“Ero Dio, semplicemente, perché ero uomo”
Non so quanti di voi abbiano avuto il piacere di leggere il romanzo “memorie di Adriano” di Marguerite Yourcenar, scrittrice belga. Da questo ho preso la frase di apertura. Volevo una frase che rispecchiasse l’apoteosi che la scrittrice traspose alla figura dell’imperatore Adriano, da vera appassionata e musa contemporanea della classicità.
Per chi l’avesse letto, concorderà con me che sia uno dei capolavori della letteratura contemporanea occidentale, nonostante molti la ignorino con mio grande rammarico. Dovreste provare la grazia con la quale essa riesce ad esprimere tutta la complessità e l’immensità di un gigante come Adriano. Come onde che delicatamente si appoggiano alla riva, essa ripercorre l’eleganza umanistica della classicità, attraverso l’estetica morbida e intensa di una statua, il rigore candido e fine di una villa sulle bianche spiagge della Bitinia, la soavità di una melodia accentuata dalla notte in un deserto soffocato dal silenzio sotto l’arco di un oceano stellato, la laconicità di uomini intensi dediti al proprio Io, la chioma dorata di un fanciullo dedito a temprarsi ai piaceri di una caccia accudito dalla presenza di una Diana protettrice.
Successivamente mi diedi alla lettura di un altro titano dell’arte della penna, Yukio Mishima. Il saggio “lezioni spirituali per giovani samurai” mi ha catapultato al di là dell’eurocentrismo, iniziandomi a una cultura antica e veneranda che è sopravvissuta alla trasformazioni di secoli e secoli. Per la prima volta concepii la mia stupidità, dinnanzi alla constatazione che per anni abbia volutamente ignorato e disprezzato una cultura come quella dei samurai giapponesi.
La Yourcenar descrisse con una esattezza storica impressionante l’epoca romana tardo-imperiale, Mishima visse la sua vita “anacronisticamente”, conclusasi poi con fascino magnetico del suicidio rituale, in pieno XX secolo. Perché ne tesso un elogio? Cosa c’è di più contrario ai principi liberali che due culture maturate sotto gli abusi della autorità imperiale? Provate a leggere il libro della Yourcenar, non vi troverete in una tale cappa d’estasi come dinnanzi alle delucidazioni di Adriano. Provate a leggere il libro di Mishima, scoprirete di impallidire dinnanzi alla bellezza d’animo di un vero uomo giapponese dedito alla tradizione, sprezzante della “mercificazione” occidentale.
Quello che vorrei far comprendere a te lettore è che spesso ci sfugge il vero senso della nostra “μάχη”. Queste persone si sono fatte portatrici di un concetto secondo il quale anche tali culture e ideologie, chiuse in caste e brutalità, sono riuscite ad edificare un sentiero volto a “estetizzare” i principi cardine, se non proprio ad “apoteizzare”(riferendomi proprio al rito dell’apoteosi romana, secondo al quale l’imperatore defunto ascendeva al cielo e si divinizzava, divenendo oggetto di culto).
La mia è solamente una proposta; forse è giunto il momento dell’apoteosi per il nostro culto. Ma non sto parlando dell’ideologia liberale, mi fraintendete, quella è solo un mezzo. L’oggetto di apoteosi siamo noi stessi, dobbiamo divinizzare l’uomo. Forse non è questo il progresso per cui da anni ci battiamo? se fossimo in grado di far diventare connaturale questo principio ai nostri simili ci sarebbe forse bisogno di impegnarci in decenni in lotte per rivendicare il nostro diritto alla libertà?
Non dovremmo disprezzare la cultura come mezzo. Se abbiamo ragione in tutti i campi empirici, poiché siamo effettivamente i più razionali, per quale motivo veniamo stigmatizzati come beceri oppressori e sfruttatori delle genti? Noi non siamo la voce della gente, purtroppo. Le persone sono cresciute, sono vissute, per decenni, nella convinzione che essi singolarmente non contino niente, che siano ingranaggi minuscoli della macchina sociale, che senza un padrone, un giudice supremo, senza un’autorità religiosa a cui aggrapparsi (o come li definiva Ayn Rand “i fantasmi nel cielo e gli incompetenti sulla terra”) essi non siano di grado di poter vivere una propria esistenza, vera e unica.
Sogno un giorno in cui ogni uomo possa affidarsi ad una propria autorità, ad un proprio Dio, ma sempre con la convinzione nel cuore che il bene più grande e l’autorità più immensa sia sempre se stesso. Un giorno in cui non sia più il Mondo a dire “obbedisci, o ti volterò le spalle” ma sia l’uomo, intenso e immenso, Dio in quanto uomo, ad affermare “Io non ho bisogno di te, Mondo”.