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Politica interna

Perché è giusto ridurre i parlamentari

La riduzione del numero dei parlamentari – da 945 a 600 – è passata in gran cavalleria nell’ultimo e definitivo passaggio parlamentare. La riforma costituzionale è stata bollata da più parti come un cedimento alla più deteriore demagogia antipolitica, se non addirittura uno sfregio alla democrazia rappresentativa. L’accusa è rivolta specificamente al Partito democratico, che per tre volte, in prima e seconda lettura, aveva votato contro per poi acconciarsi – solo a seguito della nascita del governo giallorosso – a votare a favore nel voto decisivo, pur di prolungare la legislatura e preservare l’alleanza di governo coi grillini, alfieri della riforma.

È indubbio che le motivazioni accampate dal movimento 5 stelle per motivare la suddetta riforma siano improntate al più bieco populismo anti casta; che essa sia ispirata a una visione di fondo secondo la quale i politici sono una “casta” di fannulloni, affaristi, veri e proprio mangiapane a tradimento.

La riforma, si dice, comporterà una riduzione dei costi della politica. Questo è l’argomento principe, sbandierato a ogni piè sospinto dai grillini. Senonché i risparmi saranno infimi: l’osservatorio per i conti pubblici di Cottarelli li stima in 57 milioni all’anno, pari allo 0,007 del bilancio pubblico; altri più generosi, come il centro studi di Confindustria, li hanno quantificati in 100 milioni. Un’inezia rispetto al fantomatico mezzo miliardo ventilato dai grillini, specie se si considera che la politica nazionale (organi legislativi ed elettivi) costa ai contribuenti 2,5 miliardi all’anno – per par condicio va ricordato che numeri campati in aria, cioè gonfiati artatamente per eccesso, vennero propinati anche dai renziani all’epoca del referendum costituzionale nel 2016 (500 milioni, ma il risparmio reale , secondo i calcoli – mai smentiti – di Roberto Perotti su La voce, si aggirava dui 150 milioni l’anno).

Innanzitutto, se la ratio del provvedimento fosse esclusivamente la riduzione dei costi della politica, allora, portando questa logica al suo estremo, tanto varrebbe abrogare il parlamento. Secondariamente, se davvero si voleva incidere sui costi della politica, si sarebbe dovuto intervenire per ridimensionare drasticamente gli emolumenti dei parlamentari, di gran lunga i più pagati al mondo. Magari ancorandoli al reddito mediano percepito prima di intraprendere la carriera politica; o vincolandoli alla produttività del parlamentare, alla sua presenza in aula, commissione ecc. O ancora soprrimendo una delle due camere, come voleva fare in prima battuta Matteo Renzi, salvo poi realizzare una riforma monca e raffazzonata, con un senato composto di consiglieri regionali e sindaci che si riunivano una volta al mese. Rispetto a quella renziana, che modificava, in certi casi stravolgeva, 47 articoli della costituzione, se non altro si è scelto di puntare esclusivamente sulla modifica di singoli e circostanziati punti della costituzione, onde evitare possibili bocciature tramite referendum.

Eppure, gli alti lai che si sollevano da più parti contro la riforma, l’idea secondo la quale con la sua introduzione sia a rischio nientemeno che la democrazia paiono accuse fortemente esagerate, prive di fondamento. Non è il numero di rappresentanti all’interno di un’assemblea legislativa a stabilire il grado di “democraticità” di un regime politico. Non esiste infatti un numero congruo di parlamentari (è questa una questione su cui i politologi si arrovellano da tempo, vedasi gli studi di Rain Tageepera, senza essere arrivati a una conclusione).

Ma, detto questo, andranno apportati dei correttivi agli squilibri istituzionali che essa comporta, ad esempio relativamente al quorum per eleggere il Capo dello Stato, ai regolamenti parlamentari, alla rappresentanza delle minoranze in commissione ecc; verrà introdotta, pare, l’equipollenza nelle due Camere di elettorato passivo e attivo e il meccanismo, in vigore in Germania, della sfiducia costruttiva, che presuppone l’onere, per chi presenta una mozione di sfiducia nei confronti di un governo, di presentare un’alternativa; l’attuale legge elettorale viene giudicata da quasi tutti i partiti inservibile (aumentando le soglie implicite dei collegi, un partito putacaso al 40% potrebbe ottenere la maggioranza assoluta), e perciò verrà modificata o in senso maggiormente disproporzionale o nettamente proporzionale: qui la contesa è tra fautori del maggioritario o del proporzionale (chi scrive predilige il primo ma ci ritorneremo su in un prossimo articolo).

Perché allora, nonostante le criticità sopracitate, la riforma che riduce il numero dei parlamentari in sé non ha nulla di scandaloso, al contrario? Perché l’Italia è il paese che ha il numero più elevato di parlamentari al mondo, fatta eccezione per la Cina, che ne ha più di 3000. Lo ha sottolineato il costituzionalista Michele Ainis su Repubblica: “Se si eccettua il Regno Unito (appesantito dai 776 membri della Camera dei Lord), nessun altro Paese europeo ha più parlamentari dell’Italia, in rapporto alla popolazione. Alle nostre latitudini c’è un eletto ogni 64 mila abitanti; in Spagna ogni 76 mila; in Germania ogni 105 mila; senza dire degli Usa, dove il rapporto è dieci volte superiore (un parlamentare ogni 611 mila americani). Dunque una cura dimagrante ci metterebbe in linea con il resto dell’Occidente, aumentando il prestigio delle assemblee”. Un risultato atteso e vanamente perseguito da ben 36 anni. Suffragato da un consenso popolare che sfiora percentuali bulgari (secondo i sondaggi, il 90% dei cittadini approva la riforma).

È presumibile che a un Parlamento meno pletorico, corrisponda una maggiore efficienza e qualità dei suoi membri (che ora di certo non brilla). E che allo stesso tempo aumenti il livello di accountability, ovvero il livello di responsabilizzazione (tradotto in modo grezzo accountability significa dover rendere conto) della classe politica nei confronti dell’elettorato. Le ragioni per cui in realtà è positivo il taglio dei deputati, le si potrebbe sintetizzare icasticamente come ha fatto Tito Boeri in un tweet: “E’ giusto ridurre il numero di parlamentari. Ne abbiamo di piu in rapporto all’elettorato di molte altre democrazie consolidate. Meno parlamentari per sceglierli meglio”.

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2 comments

Aldo Mariconda - Venezia 11/10/2019 at 18:12

Giustissimo, anche se il provvedimento non mi entusiasma percvhé avrei preferito una riforma del bicameralismo perfetto anziché una semplice riduzione tout court.
Cominque, che i parlamentari siano un po’ meno, non guasta, ma non è solo un problema di risparmio.
Sembra utopico oggi invocare una migliore selezione della classe politica, invocare il trionfo della preparazione, della professionalità, che prevalgano sull’affiliazione al gruppo, al capocorrreente, al segretario del partito. La prassi vigente, unita a quello di far eleggere i fedelisasimi in collegi diversi e lontani dal loro territorio, è solo il segno di un decadimento istituzionale.

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Fabio MILITO PAGLIARA 23/10/2019 at 20:13

Essendo due camere paritetiche e rivolte a corpi elettorali differenti non si può fare semplicemente popolazione/(senatori+parlamentari) vanno considerati separatamente ed è per questo che semplicemente ridurre il numero di parlamentari nelle due camere non ha senso. In particolare dato che sono paritetiche bisogna considerare il rapporto popolazione/senatori ed ecco che immediatamente ci si rende conto dopo questa riforma abbiamo 1 rappresentante ogni 300000 (trecentomila) abitanti circa. Si fosse ridotto il totale a 500 con una camera unica allora si che sarebbe stata una riforma sensata e migliorativa della capacità rappresentativa degli eletti. Ma qui non c’è legge elettorale che possa risolvere il problema di non sapere alla fine chi fa cosa in parlamento che nessuno si prenderà la responsabilità piena delle sue azioni e la rappresentatività infine risulta danneggiata.

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