
Non occorre aver visto anziani comici schiumare improperi sul palco o aver ascoltato scialbi populisti recitare il loro sonnolento vangelo in televisione, per conoscere a memoria la litania delle lagnanze antiglobaliste: la globalizzazione incoraggia lo sfruttamento dei lavoratori, la globalizzazione mette in ginocchio le nostre imprese e distrugge occupazione, la globalizzazione deteriora la qualità dei prodotti disponibili sul mercato.
Ma cos’è la globalizzazione? La globalizzazione è quel millenario processo di integrazione dei mercati locali del mondo che negli ultimi secoli ha posato due delle sue pietre miliari con l’approdo di Colombo in America, che inaugura l’era delle scoperte geografiche, e con l’adesione della Cina al WTO (2001), che segna l’apertura economica dell’Asia all’Occidente: l’ormai abituale sovrapposizione del concetto di globalizzazione a quello di libero scambio ha quindi ragione nel fatto che a cadere oggi sono le barriere legali e fiscali al commercio in luogo di quelle geografiche[1].

Secondo la dottrina liberoscambista ciascun individuo, vendendo quei beni o servizi in cui egli ha conseguito un vantaggio in termini di efficienza produttiva, per acquistare in cambio da altri i beni e servizi in cui essi vantano tale primato, raggiungerà uno stato di prosperità maggiore che non isolandosi e obbligandosi a consumare solo ciò che di buono o di non buono egli riesce a produrre da sé. Immaginate un medico che abbandoni la professione che, grazie a lauti guadagni, gli consentiva di acquistare ottima carne dal macellaio, splendide ville dai muratori e avanzata tecnologia dagli ingegneri; per vivere da eremita, cacciando lepri e dormendo in capanne costruite a mani nude: quale sarebbe la ragione della sua sopraggiunta miseria se non l’aver rinunciato a scambiare le proprie prestazioni con quelle offerte dai concittadini? Così la conversione dell’autoproduzione in mercato è fattore di arricchimento generale in quanto, creando un bacino di potenziali partner commerciali, accresce per ciascuno le opportunità di far fruttare il proprio lavoro, permutandolo col lavoro altrui, in misura tanto maggiore quanto più ampio, quanto più globale sarà tale mercato.
In questo senso la trasformazione delle economie nazionali autarchiche in un intreccio di aree produttive interdipendenti rientra in quel processo di specializzazione del lavoro che ha guidato l’evoluzione – culturale e sociale prima ancora che materiale – delle comunità umane dall’accentramento dell’autorità in un unico soggetto dominante (sciamanesimo) all’articolazione in una rete sempre più vasta di individui che si scambiano liberamente le rispettive competenze in qualità di professionisti (società orizzontale). È un miracolo dell’odierna economia della conoscenza che all’europeo medio della nostra generazione lo sviluppo di internet e i voli a basso costo abbiano schiuso una miniera di informazioni ed esperienze un tempo a stento appannaggio dei settori più esclusivi della società!

Ma allora cosa anima le nostalgie primitiviste nutrite degli stregoni dell’antiglobalismo? Di certo non la cosiddetta protezione delle nostre economie, visto che numeri alla mano in valori assoluti il reddito dei Paesi avanzati dal ’90 a oggi è aumentato persino maggiormente che in quelli in via di sviluppo. Parimenti bugiardo è lo slogan della difesa della qualità dei prodotti, visto che la qualità sa ben ritagliarsi da sola quote di mercato, purché vi siano acquirenti disposti a pagarle il sovrapprezzo richiesto dal venditore: una più ampia offerta di beni, anche di livello inferiore, implica comunque una maggiore libertà di scelta per il consumatore; se determinati prodotti italiani spariranno sarà solo perché nessuno in base ad autonome valutazioni di qualità e costo riterrà di preferirli ai loro omologhi stranieri. Invece uno stato che si mettesse a fare da gabelliere per conto delle imprese amiche per obbligarci mediante dazi a comprare da esse a prezzo maggiore ciò che avremmo acquistato da altri a prezzo minore, immolando una parte del nostro tempo-lavoro, questo sì sarebbe una limitazione della libertà e del benessere nazionale.

I no-global giustificano tale mostruosità statal-corporativista con l’esigenza di salvaguardare i lavoratori dalla concorrenza della manodopera straniera. Tuttavia, poiché le azioni protezionistiche causano sempre ritorsioni simmetriche, l’erezione di barriere doganali inguaierebbe le nostre imprese vincenti, che si vedrebbero sbarrati vitali mercati di sbocco esteri: più che i lavoratori si tratterebbe di proteggere a discrezione della politica determinati posti di lavoro di bassa qualità sacrificandone altri di maggiore qualità, con grave danno per la prosperità generale. Ma i guai non finirebbero qui: è facile scordarsi quanto l’attuale tenore di vita della classe media europea dipenda dalle merci a basso costo fabbricate totalmente o parzialmente in Asia; ma vi siete mai chiesti che prezzo avrebbe uno smartphone prodotto interamente in Italia? Quante mensilità di un operaio sarebbero necessarie per acquistarlo? Quale miseria, come nell’esempio del medico, ci attenderebbe sull’eremo dell’autarchia? Se poi completeremo la chiusura alla globalizzazione levando barricate contro la circolazione della forza lavoro, priveremo i contribuenti/consumatori anche dell’ultima via di fuga dal leviatano costituito dallo stato e dalle imprese protette: l’emigrazione. Privati della possibilità di vendere le proprie prestazioni fuori dal recinto del caporalato nazionale a quel punto davvero i lavoratori potrebbero essere sfruttati fino all’ultima goccia di sangue.
Insomma questo modello, in base al quale ognuno sarebbe duplicemente vincolato per dovere di nascita ad offrire il proprio lavoro ad un dato padrone e a consumare poi solo la sua merce, ricorda molto l’istituto della servitù della gleba, cui gli stessi antiglobalisti alludono inconsciamente col loro insistente richiamo allo pseudoconcetto di “territorio”, dove per “territorio” s’intendono gli interessi corporativi delle note cricche locali e nazionali. La regressiva ideologia no-global dunque rappresenta l’ennesimo atto di guerra culturale sferrato dai settori protetti della società alle nostre migliori imprese, ai ceti produttivi e soprattutto alle esigenze materiali e alle aspirazioni spirituali delle giovani generazioni.
[1] Anche lo sviluppo delle tecnologie, specialmente dell’informazione, ha catalizzato la globalizzazione. Tuttavia non affronteremo direttamente il tema in questo articolo.
3 comments
[…] italiani, applicando un po’ di protezionismo, vi suggerisco questo bell’articolo: https://immoderati.it/2016/01/09/no-global-ovvero-partito-della-gleba/ E riguardo al debito pubblico? Ecco le risposte Copia il codice qui sotto per creare un link a […]
[…] I no-global, ovvero il Partito della Gleba […]
[…] Tuttavia gli scoperti piani di spesa e di deficit dell’esecutivo May, la sua sfacciata retorica pro-fisco e l’isteria maccartista con cui vengono promosse certe campagne neofasciste – come quella contro i consulenti stranieri dei ministeri – dimostrano che l’involuzione statalista della politica britannica non è dettata tanto dell’impasse negoziale in cui il governo di Londra si trova incastrato, quanto puttosto da una genuina avversione al mercato e alla globalizzazione intimamente connaturata al popolo del Brexit. Per cui, anche i più intellettualmente disonesti, dopo aver udito al congresso dei Tories il linguaggio pentapartitico della “politica industriale” e addirittura progetti di controllo centralizzato dei prezzi, che farebbero impallidire persino Nichi Vendola, dovranno ora riconoscere che gli impulsi che hanno guidato il voto verso il no tendevano in misura preponderante non verso maggiore bensì verso minore libertà economica, non verso minore bensì verso maggiore protezione e interventismo statale. La destinazione ideale dello scisma britannico non è dunque quel porto franco degli investimenti e dei commerci globali, vagheggiato da qualche macchietta della blogosfera italica, ma al contrario un’utopia isolazionista asimmetrica tanto irrealistica quanto le fole di quegli arruffapopoli nostrani che invocano dazi sulle importazioni senza avvedersi che essi comporterebbero automaticamente dazi eguali e contrari sulle nostre esportazioni. […]