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Politica internaSpeaker's Corner

Perché bisogna votare no (ragioni di metodo)

“La costituzione e così la sua riforma debbono essere il patrimonio comune il più possibile condiviso non espressione di un indirizzo di governo e risultato del prevalere contingente di alcune forze politiche su altre. La costituzione non è una legge qualsiasi che persegue obbiettivi politici contingenti legittimamenti voluti dalla maggioranza del momento, ma esprime le basi comuni della convivenza civile e politica. Ecco perchè anche il modo in cui si giunge a una riforma investe la stessa credibilità della Carta costituzionale e quindi la sua efficacia”. Tratto dal manifesto per il no di 56 giuristi ed ex prestidenti della Corte Costituzionale

 

Vi sono anche ragioni di metodo, e non solo di merito, che depongono per il respingimento della riforma costituzionale oggetto del referendum del 4 dicembre.

La riforma costituzionale su cui ci apprestiamo a votare va respinta per due ordini di ragioni, tra di loro collegate, che attengono alla modalità con cui essa è stata realizzata: una revisione costituzionale che, per la terza volta consecutiva, è stata elaborata dal governo; e per di più, non fosse già questo di per sé un aspetto estremamente discutibile, imposta al parlamento a colpi di maggioranza e approvata attraverso una serie innumerevole di abusi e forzature (come la rimozione, da parte del partito di governo, dei deputati non allineati in commissione affari costituziali o la compressione dei tempi di dibattito parlamentare).

Benchè sia una prassi ormai affermata – ma che occorre ugualmente censurare , qualunque sia il governo che la perpetua -, il compito di modificare la costituzione spetta (o meglio dovrebbe spettare) al parlamento, e non al governo (è per questo che in passato si costituivano le cosidette commissioni o bicamerali). Accettare che il governo si arroghi la facoltà di modificare o riscrivere parti della Costituzione, significa svilire la Costituzione, far diventare quella che, con una formula retorica, si suol definire “la casa di tutti”, “una costituzione di parte”. La revisione della Costituzione non rientra nelle funzioni di indirizzo politico proprie di un governo né dovrebbe diventare argomento di contrapposizione tra maggioranza e opposizione. 

Piero Calamandrei, uno dei padri costituenti, disse a questo proposito una frase che è poi diventata celebre, e che viene richiamata costantemente in queste occasioni: “quando si scrive la costituzione, i banchi del governo devono restare vuoti”. De Gasperi, da capo del governo, prese la parola una sola volta in assemblea costituente, senza mai interferire con i lavori della costituente. Altri tempi, altri statisti.

È da considerarsi fondato l’argomento, fatto notare da più parti, per cui, non giuridicamente ma quantomeno dal punto di vista politico, un parlamento eletto attraverso una legge dichiarata incostituzionale da una sentenza della Corte Costituzionale non fosse legittimato a operare una riforma costituzionale.

Si dirà che, almeno inizialmente (al senato, in prima lettura) vi era stata la convergenza di quasi tutte le forze politiche (tranne Sel e Movimento 5 stelle) nel processo di riforma, finché Forza Italia non si è sfilata (senza che nel frattempo fossero intervenute modifiche rilevanti ma per motivi estranei alla riforma – ovvero per il modo in cui si era addivenuti all’elezione di Mattarella come Presidente della Repubblica). Cosa avrebbe dovuto fare a quel punto il Capo del governo? Seguire l’esempio di David Cameron, che nel 2011 promosse una riforma della Camera dei Lord invisa al partito laburista e che nel settembre del 2012 decise di accantonare il progetto perché non condiviso. Il  mutamento delle condizioni politiche avrebbe dovuto spingere il governo a rinunciare, rinviando la riforma costituzionale a quando i tempi sarebbero stati maturi, anziché fare in modo di approvarla a tutti i costi, sostituendo i voti mancanti di Forza Italia con quelli di transfughi provenienti dallo stesso partito (il gruppo politico capeggiato di Verdini).

Un’ulteriore notazione la merita il titolo (tendenzioso o truffaldino a seconda dei punti di vista) che è stato attribuito alla riforma: un titolo che mette insieme il contenuto della legge con le finalità che si vorrebbero conseguire (il taglio dei costi della politica) e precisazioni inesatte (superamento del bicameralismo paritario) o dal sapore demagogico (riduzione del numero dei parlamentari). È la prima volta che si usa un titolo di questo tipo (riservato di solito alle leggi ordinarie) per una riforma costituzionale.

Renzi ha legato la sua permanenza al governo all’esito del referendum. Trattasi di un ricatto plebiscitario, come ha rilevato Gianfranco Pasquino; un sordido ricatto che ha avuto come conseguenza la politicizzazione del voto. Non credo sia mai avvenuto nella storia recente che un leader poltico abbia – da subito – minacciato le dimissioni nel caso non fosse stato approvata una legge oggetto di un referendum.

Siamo indifferenti rispetto alla sorte dell’esecutivo: caduto un governo, se ne fa un altro. Dispiace tuttavia che troppi, su un tema così importante, votino secondo criteri di simpatia/antipatia nei confronti del Presidente del Consiglio (o del variegato fronte politico che si oppone alla riforma) oppure per evitare ipotetici scenari politici futuri che con la riforma non hanno nulla s che vedere. Bisognerebbe invece votare esclusivamente nel merito. Tenendo bene a mente che i governi passano, la costituzione resta. E che dunque, come insegna la riforma del titolo quinto, qualora la riforma venga confermata dal voto popolare, sarà molto difficile intervenire per riparare agli errori e guasti provocati dall’approvazione della stessa.

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