Sembrava essere nulla più di un sensazionalismo estivo, e invece la notizia riportata sul settimanale Der Spiegel poco dopo metà luglio pare essere almeno in parte fondata: la Commissione europea e l’Autorità di concorrenza tedesca stanno ancora analizzando i documenti che il gruppo Volkswagen ha loro spontaneamente consegnato e che, secondo la tesi prevalente, dovrebbero provare l’esistenza di un vero e proprio cartello nell’industria automobilistica tedesca da decenni fino ad oggi. Se confermato, questo evento andrebbe a intrecciarsi con il ben noto scandalo “Dieselgate” esposto quasi due anni fa, in un vortice potenzialmente distruttivo per il buon nome della manifattura tedesca.
In breve, l’accusa ancora informale rivolta ai maggiori costruttori tedeschi di automobili (Volkswagen, BMW e Mercedes) è di aver allestito e mantenuto da metà degli anni ‘90 una rete organizzata di contatti, incontri e intese al fine di coordinare assieme gran parte della strategia industriale per i propri prodotti, incluse le politiche relative ai sistemi di riduzione delle emissioni sui veicoli diesel; il tutto evitando di comportarsi da veri concorrenti e danneggiando così il mercato. Si tratta di un evento molto diverso dal “Dieselgate”, ma potenzialmente collegato (nonché molto più ricco di conseguenze): speculando, si potrebbe pensare che l’imbarazzante sotterfugio usato da Volkswagen per superare i test omologativi altro non sia che l’ultimo, estremo passo di un percorso collusivo di lunga data; un passo che forse è stato considerato troppo rischioso dagli altri due costruttori partecipanti al presunto cartello.
Ma come mai si parla di cartello? E’ ingenuo pensare che organizzazioni così complesse come marchi internazionali, benché in competizione, agiscano ciascuna evitando completamente il contatto con le altre; e in fondo, la cooperazione tra aziende concorrenti è costantemente promossa alla luce del sole non solo nell’industria dell’auto. Proviamo, senza dati precisi, a capire perché le attività di cui sono accusati i costruttori tedeschi potrebbero non rientrare nella normale cooperazione e sarebbero quindi illecite. L’idea embrionale su cui si basano le economie liberali è che la concorrenza effettiva tra imprese simula una lotta per la sopravvivenza nel mercato e di conseguenza induce ciascun produttore a basarsi solo sulle proprie forze per fare meglio degli altri (leggi: abbassare i propri costi e innalzare la qualità). Secondo questo principio due imprese indipendenti non possono aiutarsi l’una con l’altra perché ciò equivarrebbe a fornirsi a vicenda un aiuto contro i rischi della competizione – rischi che appunto generano l’interesse delle imprese a migliorare le proprie prestazioni e sono quindi fondamentali.
Come mai allora sono ammesse le cooperazioni tra concorrenti? In realtà la quasi totalità dei contratti bi- o plurilaterali tra competitors orizzontali sono in sé, in origine, distorsivi della concorrenza. Pensiamo alle varie joint ventures stipulate tra due costruttori di auto per lo sviluppo di nuove piattaforme o la costruzione di fabbriche; o agli accordi con cui una casa trasferisce una certa tecnologia all’altra. Queste collaborazioni implicano la possibilità, a volte molto ampia, per un’impresa di giovarsi delle tecnologie dell’altra, e/o di concordare una certa attività industriale o commerciale. La legislazione antitrust, però, ha come obiettivo incrementare il benessere del consumatore tutelando la concorrenza, non invece proteggere l’assoluta indipendenza tra imprese concorrenti fine a se stessa. Se dunque, di norma, è proprio quest’ultima a generare i maggiori benefici per i consumatori, in altre occasioni si riconosce che un certo livello di innovazione con costi e tempi ragionevoli non si potrebbe raggiungere se non accettando che due o più imprese mettano assieme le proprie forze per periodi e scopi limitati. Da questo riconoscimento nascono le deroghe per gli accordi orizzontali di cui sopra, che devono comunque rispondere a determinati standard fissati a livello comunitario.
C’è dunque un trade-off tra compressione della concorrenza da una parte, e innovazione tecnologica dall’altra, con la seconda parte dell’equazione che deve sempre essere maggiore della prima. La presunta condotta posta in essere da VW, Mercedes e BMW, invece, se è come descritta, si differenzia da quanto detto sopra per due motivi:
1) si tratta di una cooperazione segreta, portata avanti all’oscuro dei concorrenti e delle autorità. Come afferma David Wingfield, l’avvocato che guida una class action appena attivata in Canada contro i costruttori in questione, “quando le persone agiscono legalmente non cercano di nascondere quello che fanno”;
2) soprattutto, si tratta di una condotta che probabilmente ha ridotto i rischi industriali e commerciali connaturati alla libera concorrenza, e dunque provocato danni al mercato, in misura molto maggiore rispetto ai (possibili) benefici che ha generato. Se un potenziale vantaggio può derivare al consumatore dall’ottimizzazione di alcuni canali di fornitura per componenti, certamente non è sufficiente a compensare i danni in termini di prezzi concordati e rallentamento nell’innovazione che il cartello può aver reso possibili. Peraltro, un’intesa simile verrebbe considerata illegale a prescindere da un’analisi dei suoi effetti economici, in quanto “per oggetto” finalizzata a rendere il mercato meno competitivo.
Siamo alla fase iniziale dell’indagine e non si ha null’altro che le indiscrezioni di Der Spiegel e una buona dose di ipotesi, dato che ancora nulla è emerso dai documenti volontariamente rimessi alla Commissione da VW; rimangono molti punti oscuri, su tutti la sorprendente assenza di qualsiasi riferimento al coinvolgimento nel cartello di Bosch o di aziende omologhe attive nella fornitura di dispositivi anti-inquinamento. Viene da chiedersi come i costruttori di autovetture abbiano potuto pianificare l’intera strategia ambientale sui loro veicoli senza l’apporto di – o una forma di influenza su – chi produce la tecnologia necessaria.
Dovesse però venire confermata l’esistenza di un’associazione di imprese con caratteristiche simili a quelle qui ipotizzate, ci sarebbe il rischio di un contraccolpo senza precedenti in termini economici e di credibilità verso l’industria automobilistica tedesca: in primo luogo si prospettano cause civili da parte di concorrenti e consumatori; in secondo luogo, sarà da analizzare l’impatto di una condanna sul rapporto di fiducia costruttore-cliente, il che è di particolare interesse alla luce del fatto che VW non pare, ad oggi, aver accusato effetti negativi di lungo periodo sulle vendite dopo l’esposizione dello scandalo emissioni; in terzo luogo, si ipotizzano sanzioni amministrative fino al 10% del fatturato per le imprese partecipanti; questo non varrà per VW se la Commissione riterrà decisivo il suo contributo di “whistle-blower” per la scoperta del cartello e per le indagini e deciderà quindi di concedere al gruppo la piena immunità in conformità al c.d. programma di clemenza (eventualità per certi versi iniqua, ma necessaria per la difficoltà estrema di scoprire intese del genere senza un’autodenuncia).
In relazione a quest’ultimo aspetto i riflettori saranno più che giustamente puntati sull’Unione europea e sulla sua capacità di mantenere fermezza e polso nei confronti di un terzetto industriale spaventosamente influente sull’occupazione, sulle esportazioni e sulla cultura dello Stato trainante del continente. Dovessero essercene le basi, ci si deve aspettare un’inchiesta il meno possibile politicizzata (è impossibile evitare che lo sia almeno in parte) e, nel caso, sanzioni proporzionate ma rapide ed in linea con la prassi. Insomma, quello che stiamo ancora attendendo di vedere nei confronti di VW, contro cui non è ancora stata formalizzata nemmeno un’accusa comunitaria per violazione delle norme ambientali; a tal punto che lo stesso gruppo VW può trionfalmente sostenere di non aver installato dispositivi illegali sul territorio europeo.
Sarà una partita delicata perché da un lato le istituzioni europee dovranno dimostrare di far seguire decisioni concrete all’impegno di difendere e sostenere l’interesse dell’integrazione europea; dall’altro perché sarà importante per Paesi diversi dalla Germania non cadere nella tentazione di usare questa vicenda a fini negoziali (leggi: ricattatori) per giustificare inadempimenti alle regole europee in casa propria. Questo atteggiamento, già in parte diffuso in relazione ad altre tematiche, equivarrebbe a destabilizzare e a far vacillare lo spirito di cooperazione europea esattamente alla pari dell’incapacità decisionale palesata dall’Unione su certi dossier e di comportamenti anti-concorrenziali di aziende e governi di altri Stati membri. Tanto più che la Germania è sì uno Stato complessivamente più virtuoso del nostro, ma con un buon numero di procedure di infrazione chiuse e pendenti è tutt’altro che uno Stato intoccabile o impunito. Gli altri Paesi dovranno, come è loro consentito, vigiliare affinché il procedimento in corso non lasci nulla di intentato; ma se invece prevarrà la volontà di ripicca in sede comunitaria, vorrà dire che avremo perso l’ennesima occasione per dimostrare le nostre forze invece di fregiarci degli altrui imbarazzi.
1 comment
Articolo interessante e ben scritto, anche se fondato su indiscrezioni trapelate su un giornale tedesco, tutte da verificare. I concetti di fondo esposti, tuttavia, prescindono dalla veridicità dei fatti.
Parlando di industria automobilistica, tuttavia il concetto stesso di concorrenza, OGGI, va rivisitato. Non è da adesso che le marche più diverse adottano componenti di case concorrenti, e non dettagli, ma motori interi, telai d’autovettura ed altro ancora. La concorrenza si svolge sul piano del “rivestimento” dell’automezzo, sull’immagine della casa, ecc, ecc.
Non sulla tecnologia. Cos’hanno in comune FIAT e Suzuki ? Nulla. Eppure hanno un modello di autovettura identico, salvo sfumature, con due marchi concorrenti.
Li è evidente. Per Seat, Skoda e WV si tratta della medesima proprietà di controllo e quindi non le consideriamo case concorrenti. Ma andando a scavare troviamo pezzi di auto concorrenti un poco ovunque.
Non parliamo poi dell’elettronica di consumo (telefonini e TV) dove pochi produttori producono per infiniti marchi.
Un mondo complesso dove anche la concorrenza non è più quella che immaginavamo, e tende al monopolio, manifestandosi attraverso diverse sfaccettature di marchio.