Il clamore mediatico intorno alla Sea Watch rinverdisce un dilemma tuttora irrisolto per la sinistra italiana: quale linea tenere sull’immigrazione; e come fare per contrapporsi a una propaganda e visione ideologica, quello Salviniana, apparentemente vincente e ad oggi maggioritaria presso l’elettorato italiano?
Partiamo da un presupposto. Salvini sul tema immigrazione, dal punto di vista fattuale, e non di immagine, ha inanellato quasi solo insuccessi.
In campagna elettorale aveva promesso il rimpatrio immediato dei 600.000 clandestini presenti sul territorio italiano; i rimpatri forzati, considerando i primi quattro mesi dell’anno, sono stati solo 2833 (6459 da quando il governo si è insediato). Nel 2018 furono invece 7981. A questo ritmo ci vorranno 80/90 anni per inverare quel che vagheggia il leader leghista. Non solo, il numero di irregolari è destinato ad aumentare significativamente nel giro di pochi anni per via del discusso decreto sicurezza (140.000 in più entro il 2020, secondo L’Ispi) .
Gli accordi con i paesi di provenienza dei migranti, per consentire i rimpatri coatti, latitano. Ad oggi esistono solo delle intese di massima con Egitto, Marocco, Nigeria, Tunisia. Pochi lo ricorderanno, ma ad inizio legislatura, con alcune sue dichiarazioni improvvide, il ministro degli interni rischiò di far saltare l’accordo bilaterale proprio con la Tunisia, che si è rivelato il più efficace. La priorità dovrebbe essere quella di stringere accordi con paesi come Iraq, Senegal, Algeria; ma finora l’unico stipulato da Salvini è quello col Ghana (Paese da cui provengono lo 0,7% dei migranti giunti in Italia).
A dispetto della falsa retorica dei porti chiusi, proseguono, anche se in numero molto più contenuto rispetto al recente passato, gli sbarchi sulle coste italiane. Sono stati 2678 nel 2019 (con un calo dell’83,85% sull’anno precedente). È ancora presto per dirlo, ma per ora la situazione sembra essersi attestata su livelli fisiologici. In ogni caso, il calo degli sbarchi è ascrivibile unicamente agli accordi con la Libia a suo tempo siglati da Minniti. Si tratta di una tendenza in atto da circa due anni, di cui Salvini, nonostante ad ogni piè sospinto se lo intesti come risultato della sua politica dei “porti chiusi”, non può vantare alcun merito (ma di cui ha tratto ampio beneficio).
Come era lecito aspettarsi, a livello assoluto, la diminuzione delle partenze ha comportato un calo dei morti nel mediterraneo. Mesi addietro L’Ispi, per stigmatizzare la politica di deterrenza di Salvini, ha rilevato che con lui ministro degli interni sarebbe aumentata la mortalità (la percentuale di morti per ogni sbarco): passando dai 3,2 morti al giorno del governo Gentiloni agli 8,0 del governo Conte – ma questo dato non prendeva in considerazione periodi omogenei ed è statisticamente irrilevante a fronte del calo complessivo dei morti.
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Eppure, dicevamo, l’immagine di Salvini e la sua narrazione sono egemoniche. Come si spiega questa discrasia?
Salvini è un abile imprenditore delle paure (cit. Diamanti). Ha saputo sfruttare in chiave di consensi l’insofferenza più o meno esplicita verso i migranti (o ad esempio i Rom) di una parte della popolazione, vellicandone gli istinti più retrivi.
Non ha alcun interesse a (tentare di risolvere) la questione immigrazione: se lo facesse, verrebbe meno una formidabile arma propagandistica, la ragione stessa della sua ascesa politica. Né sarebbe in grado dal momento che manca totalmente di una visione organica e coerente su come affrontare o ridurre i problemi correlati all’immigrazione illegale.
Se Salvini può spacciarsi impunemente come il difensore dei confini italiani, colui che ha arrestato l’invasione dall’Africa e difeso la sicurezza del popolo, al contrario il Pd è apparso nell’immaginario popolare come il partito che in pochi anni ha “riempito l’Italia di clandestini, propiziato l’invasione, promosso il meticciato” .
Per un malriposto senso di superiorità morale e un’errata analisi della realtà (gli immigrati non sono un problema ma una risorsa, l’accoglienza è un obbligo morale, l’ostilità nei confronti degli immigrati razzismo), la sinistra ha colpevolmente ignorato o misconosciuto l’impatto che l’immigrazione incontrollata avrebbe suscitato nella psicologia collettiva degli italiani (in particolare dei ceti popolari, più esposti al fenomeno, che rappresentano storicamente la propria base elettorale), mentre nel Paese montava un clima di crescente rifiuto nei confronti dell’immigrazione irregolare.
Quando, per metterci una pezza, Minniti ha sostituito Alfano come ministro degli interni nel governo Gentiloni, era già troppo tardi. Non solo, l’azione di contrasto all’immigrazione irregolare perpetrata dall’ex ministro è stata vissuta nel migliore dei casi con grande imbarazzo, nel peggiore come un affronto intollerabile all’identità umanitaria e solidaristica della sinistra. Minniti è stato rinnegato dalla sua stessa parte politica, tacciato di essere un politico di destra (D’Alema dixit) o addirittura un fascista (secondo Gino Strada).
A questo proposito, Roberto Perotti ieri su Repubblica ha scritto quanto segue: “Il 31 per cento degli italiani ritiene l’immigrazione il problema principale del paese, una percentuale inferiore solo a Malta: i politici gialloverdi interpretano (esasperandole, ovviamente) le paure e le preoccupazioni di tanti italiani. È solo razzismo? C’è anche quello, e tanto: ma da solo non basta a spiegare il malessere. Si può scegliere di ignorarlo sprezzantemente, o di proporre soluzioni. La sinistra ha scelto la prima strada. Qui si innesta il secondo argomento: «L’Italia ha pochi immigrati rispetto agli altri paesi europei, e i dati che circolate e che cavalcate sono profondamente sbagliati; quindi il problema non esiste». Ma le percentuali da sole non dicono tutto. A differenza di tanti altri paesi europei abituati da secoli al multiculturalismo e alla multietnicità, l’Italia è stata colta di sorpresa da un fenomeno cui non era abituata, e che si è innestato su due decenni di alta disoccupazione e bassa crescita, due condizioni che rendono l’immigrazione un fenomeno esplosivo”. Non a caso, alle ultime elezioni amministrative la lega nord ha sfiorato la maggioranza assoluta nei territori con la percentuale più alta di immigrati irregolari (vedi Lampedusa o Riace).
La sinistra, nell’ordine, dovrebbe innanzitutto, abbandonare l’atteggiamento di alterità morale nei confronti di chi, a torto o ragione, esprime sentimenti di avversità, paura, contrarietà nei confronti dell’immigrazione; attaccare Salvini non solo e non tanto per i toni esecrabili, da fascistoide, ma sopratutto per l’incapacità conclamata di gestire il fenomeno migratorio; elaborare una proposta alternativa all’ideologia massimalista di una parte elettoralmente minoritaria ma culturalmente significativa di essa che propugna l’accoglienza illimitata dei migranti irregolari. Un ritorno quindi all’approccio legalitario di Minniti che contempli rigore e umanità. Nello specifico, l’apertura di canali legali riservati a immigrati economici, possibilmente qualificati (i cosidetti skilled labours), e richiedenti asilo (di cui si sia accertato in loco lo status di profugo). Se così tanti migranti mettono a rischio la propria incolumità per attraversare il Mediterraneo, rischiando oltretutto di essere internati nei lager libici, è perché non esistono vie alternative per raggiungere il continente europeo. L’unico politico a sinistra che sembra averlo capito, oltre al sopracitato Minniti, è Carlo Calenda…