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La verità sulla disoccupazione USA

Dopo l’elezione di Donald J. Trump come prossimo presidente degli Stati Uniti si fa strada l’idea secondo cui le cause dell’esito elettorale non siano da individuare primariamente nei dati oggettivi, bensì piuttosto al campo ideologico, e specificamente alla crescente influenza di una deriva sociale che da alcuni viene vista negativamente, come antidemocratica, antiliberale e reazionaria verso la società aperta e globale, e da altri positivamente, come patriottica, a difesa dello Stato-nazione e dell’indipendenza nazionale.

Il dato continuamente menzionato da varie parti come prova di una situazione economica americana relativamente buona, che renderebbe secondario l’impatto dell’economia sull’evoluzione politica intervenuta, è quello del tasso di disoccupazione. Considero dunque necessario rispondere subito a questo argomento, affinché venga dimostrato che al contrario l’evoluzione politica può invece essere spiegata dalla situazione economica e sociale statunitense, come avevo sostenuto in due diverse occasioni già prima delle elezioni.

È vero che l’amministrazione Obama sta per concludere il suo mandato lasciando la disoccupazione ufficiale negli USA a un livello sensibilmente più basso rispetto all’inizio del suo mandato. A gennaio 2009 la disoccupazione ufficiale si trovava al 7.6%, essa è aumentata fino a raggiungere un massimo di 10% nell’ottobre dello stesso anno, e dopo essere rimasta a livelli simili fino a novembre 2010 (9.8%), ha cominciato a diminuire, particolarmente durante il secondo mandato di Obama, quando partendo dall’8% di gennaio 2013 essa è continuamente diminuita fino al 4.9% attuale.

Bisogna dire prima di tutto che questo tasso non rappresenta un’eccellenza per gli standard americani, in quanto gli USA storicamente danno sempre importanza primaria all’occupazione alta, a differenza dei paesi europei, dove si cerca di rispondere ai bisogni della popolazione usando più strumenti di politiche sociali. Così uno può osservare che pure durante la presidenza Bush, fra agosto 2005 e aprile 2008 la disoccupazione è stata costantemente inferiore o pari al 5%, per aumentare vertiginosamente nel secondo semestre del 2008.

A svelare poi la realtà sull’occupazione e in genere la situazione socioeconomica attuale negli USA è il tasso di partecipazione alla forza lavorativa. Esso è rappresentato dall’indice US labor force participation rate, il quale registra la percentuale del numero di lavoratori occupati e disoccupati ufficiali per il numero dei lavoratori potenziali, cioè tutte le persone aventi più di 16 anni di età tranne le persone istituzionalizzate e quelle che servono alle forze armate. Il tasso di partecipazione alla forza lavorativa era pari a 65,5% all’inizio della presidenza Obama a gennaio 2009 e a ottobre 2016 è pari a 62,8%, essendo già sceso anche di più nel 2015: è dal 1978 che non si trovava a livelli così bassi, mentre dal 1989 fino al 2008 esso era costantemente superiore al 66%, e spesso superiore anche al 67%.

Più specificamente, secondo il Bureau of Labor Statistics il numero dei lavoratori potenziali negli USA a gennaio 2009 era pari a 234.7 milioni e fra di loro 153.7 milioni erano occupati o cercavano attivamente un posto di lavoro (ossia erano disoccupati ufficiali, registrati). A ottobre 2016 il numero dei lavoratori potenziali era pari a 254.3 milioni, mentre quello di occupati e disoccupati ufficiali pari a 159.7 milioni, fra cui i secondi erano 7.8 milioni. Con un tasso di partecipazione uguale a quello di gennaio 2009, ossia 65.5%, gli occupati e disoccupati registrati sarebbero dunque attualmente 166.6 milioni e in particolare il numero dei secondi sarebbe pari a 14.7 milioni. In altre parole la disoccupazione ufficiale sarebbe pari non a 4.9%, ma a 8.8%, cioè sensibilmente maggiore di quella che il presidente Obama ha incontrato all’inizio del suo mandato, e decisamente più alta di quella che rappresenta la normalità per la società statunitense. Se poi si considera una partecipazione alla forza lavorativa simile a quella del periodo 1989-2008, ossia fra 66-67% – tasso che rappresenterebbe quindi la normalità per la società americana pre-crisi –, allora la disoccupazione “reale” attuale sarebbe almeno doppia di quella ufficiale.

Se viene poi considerata la presenza di diversi milioni di immigrati illegali nel paese, diventa ovvio che anche i redditi dei lavoratori squalificati occupati stanno subendo una pressione significativa, mentre una parte di loro è comunque sottooccupata. E a tutto ciò deve essere aggiunto il dato dell’aumento enorme del debito pubblico americano, il quale partendo dal 77,4% del Pil a gennaio 2009 supera il 105% a ottobre 2016, mentre esso dal 1966 fino a giugno 2008 si muoveva tra 30-65% del Pil.

Dunque i tassi della disoccupazione ufficiale e della crescita del Pil (attualmente 2.9%), così esaltati da chi sostiene che l’evoluzione politica registrata debba essere compresa tramite una chiave di lettura prevalentemente ideologica o culturale e non oggettiva e materiale, e da chi in Europa vuole guardare alla politica Obama come la risposta all’austerity adottata dall’UE, si dimostrano molto meno importanti, se non proprio privi di significato. Essi si basano su una ripresa piuttosto artificiale e nominale, basata proprio sulla delusione e la rinuncia di milioni di lavoratori americani a cercare lavoro e su un enorme debito pubblico, e non su un risveglio della base produttiva americana. Al di sotto della superficie, c’è una realtà che racconta di redditi diminuiti e insicurezza, dovuta alla de-industrializzazione dell’economia statunitense.

Deindustrializzazione causata per lo più dal commercio “libero” con la dittatura comunista cinese, voluto e difeso dalle amministrazioni Clinton, Bush e Obama.

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