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Eutanasia e chiesa cattolica: una relazione possibile

Si è già parlato tra queste pagine del referendum sulla legalizzazione dell’eutanasia. Ma si è solo accennato fugacemente, finora, in merito al ruolo dei cattolici.

Molti credono ci sia un naturale contrasto tra la Chiesa e i sostenitori della legalizzazione dell’eutanasia. Da un lato, troviamo il Comitato Eutanasia Legale, con al suo interno l’Associazione Luca Coscioni (l’economista morto di SLA nel 2006 che aveva detto «non posso aspettare le scuse di uno dei prossimi papi»), l’UAAR (la maggior associazione atea italiana), la Chiesa Pastafariana (una mock religion il cui reale scopo è la difesa del laicismo e della morale umanistica). Dall’altro, la Dichiarazione sull’Eutanasia pubblicata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede nel 1980, pur non essendo in alcun modo vincolante, definisce l’eutanasia «una violazione della legge divina… una offesa alla dignità della persona umana… un crimine contro la vita… un attentato contro l’umanità», mentre la Gaudium et Spes, un documento del Concilio Vaticano II che invece è vincolante per il fedele, inserisce l’eutanasia assieme al genocidio tra «ciò che è contro la vita» (§27).

Nonostante un colto intervento del bioeticista Puccetti (ascoltabile qui), non mi sento pienamente soddisfatto del modo in cui il problema è stato discusso nell’ambiente cattolico. Vedo, anche da parte del Vaticano, una serie di fraintendimenti nella comunicazione, che portano a fare opposizione anche dove in realtà non ci sarebbe alcun contrasto etico.

I criteri di legittimità dell’eutanasia

Nell’articolo prima citato si discute già la distinzione esistente tra eutanasia (per definizione diretta) e suicidio assistito (cioè la c.d. eutanasia indiretta). Vi sarebbe da distinguere anche tra eutanasia volontaria (richiesta dal paziente) e involontaria (decisa da altri a prescindere dalla volontà del paziente), ma è una distinzione poco discussa in quanto vi è tra i filosofi un accordo pressoché universale in merito all’illegittimità dell’eutanasia involontaria, e sarebbe anche contro i valori che il Comitato Eutanasia Legale propone. Qui di seguito col termine eutanasia si intende sempre e solo la sua variante diretta e volontaria.

Un’obiezione frequente alla legittimità dell’eutanasia riguarda proprio il criterio della volontarietà: io posso voler morire perché sono depresso, ma ciò non legittima l’eutanasia, ci sono le terapie! Questa obiezione è generalmente accolta. I filosofi che hanno discusso la problematica sono arrivati così alla conclusione che, se l’eutanasia è legittima, allora lo è almeno (non necessariamente solo) quando si dànno cinque condizioni, ossia:

1. la malattia è terminale;

2. la scoperta di eventuali cure prima della morte naturale del paziente è molto improbabile;

3. la malattia causa in modo diretto sofferenze intollerabili;

4. il paziente esprime in modo duraturo, libero e competente la volontà di morire;

5. il paziente non può provocarsi da solo la morte (neanche tramite suicidio assistito).

Queste condizioni sono quelle implicite nella sentenza Cappato, che risulta così filosoficamente inattaccabile. A rigore, bisogna dire che il testo dell’articolo 579 c.p., una volta modificato con le abrogazioni richieste, di per sé non rispetterebbe tutti e cinque i punti (nello specifico: non prevedrebbe che il consenziente sia malato grave). Ciò è inevitabile, dato che le leggi correnti prevedono referendum abrogativi ma non propositivi. Questo può portare a delle comprensibili reticenze soprattutto da parte di chi sposa (inconsapevolmente?) una teoria formalista del diritto (e crede quindi che il giudice non debba far altro che applicare meccanicamente le proposizioni legali). Ma noi non-formalisti crediamo che ciò non impedisca al giudice di agire in accordo al buon senso, considerando anche i limiti degli strumenti a disposizione, le intenzioni, il consenso degli eticisti, e le precedenti sentenze.

Per praticità, in ciò che segue si intende l’eutanasia in un contesto in cui si dànno le cinque condizioni dette: gli altri contesti (anche se potrebbero essere legittimi) sono per ora accantonati. Inoltre, mi concentro sulla figura del malato, ignorando la pur abbondante discussione filosofica in merito all’azione del medico.

La morte può essere meglio della vita?

La ragione più intuitiva a favore della legalizzazione dell’eutanasia è l’apparente esistenza di casi in cui la vita risulta peggiore della morte, di modo che l’interrompere un’esistenza diventa un’opera di carità volta a migliorare la condizione dell’individuo. Questa ragione sembrerebbe particolarmente condivisibile dai cattolici: se la morte non è la fine, ma al contrario l’inizio di una nuova vita beata con Dio, qualcosa da attendere con trepidazione e della quale i cattolici si fanno vanto di essere oggi gli unici a parlare serenamente, perché rifiutare l’eutanasia? Ecco: non è proprio così, in queste idee vi sono enormi fraintendimenti.

Iniziamo con l’idea che la morte non sia una fine. Vari testi biblici dicono il contrario: Isaia, i Salmi, Qoelet e vari altri sono prodotti in un’epoca nella quale l’opinione prevalente era che tutti i defunti finissero nello stato dello sheol, un ade nel quale i morti esistevano in modo incosciente e indistinto (si tratta del sonno dell’anima che ancora oggi è sostenuto dai Testimoni di Geova). Il concetto di una vita dopo la morte si sviluppa pian piano: nel tempo lo sheol diventa il destino dei malvagi (non di tutti), mentre le fiamme della gehenna (la valle in cui Acaz e Menasse praticavano sacrifici umani) nella letteratura rabbinica vengono interpretate in parte come punizione dei malvagi (da cui l’idea di un inferno fiammeggiante) e in parte come fuoco purificatore (quello che molto tempo dopo verrà chiamato purgatorio). Nella Chiesa dei primi secoli, si accetta la concezione iniziale dello sheol (detto anche limbo) come corretta fino alla redenzione del Cristo, dopo la quale l’uomo ha la possibilità di ottenere un destino beato.

Tale destino beato, però, non è “pieno” come si potrebbe pensare. In tutta l’antropologia biblica l’uomo è sempre e solo unità di corpo e anima. Tommaso d’Aquino ci dice due cose importanti a tal proposito. La prima è che l’anima non è la mente (un concetto che non esisteva ancora): per esempio, la memoria è una parte della mente, ma resta nel corpo, l’anima non ha memoria e può ricordare solo guardando in Dio. La seconda è che l’anima non è la persona: dice che dovremmo dire «anima di San Pietro, prega per noi», e non semplicemente «San Pietro», c’è la sua anima ma non lui. Parafrasando Parfit, la persona non è un corpo, non è un’anima, ma è null’altro che queste cose. L’anima continua ad esistere (per grazia o natura), ma l’esistenza personale è effettivamente distrutta con la morte. Questo tipo d’esistenza incorporea è imperfetta, ridotta, non proprio umana: solo con la risurrezione della carne si avrà di nuovo un’esistenza umana piena.

La visione cattolica conferma, insomma, che la morte sia un male, una conseguenza del peccato. È vero che l’uomo prima o poi se ne deve andare da qui, perché lui non è creato per l’universo (ma per il paradiso) né l’universo è creato per il suo benessere (ma per gloria di Dio); però se ne sarebbe dovuto andare assunto anima e corpo, non spezzato tra le due.

In quest’ottica, non si può parlare della morte come migliore della vita. Il valore è un qualcosa che ha senso quando discusso nell’àmbito della persona. Una persona viva può avere un’esistenza più o meno positiva, può avere cento piaceri, o averne cento sotto zero (cioè cento dolori). È però un errore paragonare un’esistenza neutrale in cui ho tanto dolore quanto piacere (saldo zero) alla pura e semplice inesistenza della persona. Il mio saldo piaceri-dolori da morto non è zero, è none, non è l’insieme vuoto ma l’assenza di qualsiasi insieme, la mia anima può essere beata ma la mia anima non sono io. In questo senso, la morte non è mai un miglioramento della proprio condizione di sofferenza: è semplicemente incommensurabile, vita e morte sono due stati imparagonabili.

Infine, due note sul dolore. Prima: nell’ottica cristiana la sofferenza, pur essendo frutto del peccato, è stata caricata dalla redenzione di valore mistico diventando un prezioso mezzo donato per unirsi a Dio. Seconda: per il principio primum non nocere (largamente accettato dagli eticisti laici), come non posso uccidere oggi un uomo neanche se so che domani ne ucciderà cinque, così, anche se l’eutanasia preserva un uomo da sofferenze future, ciò non giustifica il suo uso, perché io non posso fare il male neppure per evitare un male futuro. Di conseguenza, non posso giustificare l’eutanasia appellandomi alle sofferenze e alla desiderabilità della morte.

Principi di una deontologia cattolica

Perché la Chiesa presenta in modo così negativo l’eutanasia? La costituzione Gaudium et Spes, come molti documenti dei concili, è piuttosto parca di particolari: si limita a dire che ognuno deve considerare ogni altro uomo «un altro “sé stesso”», e da questo deriva tutta la carità che si deve ad ogni altro quando si inizia a considerarlo un proprio prossimo. La Dichiarazione esprime qualche idea in più, tanto da poter essere interpretata come proponente un ragionamento formale. Posso sintetizzarlo in uno stile deontologico:

P1. l’uomo ha verso sé stesso, il prossimo e la comunità tutta il dovere di far fruttificare la sua vita, cioè di rendersi in qualche modo utile (con carità e giustizia);

P2. con l’eutanasia l’uomo viene meno ai suoi doveri in quanto sceglie di mettersi di sua volontà in una condizione, cioè la morte, nella quale non può più realizzarli (si confronti Tommaso d’Aquino, II-II, 64, 5, per il quale il suo suicidio va contro la carità dovuta a sé e agli interessi della società) ;

C. quindi l’eutanasia è inaccettabile.

Questa argomentazione è però sensibile al principio per il quale se devo allora posso: se un malato è inguaribile non posso avere il dovere di guarirlo, sarebbe assurdo. Questo principio oggi accettato dalla maggioranza dei filosofi può aprire uno spiraglio per l’accettazione dell’eutanasia: infatti, se una persona è così debilitata da non poter più in alcun modo mettere a frutto la sua vita, allora non ha più doveri da compiere, quindi l’eutanasia non fa venire meno a tali doveri e diventa accettabile.

Ciò nonostante, ci si può chiedere: esistono davvero casi in cui si è del tutto incapaci di mettere a frutto la propria esistenza? Piergiorgio Welby (la cui moglie, tra l’altro, è cattolica) ha sicuramente passato i suoi ultimi anni in uno stato di estrema debilitazione, ma questi anni non sono forse stati comunque messi a frutto? Certo, tanto che continua ad essere d’ispirazione per la causa di molte persone. E cosa dire invece di una persona incosciente, che non può comunicare, come il caso estremo e lacerante di Terri Schiavo, alimentata artificialmente per quindici anni pur avendo perso presumibilmente la metà dei suoi neuroni? Anche così si può difendere l’idea che pure queste esistenze sono state esemplari, che anche nell’incoscienza continuano a mostrare una volontà sul loro destino (anche se la volontà di Terri Schiavo rimane molto dubbia). Se si accetta ciò, si può effettivamente sostenere che nessuna esistenza è tale da non potersi mettere a frutto: anche in un caso di incoscienza permanente, pur non potendo fare, si può essere.

Le eccezioni

L’argomentazione sopra espressa, però, è troppo radicale: la morale cattolica rimane in essenza di tipo situazionale, ed è raro che non contempli delle eccezioni. È vero che il comandamento dice «non uccidere», e punto, ma la legittima difesa è appunto legittima, io posso uccidere un aggressore, posso fare una guerra di difesa, secondo Tommaso d’Aquino posso addirittura condannare a morte perché è la società che difende sé stessa. Il suicidio è peccato, ma anche Sant’Agostino accetta come legittimi i suicidi di Sansone e Razis, e anche quelli di alcune cristiane dei primi secoli suicidatesi per evitare le persecuzioni. La Chiesa condanna l’aborto, eppure lo accetta in caso di gravidanza ectopica. E anche con l’eutanasia vale lo stesso discorso: Tommaso Moro, venerato come santo, nel suo Utopia prevede forme di eutanasia legittima, mentre la Dichiarazione del 1980 ammette la possibilità di contesti in cui la colpa dell’eutanasia può essere annullata.

Così, leggendo il paragrafo 2278 del Catechismo, vediamo che lì si legittima il rifiuto di tutte le «procedute mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate». Il paragrafo successivo, il 2279, giustifica ed amplia tale giudizio esplicitando la dottrina del duplice effetto. Come specificato da Tommaso d’Aquino nella Somma (II-II, 64, 7), se un’azione:

1. è neutra, in quanto ha sia un effetto negativo che uno positivo di simile gravità;

2. è motivata da buone intenzioni (come ridurre il dolore), pur sapendo che avrà anche un effetto negativo inevitabile;

3. e questi due effetti sono indipendenti, cioè l’effetto negativo non è necessario e sufficiente a quello positivo (come sarebbe invece, per esempio, l’uccidere un uomo per poter usare i suoi organi);

4. né è possibile evitare o bloccare l’effetto negativo;

allora, se si dànno queste condizioni, è legittimo perpetrare l’azione. Certo, può essere che non perpetrarla sia una supererogazione, cioè che sia santo, eroico, che sia oltre il bene, ma comunque anche perpetrarla risulta legittimo: nessuno ha il dovere di essere eroe.

Cosa legittimano questi due paragrafi (2278 e 2279)? L’uso di terapie palliative, come la morfina, anche quando si sa che ridurranno l’aspettativa del paziente (perché non è quella l’intenzione, ma il sollievo dal dolore); il rifiuto di terapie con notevoli effetti collaterali, come la chemioterapia (quest’anno la suora-influencer Catherine Wybourne, malata di tumore, ha scelto di interrompere le terapie); il rifiuto dell’alimentazione forzata, per esempio tramite PEG (pensiamo al cardinale Carlo Maria Martini, che ha rifiutato tale accanimento terapeutico). Soprattutto, legittimano l’interruzione dell’uso di macchinari che “tengono in moto” il corpo di un paziente pur sapendo che un’effettiva ripresa è impossibile, costituendo così una procedura sproporzionata.

Alla luce di questi esempi, si può effettivamente sostenere che sia il respiratore al quale Welby rimaneva attaccato, sia l’alimentazione forzata di Terri Schiavo, potevano rappresentare una terapia sproporzionata, volta a mantenere in vita un corpo la cui morte “di natura” sarebbe stata imminente. Se si riesce a dimostrare ciò, allora l’eutanasia praticata in quei casi (che comunque è di tipo passivo) diventa coerente con la morale cattolica in quanto rientrerebbe nei casi che il Catechismo riconosce come rifiuto di accanimento terapeutico.

La laicità come valore cattolico

Non deve stupire che la Chiesa abbia una sua dottrina sociale, riguardante temi quali i diritti umani, la democrazia, il lavoro, la famiglia, il principio di sussidiarietà, l’ambientalismo, i rapporti internazionali. La Chiesa infatti è un’autorità etica, e l’etica ha inevitabili connessioni con la legge: essendo una riflessione sul bene e sul male, implicherà anche quali sono le decisioni da prendere, quali regole di comportamento seguire come società, quali leggi approvare.

Ciò nonostante, sarebbe un grave errore credere che l’etica e la legge possano coincidere: la legge infatti si limita a definire delle conseguenze per certe azioni, “se rubi vai in galera”, non discute i temi etici di bene e male, né quelli di giusto e ingiusto. Una legge, analizzata eticamente, istituisce una punizione per un male fatto, ma sarebbe assurdo credere che ciò implichi che tutto ciò che è male debba anche essere sanzionato dalla legge: un bambino che dice una bugia al suo compagno di banco fa sicuramente qualcosa di immorale, ma non posso chiedere che venga punito legalmente; bere vernice è sicuramente un male fisico e anche etico (perché è “da non fare”), ma la legge di per sé non lo vieta e sarebbe assurdo chiederle di farlo.

Come mostrato, ci sono casi classificabili come eutanasia che sono accettabili dalla morale cattolica. Sicuramente però ci saranno casi di eutanasia voluti da non-cristiani per varie ragioni (per manifestare autonomia e dignità, per esempio) che resteranno inaccettabili. A questo punto cosa dovrebbe volere il cattolico dalla legge? Deve volere che coincida con la sua morale, o deve invece immaginarla più lasca, in modo da poter accomodare le scelte dei non-cattolici che vivono nello stesso Stato?

La cattolicità incorpora la laicità come un suo valore: date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio, i due piani sono separati. Un governo laico non è un governo guidato da principi irreligiosi: uno Stato le cui leggi coincidano con la sharia può rimanere del tutto laico, finché le decisioni politiche sono prese indipendentemente dalle autorità religiose. L’accettazione della laicità permette però al cattolico di accettare anche lo scarto esistente tra le legge e l’etica: può coerentemente accettare che il suo Paese non sanzioni delle azioni che per la sua etica sono male.

Per difendere questo principio di tolleranza voglio affidarmi al teologo Luigi Santopaolo, professore di ebraico biblico presso la Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale. Scrive così:

«Per i cristiani ottenere la penalizzazione di un comportamento o la sua abolizione forzata non è mai stato considerato propriamente né una necessità né tantomeno un successo. Il cristianesimo ha sempre esaltato la libertà di scelta e di coscienza degli individui, […] “scegliere” di non commettere qualcosa non per paura di una pena, ma per la consapevolezza nata da un incontro personale con il Cristo, da una reale conversione. […] Questa è la ragione per cui è necessario separare la politica dalla fede, impedendo ai potenti di questo tempo di strumentalizzare alcune campagne per assurdi giochi di potere.»

E cosa dire dei Padri della Chiesa? È importante saperlo perché, per il cattolico, i Padri sono autorevoli, tanto che il loro accordo è sufficiente a produrre un dogma. Ebbene, sempre Santopaolo scrive:

«Divorzio ed aborto erano diritti sanciti dalla legislazione romana (non sono nati con l’Illuminismo!) e i cristiani, cominciando a diffondersi nelle grandi città, erano pienamente immersi in quella diversità con cui cercavano di dialogare e non di entrare in conflitto (buonisti!). Lungi dalle battaglie politiche, i primi cristiani credevano fermamente nella capacità di educare le coscienze attraverso l’annuncio vivo del vangelo

Cosa direbbe la Chiesa in un Paese che impedisse qualsiasi tipo di obiezione di coscienza a medici e militari, obbligandoli tutti ad agire in accordo con una ideologia non-cattolica? Direbbe, giustamente, che in quel Paese vivono anche cristiani con idee diverse, che deve essere concessa a tutti una libertà religiosa tale da poter vivere secondo la propria etica. Qui vale la stessa cosa, anche se a parti invertite: il fatto che un cattolico abbia una visione tale per la quale l’eutanasia non può essere attuata in una certa pluralità di circostanze (anche se non in tutte) non implica che debba volere una legge che limita la libertà di scelta di coloro che sposano visioni diverse.

Una cosa è lanciare strali contro una certa posizione, altra è chiedere un cambiamento delle leggi. Una cosa è chiedere che non si faccia il male, altra è chiedere di sanzionare legalmente un certo comportamento. Io, che sono cattolico, posso eventualmente credere che le persone non debbano chiedere l’eutanasia in certe circostanze, posso suggerire loro di non usufruirne, ma non posso volerglielo impedire legalmente.

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