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Perché l’ottimismo sul crollo della Russia è infondato

Dal 23 al 24 Giugno la Russia è seriamente sembrata sull’orlo del caos interno. La stabilità interna è stata scossa dalla rivolta di Evgenij Prigožin, oligarga a capo della Wagner, nota compagnia russa di contractor. Gli uomini dell’ex chef di Putin hanno preso la città russa di Rostov sul Don, centro strategico per la supervisione delle operazioni in Ucraina per i russi, per poi muovere verso Mosca.

La Wagner, o meglio la parte della compagnia che ha preso parte alle operazioni, non sembra aver trovato grandi resistenze nella prima parte della sua rivolta, tolta la notevole eccezione dell’abbattimento di elicotteri dei “fratelli russi” dell’esercito regolare.

Nel frattempo, Putin ha descritto le azioni come un tradimento, evocando lo spettro della rivoluzione richiamandosi al precedente del 1917. Con la consapevolezza che storicamente la sconfitta strategica della Russia nei conflitti ha spesso provocato il crollo del regime politico vigente a livello interno. Quanto alle forze armate, i generali si sono schierati dalla parte dello Stato, con l’incognita Surovikin, considerato molto vicino a Prigožin. Alla fine Prigožin ha fermato la propria marcia a 200 km da Mosca. Il tutto avveniva tra la passività della popolazione.

Vi sono diverse chiavi di interpretazione di quello che è avvenuto. Molti osservatori si sono subito lanciati in ambiziose analisi, che vanno dal rafforzamento di Putin (anche se va ricordato che, per quanto Prigozhin abbia fallito è anche vero che prima della guerra era impensabile un evento del genere) a chi ci ha visto, in modo eccessivamente ottimistico, l’inizio della fine del regime di Putin, se non della stessa Russia.

La marcia di Prigožin va intesa come il culmine di una faida interna che va avanti da mesi: l’ex chef di Putin si contrapponeva al Ministro della Difesa Shoigu e al Capo di Stato maggiore Gerasimov. Il capo della Wagner aveva detto esplicitamente che avrebbe agito in qualche modo. Il fattore scatenante sembrerebbe essere stato il progetto di Shoigu e Gerasimov, in programma da mesi, di iniziare a ”incorporare” la Wagner nell’esercito regolare.

In ogni caso, è ancora presto per valutare gli effetti degli ultimi avvenimenti sui rapporti di forza del sistema putiniano. Ma questi ultimi eventi si possono inserire nel più ampio contesto in cui si sono sviluppati.

Innanzitutto, va ricordato che è riduttivo parlare della Wagner come dei mercenari. Questa infatti venne istituita su impulso dell’intelligence militare russa (GRU) ed è stata uno strumento fondamentale della politica estera russa, specie per irradiare l’influenza di Mosca in Africa e in Medio Oriente. E ha poi ricoperto un ruolo importante in Ucraina. Tant’è che gode di un’ottima reputazione in Russia. In breve, la Wagner è parte del regime russo.

La rivalità con la Difesa verteva sulla gestione della guerra in Ucraina. Lo scontro tra Prigožin e i vertici della Difesa è in parte il prodotto dei fallimenti in Ucraina, su i quali Prigožin ha fatto leva per mesi per attaccare Shoigu e Gerasimov. È quindi un’ulteriore testimonianza del fatto che la Russia abbia fallito in Ucraina a livello strategico (da intendersi in senso geopolitico, andando quindi oltre le vicende militari sul campo). Lo stesso Putin richiamandosi all’esempio storico del 1917 ha implicitamente ammesso che la guerra sta avendo conseguenze strategiche deleterie per la Russia.

Putin ha lanciato la sua invasione il 24 Febbraio 2022 per raggiungere i seguenti obiettivi: prevenire con le cattive l’ingresso dell’Ucraina nella NATO e più in generale la sua integrazione nell’Occidente; mantenere gli ucraini sotto il tallone di Mosca; stroncare l’emersione del sentimento nazionale in Ucraina (tre obiettivi ovviamente interdipendenti); mettere in crisi la posizione americana in Europa; rilanciare la Russia come grande potenza e, più in generale, colpire in modo decisivo il primato mondiale americano.

Quasi un anno e mezzo dopo, si è verificato il contrario di quanto Putin voleva realizzare. La NATO si è allargata alla Finlandia e di fatto anche alla Svezia, due Stati ben piazzati a livello militare. L’allargamento è un risultato strategico rilevante in quanto rafforza la postura dell’alleanza nel Mar Baltico. Inoltre, per effetto della guerra e dei conseguenti aiuti militari occidentali a Kyiv, l’Ucraina si è militarmente rafforzata. La guerra per demilitarizzare l’Ucraina ha reso quest’ultima militarmente più attrezzata, con più esperienza e più agguerrita. Di fatto Kyiv, se sopravvivrà allo sforzo bellico, sarà già integrata negli schemi NATO, sebbene senza l’assicurazione dell’articolo 5.

Per di più, e cosa più importante, Putin ha accelerato l’emersione di un sentimento di coesione nazionale ucraino. Quest’ultimo viene espresso dallo stesso governo di Kyiv tramite l’immagine dell’Ucraina come baluardo di difesa dell’Occidente dalla Russia. Quanto alla sfida agli Stati Uniti, l’invasione russa, lungi dal rilanciare lo status internazionale russo, ha mostrato i severi limiti delle forze armate russe, che non sono riuscite a prendere la capitale ucraina e hanno pure perso alcuni dei territori che avevano inizialmente occupato.

Al contrario, il sostegno militare e di intelligence americano ha salvato l’Ucraina, confermando la superiorità tecnologica americana e smentendo quella parte più superficiale della retorica sul declino americano. Quanto alla NATO, certamente all’interno dell’alleanza ci sono differenze evidenti la cui gestione è complessa, ma la guerra ha dimostrato che per gli europei non ci sono alternative all’alleanza atlantica.

Oltre a ciò, la Russia si è indebolita in quasi tutto il suo estero vicino, l’area geopoliticamente più rilevante per i russi. In ogni quadrante di quello spazio la sfera di influenza russa è in ritirata o è diventata oggetto di discussione. Nel Caucaso meridionale, la Turchia, che comunque ha un rango nettamente inferiore rispetto alla Russia, ha consolidato la propria influenza tramite l’alleanza strategica, di fatto un legame di sangue, con l’Azerbaijan. A testimoniare ciò è stata la presenza del premier armeno – teoricamente il protetto della Russia nella regione – alla cerimonia di insediamento di Erdogan ad Ankara (più o meno come se il premier israeliano andasse ad una manifestazione neonazista).

Gli Stati dell’Asia Centrale stanno intensificando i propri sforzi per rendersi meno vincolati a Mosca, aprendo spazi alla Cina. Quanto a quest’ultima, è tangibile lo spostamento dei pesi nell’amicizia ”senza limiti” tra i due in senso più favorevole a Pechino. Dal mese scorso il porto di Vladivostok è diventato un porto di transito per il commercio interno della Repubblica Popolare. Questo significa che Pechino ha riavuto accesso al porto che dovette cedere nel 1860, in pieno Secolo delle Umiliazioni, alla Russia zarista dopo 160 anni. Vladivostok, tra le altre cose, è la sede della flotta russa del Pacifico.

Non si tratta di un cambiamento da poco. La classe dirigente cinese non ha mai dimenticato le estorsioni russe al pari di quelle delle altre potenze occidentali. Ad esempio, l’unica volta in cui l’allora Segretario di Stato americano Henry Kissinger non venne ricevuto da Mao Zedong durante una sua visita in Cina fu quando, nel 1974, nell’ambito di un viaggio con diverse tappe tra gli alleati asiatici, fece scalo a Vladivostok dove l’Amministrazione americana si incontrò con la leadership sovietica prima di andare in Cina. Mao segnalò il proprio disappunto a Kissinger non ricevendolo. Il fatto che i cinesi non abbiano più tirato fuori la questione di Vladivostok con i russi è per via del loro pragmatismo, secondo il quale è necessario mantenere un legame forte con Mosca per non essere accerchiati alle proprie frontiere e per mantenere gli americani pesantemente impegnati su più fronti. Ma non significa che Pechino abbia dimenticato quella questione. I russi tutto questo lo sanno bene. Come ha recentemente ricordato il generale ed esperto di geopolitica Carlo Jean, i vertici militari russi parlano spesso del pericolo giallo.

In sintesi, quindi, non è il golpe o la ribellione di Prigožin ad aver indebolito la Russia, è l’indebolimento strategico della Russia ad aver posto le condizioni che, per mezzo delle rivalità personali tra il capo della Wagner, Shoigu e Gerasimov, hanno portato agli eventi dei giorni scorsi.

Questi sono il sintomo del fatto che la guerra in Ucraina è per ora un fallimento strategico per Mosca. Diverse voci hanno già dichiarato che la Russia ha perso a livello strategico. Non solo in Occidente. Il diplomatico cinese Gao Yusheng, ex ambasciatore in Ucraina, già al terzo mese di guerra, affermando che la Russia era diretta verso una sconfitta strategica, fu lapidario: «La cosiddetta rinascita della Russia sotto il governo di Putin si basa su una falsa premessa. Il declino russo è evidente in tutte le aree (…) Il Paese è in un continuo e storico processo di declino» dal crollo dell’Unione Sovietica.

Ciononostante, sarebbe sbagliato per l‘Occidente trarre delle conclusioni ottimistiche dalle difficoltà di Mosca. Certo, fa piacere vedere la Federazione russa in un momento di auto-inflitta difficoltà dopo l’aggressione di un vicino. Ma c’è dell’altro. La Russia potrebbe anche perdere in Ucraina e indebolirsi nelle gerarchie internazionali.

Tuttavia, ciò non implicherebbe di per sé un miglioramento nella congiuntura geopolitica degli Stati occidentali. Non implicherebbe per forza il crollo del regime in Russia. D’altronde, il fatto che la persona che ha compiuto il più clamoroso atto di opposizione contro il regime di Putin e contro i suoi vertici militari abbia criticato la conduzione della guerra in quanto ritenuta troppo morbida dimostra chiaramente che anche la sostituzione di Putin probabilmente non determinerebbe un cambiamento della collocazione strategica russa e dei fondamenti della sua politica estera.

Oltre a ciò, l’indebolimento strategico russo non comporterebbe la perdita del suo status di grande potenza. La Russia disporrebbe ancora di sei mila testate nucleari. Inoltre, pensare che una Russia indebolita, anche pesantemente, sia finita significa ignorare la storia russa. I gravissimi fallimenti strategici russi all’inizio del secolo scorso, con la doppia sconfitta contro l’Impero giapponese e nella Grande Guerra, due rivoluzioni e una guerra civile, non hanno cancellato la Russia dalla carta geografica e non ne hanno prevenuto la successiva riemersione come superpotenza.

Nei primi anni venti la Russia era in guerra civile; poco più di vent’anni dopo raggiungeva l’apice della propria potenza controllando mezza Europa. Raramente si è visto uno Stato passare così velocemente dal declino all’ascesa nella stessa misura, e con le stesse conseguenze, come nel caso della Russia. Detta in maniera semplice, la Russia ha dimostrato storicamente una grande abilità nel riprendersi dalle batoste e dai disordini interni (lo sviluppo della regione artica nei prossimi anni potrebbe essere fondamentale in tal senso). Perfino in questa guerra la Russia sta mostrando una grande capacità di resistenza, e di apprendimento a livello militare.

Inoltre, l’Occidente nei prossimi anni dovrà affrontare sfide di una gravità enorme e su più fronti. Gli Stati Uniti, pur avendo ottenuto punti importanti nella competizione con la Russia e con la Cina negli ultimi tempi, dovranno affrontare con i propri alleati quello che sembra poter diventare un asse tra Cina, Russia e Iran contemporaneamente su tre fronti.

Esattamente quell’intesa da cui lo stratega americano Zbigniew Brzezinski metteva in guardia gli Stati Uniti nel suo libro ”The Grand Chessboard” alla fine degli anni Novanta. Tutto ciò mentre devono affrontare problemi senza precedenti, come le divisioni interne e le difficoltà dell’industria bellica. Americani e alleati europei dovranno attrezzarsi per anni difficili e pericolosi. Anche se la guerra dovesse finire a breve, i costi per la costruzione dell’Ucraina saranno altissimi e la Russia rimarrà un minaccia.

Aspettarsi e volere un crollo della Russia o del regime di Putin è sbagliato non solo in quanto è improbabile che ciò avvenga, o anche se ciò avvenisse non cambierebbe l’atteggiamento russo verso l’Occidente, ma perché una grave destabilizzazione russa potrebbe avere effetti negativi persino per noi occidentali. Innanzitutto, il caos in tutto lo spazio russo avrebbe effetti devastanti ovunque, con un enorme arsenale nucleare fuori controllo. Inoltre, un’eccessiva destabilizzazione della Russia potrebbe avvantaggiare la Cina.

La tendenza di alcuni osservatori a vedere nella Cina un partner con cui ci sono spazi di cooperazione in quanto, a differenza della Russia, rispetterebbe le cosiddette “norme internazionali” è figlia di una visione fallace (gli stessi cinesi ovviamente affermano di non credere nel “sistema basato sulle regole”) che si basa su un’errata valutazione della politica estera cinese, dei suoi obiettivi e di azioni aggressive che Pechino mette in campo da oltre un decennio. La Cina è una minaccia maggiore della Russia per il semplice fatto che ha più capacità: non rischiamo un mondo russo-centrico; quello sino-centrico è possibile.

C’è poi un’altra paradossale motivazione, che è il prodotto di quelle precedenti, per cui è sbagliato l’ottimismo sul tracollo della Russia: questo finirebbe in realtà per indebolire l’Occidente. Non solo perché il caos, il rischio nucleare e il fatto che altri ne approfitterebbero sarebbero degli sviluppi negativi per gli Stati occidentali, ma in quanto la minaccia posta della Russia negli ultimi 80 anni è stata un collante dell’Occidente e un importante fattore propulsivo di rafforzamento della cooperazione militare, di intelligence e persino delle capacità economiche degli Stati occidentali.

È stata la minaccia posta dalla Russia a spingere diversi Paesi occidentali, in primis gli Stati Uniti, a migliorarsi, ad aumentare il proprio potere militare, il proprio sviluppo tecnologico e la propria proiezione strategica. Guadagnandoci in termini di potenza complessiva e influenza internazionale. La NATO, l’integrazione europea e la stessa idea di Occidente come una comunità politica oltre che una civiltà furono innescati dalla minaccia sovietica. Questo discorso vale oggi persino per gli Stati Est Europei, i più minacciati da Mosca. La rilevanza di uno Stato come la Polonia si deve appunto alla minaccia russa. Senza di questa, Varsavia avrebbe molto meno appoggio dagli americani – appoggio che ne migliora le capacità militari – e sarebbe molto meno attrattiva per gli altri est europei.

La competizione tra gli Stati, per quanto possa apparire spaventosa, se gestita attraverso un’adeguata sapienza strategica, è incredibilmente utile. Spinge uno Stato a migliorarsi in continuazione. Oltre ad essere inevitabile, la competizione internazionale è positiva.

In un recente articolo lo stratega americano Edward Luttwak ha sostenuto che le azioni di Putin e Xi Jinping abbiano fatto risorgere l’America. La Russia e la Cina hanno minacciato i propri vicini spingendoli verso gli Stati Uniti, rafforzando così l’influenza internazionale americana e, conseguentemente, il potere americano, anche in tempo di disordine interno. Se è dalla necessità di competere con i propri nemici che gli USA riescono tuttora a rafforzarsi, la logica vuole che gli USA, senza quei nemici, non sarebbero indotti a cercare di rafforzare la propria economia, le proprie forze armate, a difendere il proprio primato tecnologico e avrebbero meno capacità di attrazione nei confronti degli alleati.

In definitiva, tra il piegarci alla Russia (come molti filo-russi vorrebbero) e il cercare il crollo della Russia – evento che non sapremmo gestire – l’Occidente, tramite un’intelligente divisione del lavoro, dovrebbe prepararsi ad affrontare la minaccia russa e a contenerla in modo pragmatico nei prossimi anni, che si preannunciano pericolosi. Senza pensare al regime change.

Fondamentalmente è questa la lezione lasciata dalle Amministrazioni americane realiste che affrontarono con successo l’URSS nella Guerra Fredda; da Truman e da Eisenhower a Bush Padre, leader abile quanto sottovalutato, il quale all’inizio degli Novanta era ben felice di sfruttare la debolezza russa per vincere la Guerra Fredda, in tal senso era sostanzialmente sulla scia dell’Amministrazione Reagan, ma fu estremamente cauto sul crollo definitivo dell’URSS. Fu il pragmatismo a portare alla vittoria. Da questo punto di vista, l’Amministrazione Biden si sta muovendo adeguatamente.

La Russia continuerà ad esserci. E continuerà ad essere una minaccia. Dobbiamo attrezzarci, anche concettualmente, per affrontare questa situazione.

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Processare Putin? Diritto internazionale e guerra in Ucraina

1 comment

dario greggio 29/07/2023 at 19:34

Io confido che ci porterà alla dolce WW3 ;) è bello, giusto e necessario.

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