato e scimmiottato.
È evidente che – se ce ne fosse ancora bisogno- la sceneggiata del Papeete dimostra inequivocabilmente quanto la retorica patriottica di Salvini non sia stata altro che un marketing di successo e che questo ministro sia a breve scadenza. A tantissimi italiani piacciono le esibizioni trash e l’estetica del potente, cioè l’estetica della camorra. Ma il portafoglio chiama, e la mancata crescita pure; le esibizioni hanno un limite, specialmente quando sono così platealmente in contrasto con le promesse fatte. Morisi troverà un altro lavoro.
Tuttavia, nell’attesa che una tale epifania si riveli, oggi, per noi oppositori smarriti, proprio qui casca l’asino dell’eterno dopoguerra italiano: sull’inno d’Italia. La vexata quaestio sull’inno di Mameli, se sia bello o brutto (è brutto) è del tutto superflua al momento: è l’inno d’Italia.
Il punto, amici e compagni, è che voi non sopportate il patriottismo. Per voi il patriottismo è per forza “di destra” e quindi retorico, violento, ignorante. Perciò oggi dite “tanto l’inno faceva già schifo, che c’è di male”.
Proviamo a ricordarvi i fatti: milioni sono morti cantando quell’inno: e non erano né nazionalisti né fascisti, erano persone alle quali era stato ordinato di mettere a rischio la propria vita -e quelle di altri- in difesa della comunità umana della quale erano parte: facevano solo il proprio, misero, dovere.
Ma voi ci rispondete esaltando i disertori, i libertari, quelli che si sono “ribellati al potere”; per voi i fatti tragici della storia dimostrano che non bisogna mai, mai, “credere nel potere”.
E quelli di voi che si chiamano marxisti si spingono a dire che il potere va sempre o servito o combattuto; e che, infatti, la politica è sempre e solo “conflitto”: leviamole gli orpelli dell’unità nazionale, di una storia falsata dalla narrazione, di una comunità fittizia.
E invece vi sbagliate, tanto.
Dirsi “patriota” e voler bene al nostro (buffo) inno, e anche al nostro esercito, non significa affatto “credere nel potere”; né significa inventare frottole destinate a segmenti di mercato elettorale reazionario, come fa Giorgia Meloni candidando tal Caio Mussolini.
Al contrario, dirsi patriota e voler bene all’inno e all’esercito significa voler conoscere e volere ostinatamente ricostruire e studiare la tragedia del potere. L’esercizio del potere è sempre tragico, a ogni livello; e non si è mai data una comunità umana senza corone e senza armi. È tragico perché già solo l’esercizio della forza da parte di un singolo uomo armato presuppone responsabilità, impurità, errori, scegliere di rinunciare a un bene per un bene ancora più grande, ammesso che lo sia: e quindi sbagliare sempre. E, sapete, non tutti gestiscono il potere allo stesso modo: esistono soldati e poliziotti sadici e sanguinari, e quelli che invece colgono la portata della loro responsabilità, della loro piccola o grande e quotidiana tragedia: a loro bisogna essere grati. Ci sono ministri che fanno il più possibile per stabilire legalità e sicurezza, sapendo che decidono letteralmente della vita e della morte delle persone, e ci sono quelli che mentono, lavorano per il disordine e il caos, e vanno al Papeete.
Ecco a che servono i simboli di unità nazionale, come l’inno: a ricordarci che il nostro esercizio di potere quotidiano è fatto al servizio di una comunità, e che il compito che ci viene richiesto, come cittadini liberi, è delicato, difficile, e riguarda tutti. Ecco perché alla Festa della Repubblica suona l’inno e sfila l’esercito: perché è prima di tutto dall’esercizio – drammatico – della forza, che si vede se una comunità è in grado di vivere secondo leggi che garantiscono libertà e giustizia, o se invece vigono il sopruso e la coercizione.
Siamo pieni di sdegno quando scopriamo i soprusi della polizia proprio perché siamo patrioti. Siamo contro Salvini, che sputa sull’inno, perché siamo patrioti.
Inoltre, dirsi “patriota” e voler bene al nostro inno, e anche al nostro esercito voler riconoscere e volere ostinatamente fare la propria parte nella storia. Amici e compagni, credete forse che noi non sappiamo che la narrazione della storia muta di secolo in secolo, anzi di decennio in decennio; che anch’essa, come tutto, non è alto che “volontà e rappresentazione”? Credete che non siamo anche noi imbarazzati dalla retorica talvolta troppo aulica dei vecchi?
Eppure commettete un grosso errore relegando al passato l’inno, la bandiera e tutti i simboli della Patria.
Se, per esempio, al Pride il corteo si fermasse un minuto e le dragqueen glitterate, ferme, cantassero l’inno d’Italia, farebbero bene. Direbbero: noi, cittadine libere italiane, manifestiamo affinché il nostro diritto alla libertà e all’uguaglianza di fronte alla legge non venga meno: questo a servizio di tutti i cittadini italiani. Se già lo fanno, fanno bene. Si può essere “patrioti”, e seri, anche senza essere “sobri”.
E quando diciamo “la nostra Patria è il mondo intero” ancora di più siamo patrioti. Voi cercate di distinguervi da questa logica solo per un imbarazzo di ordine estetico e morale, figlio di quella “leggerezza” d’apparato imposta dagli intellettuali marxisti a lungo egemoni in questo paese: ferocemente ridanciani contro i simboli della Patria, comicamente seri nella “fede” comunista e negli esiti politici di quel credo nella Felice Unione Sovietica: penso a Calvino e a Moravia.
Noi, invece, siamo globalisti e cosmopoliti proprio perché abbiamo ereditato dalla “retorica della patria” il senso di responsabilità di cittadini liberi e pronti ad agire per il bene della comunità.
Ci rendiamo conto che le sfide che ci attendono sono ormai planetarie, e che sta a noi rispondere; che gli strumenti per affrontare queste sfide vanno diffusi il più possibile; che questo, per l’appunto, è il nostro dovere, se vogliamo dare senso alla nostra libertà di esseri umani e alla libertà concreta che abbiamo ereditato in questa piccola frazione di mondo.
Questa piccola frazione, per l’appunto, si chiama Italia: è il paese con le contraddizioni che conosciamo, coi morti che non contiamo, che nei rivolgimenti e negli errori incalcolabili degli ultimi centocinquanta anni ci hanno lasciato leggi e istituzioni e possibilità e simboli, a rappresentare una storia e un futuro: non è troppo chiedere che siano rispettati.
Non è contraddittorio voler lottare affinché questa storia e questi simboli siano generativi per il futuro: e perciò che accanto all’inno di Mameli possiamo cantare sin da ora anche quello europeo, certi che la comunità umana e istituzionale dell’Unione potrà fare bene a quella mondiale: siamo europeisti perché siamo patrioti. Siamo cittadini del mondo perché siamo patrioti.
Fatevi meno complessi snob e state dritti e in piedi quando cantate l’inno.