
Serbia e Kosovo, un odio che parte da lontano
Quando si parla di Balcani non si può non pensare a tutte le guerre e gli scontri interetnici che hanno coinvolto i paesi che fanno parte della penisola balcanica: in questi giorni sono salite pericolosamente le tensioni tra la Serbia e il Kosovo, stato a riconoscimento limitato in quanto riconosciuto come tale solo da 98 nazioni dell’ONU. Nonostante si sia reso indipendente da Belgrado nel 2008, l’indipendenza del Kosovo non è stata mai riconosciuta dalla Serbia, che accetta l’esistenza di questo stato solo come parte integrante del suo territorio.
Il casus belli di questi mesi sarebbe stata la legge sulle targhe proposta dal primo ministro kosovaro Albin Kurti, la quale prevedeva che i residenti in Kosovo modificassero le loro targhe automobilistiche adeguandole alla nuova realtà. In pratica chi dispone di auto immatricolate prima del 1999 dovrebbe inserire le mostrine kosovare, una mossa che ha provocato un’escalation da parte della minoranza serba che è presente nella zona nord di Kosovska Mitrovica, la quale ha eretto barricate per bloccare il passaggio alla frontiera. Sembrava che la situazione stesse precipitando, con il governo serbo che si era detto disposto a un intervento militare, ma il pericolo è stato scongiurato grazie all’intervento statunitense, che ha consigliato al premier Kurti di rimandare la legge a fine agosto in modo da poter permettere a Unione Europea e NATO di dialogare tra le parti kosovara e serba. Secondo l’accordo raggiunto il 24 novembre a Bruxelles, il governo kosovaro non avrebbe obbligato i cittadini di etnia serba a usare la targhe del Kosovo mentre il governo serbo faceva cadere l’obbligo per i cittadini di etnia kosovara che viaggiavano dentro la Serbia di utilizzare targhe con la sigla SRB. All’agognato accordo, raggiunto faticosamente, sono seguite le dimissioni di massa dei consiglieri comunali e di altri dipendenti nelle aree a maggioranza serba, fatto che ha scatenato nuovamente le tensioni, portando il presidente della Repubblica kosovara Vojsa Osmani a rinviare le elezioni (previste inizialmente per la prossima settimana) al 23 aprile. Siccome il fuoco sotto la cenere è molto forte in questi giorni, si sono registrati nuovi scontri a causa dell’arresto di un ex poliziotto serbo da parte della polizia kosovara, che lo aveva accusato di terrorismo e attentato alla pubblica sicurezza dello Stato. Nella serata di domenica 11 dicembre, il presidente della Serbia Alexandar Vučić ha convocato una riunione urgente del suo consiglio di sicurezza al termine di una giornata di tensione che ha visto come episodio più grave il lancio di una bomba verso la macchina della missione EULEX, senza però provocare feriti o morti. Da parte kosovara è stata più volte denunciata la possibilità che queste proteste siano tutto fuorché spontanee, in quanto dietro la Serbia ci sarebbe la Russia di Putin, accusa lanciata dal ministro degli interni kosovaro Xhelal Svecla e dal primo ministro Kurti che sembra trovare conferma nei rapporti di intelligence occidentali: istruttori della Wagner sarebbero stati avvistati a Mitrovica nord durante le proteste dei serbi del Kosovo. Del resto i rapporti tra Putin e Vučic sono molto stretti, così come lo stesso legame tra Russia e Serbia si è consolidato nei secoli. Oltre a questo, ad allarmare della possibile regia russa a luglio 2022 ci fu un tweet di un parlamentare del partito socialdemocratico serbo (SDS) Vladimir Đukanovic, il quale affermava che la Serbia avrebbe dovuto “denazificare i Balcani molto presto”. Un pretesto, questo, utilizzato dalla Russia nei mesi precedenti l’invasione dell’Ucraina, collegato a certe affermazioni del primo ministro serbo Ana Brnabic, che ha più volte minacciato la possibilità che Belgardo invadesse il Kosovo con la scusa di difendere la popolazione serba.
La Serbia, soprattutto la sua componente nazionalista e ultra-nazionalista, ha sempre rivendicato il Kosovo come parte integrante della storia serba a partire da una data in particolare: il 15 giugno del 1389, infatti, la battaglia
della Piana dei Merli combattuta tra le forze serbo-ortodosse e quelle turco-ottomane vide la vittoria di queste ultime e la morte dello zar serbo Lazzaro. A partire da quella data, il Kosovo legò la sua storia alla dominazione ottomana e divenne parte integrante del suo impero. Almeno fino al 1912, quando si fece spazio l’ipotesi di inglobare il territorio kosovaro all’interno della “Grande Albania”. Un’ipotesi invisa al Regno di Serbia, che inviò prontamente in loco le sue truppe e le mantenne fino al 1918, quando il territorio del Kosovo passò sotto il Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni. Occupato dalle truppe nazi-fasciste durante la Seconda guerra mondiale, il Kosovo fu poi liberato nel 1944 dai partigiani comunisti albanesi, che però non riuscirono a evitare che diventasse una provincia autonoma all’interno della Jugoslavia di Tito. Sotto la sua dittatura, aumentò notevolmente la popolazione di etnia albanese nel territorio che, oltre all’ampia autonomia di cui disponeva, chiese anche lo status di repubblica prima nel 1968 e successivamente nel 1981-1982, a seguito della primavera di Pristina (che portò a una serie di scontri con le autorità jugoslave). Dopo la morte di Tito nel 1982, la situazione per il popolo kosovaro peggiorò quando il potere passò nelle mani di Slobodan Milošević, il quale puntò tutto sul nazionalismo serbo, soffocando qualsiasi tentativo di autonomia del Kosovo. Lo testimonia anche il discorso di Gazimestan del 28 giugno 1989 in occasione del 600°anniversario della battaglia, discorso in cui vennero ripresi i cardini del nazionalismo serbo che avrebbbero portato gli eventi a precipitare dieci anni più tardi. Dopo aver perso la guerra in Croazia e quella in Bosnia-Erzegovina nel 1998, le preoccupazioni della comunità internazionale si rivolsero proprio al Kosovo, all’epoca regione della Jugoslavia abitata in prevalenza da albanesi di religione musulmana. Salito al potere come presidente della Jugoslavia (ridotta alle sole Serbia e Montenegro) nel 1996, sotto la presidenza di Milošević aumentarono gli scontri tra le truppe di polizia serbe e l’UCK (l’esercito di liberazione del Kosovo) e non mancarono gravi violazioni dei diritti umani e numerosi crimini di guerra. Il più grave di questi eventi è datato 15 gennaio 1999 e segnò il punto di non ritorno: nel massacro di Račak, infatti, furono assassinati per mano serba 45 cittadini kosovari, di cui tre bambini. La NATO, l’Unione Europea e l’Occidente avevano avvisato Milošević che non si sarebbe tollerata un’altra Srebrenica e che la reazione sarebbe
stata molto più dura. Iniziarono così due mesi di intensa attività negoziale, con incontri che si tennero a Rambouillet ai quali, però, Milošević non partecipò e anzi ne respinse le condizioni come inaccettabili: il 24 marzo 1999, dopo aver rifiutato l’ultimatum da parte occidentale il giorno prima, partirono i bombardamenti su Belgrado. Una mossa estrema condizionata dalla reticenza serba e ampiamente contestata dai pacifisti occidentali, così sensibili al destino della popolazione serba ma molto poco verso i numerosi civili kosovari trucidati: i bombardamenti terminarono ufficialmente il 10 giugno 1999 quando venne firmato l’accordo di Kumanovo che ha portato la fine della guerra in Kosovo e l’inizio di un processo di pace. Tra i punti principali del nuovo accordo vi era la risoluzione ONU numero 1244/99, che autorizzava la presenza di un contingente delle Nazioni Unite, mentre, oltre al progressivo ritiro delle truppe jugoslave e serbe, si paventava la creazione di un contingente militare sotto l’egida della NATO denominato KFOR, con il compito di garantire la libertà di movimento di tutti i cittadini all’interno del Kosovo e di stemperare le tensioni etniche. Ad ogni modo il Kosovo ha deciso il suo destino nel 2008 quando si è dichiarato indipendente dalla Serbia scatenando l’ira di Belgrado che, supportato all’ONU dalle alleate Russia e Cina, la considera una violazione del suo territorio. A partire dal 2009 la Serbia ha avviato il processo di adesione all’Unione Europea, che è andato avanti fino al 2012, quando ha ottenuto lo status di paese candidato, e fino al 2014, con l’avvio dei negoziati. Sebbene parte della politica serba veda nell’ingresso in UE una vantaggiosa opportunità, non si può dire la stessa cosa di una buona parte della sua popolazione, che continua a vedere nella Russia il principale interlocutore: del resto, lo stesso Vučic ha deciso di non applicare le sanzioni adottate dall’Unione Europea contro la Russia, una mossa che potrebbe rallentare il processo negoziale per l’adesione futura.
Per fare un recap, quindi, i Balcani hanno ciclicamente vissuto periodi di tensione relativi a guerre interetniche e la stessa questione Serbia-Kosovo dimostra che certe situazioni non si sono mai veramente pacificate. Ad ogni modo la posizione di indipendenza e di sostegno internazionale di cui gode oggi il Kosovo dovrebbe mettere in guardia l’incosciente presidente serbo da una eventuale guerra nei Balcani che, oltre a compromettere definitivamente tutti gli sforzi fatti per la stabilità nella regione, sarebbe dannosa anche per lo stesso popolo serbo, che subirebbe nuovamente la reazione NATO, una lezione della storia che avrebbero dovuto apprendere ma che Vučic, ex ministro dell’informazione di Milošević, sembra aver colpevolmente dimenticato.
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1 comment
poveri umani di merda, sempre, ovunque.
ps: “Belgardo “