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Economia & Finanza

L’Italia ostaggio delle rendite e delle distorsioni da regolamentazione

L’Italia in ginocchio per colpa della globalizzazione e del libero mercato? Semmai il contrario: siamo ostaggio delle barriere che hanno trasformato l’Italia in un paradiso per le rendite di posizione, con pochi big player trincerati in mercati più protetti e difesi del Fort Knox. 

Veramente l’aneddotica che vediamo sempre per l’italia, che è colpa sempre di qualcun altro, corrisponde alla realtà? Se ne è parlato durante il panel “Disuguaglianza, neoliberismo, capitalismo di Stato” all’interno dell’evento veneziano di Liberi oltre.

Abbiamo un Paese Italia fermo da vent’anni: l’Europa cresce fondamentalmente dal 1995 con tassi di crescita simili agli Stati Uniti. Basti guardare al PIL pro capite americano confrontato con quello europeo, se togliamo l’Italia. Già da questo lo scaricabarile del “è colpa di qualcuno o qualcosa” non funziona.

«Se ci fosse qualcosa che colpisce tutta l’Eurozona, non avremo questo grafico che riguarda solo noi», puntualizza Gianluca Codagnone. 

Per farsi una prima idea del costo sociale altissimo dell’assenza di liberalizzazioni si può guardare due servizi estremamente esemplificativi dei concetti di mercato regolamentato e liberalizzato: acqua e rifiuti da una parte, telefonia dall’altra. Gli italiani stanno pagando una bolletta, ogni mese, ben più bassa di quella che pagavano nel 1999: in compenso i volumi d’utilizzo della telefonia sono aumentati considerevolmente. E l’acqua e i rifiuti? A parità di volumi il costo è quintuplicato. 

«Se questo è colpa della Mekel, dell’Euro o del coronavirus lo lascio giudicare a voi», incalza Gianluca Codagnone. «Grandissima parte della stagnazione delle produttività italiana —dell’allocazione completamente separata dalla produttività, anche dell’occupazione, e tutta un’altra serie di distorsioni che hanno fermato il Paese — sono frutto della regolamentazione nazionale». 

Non tutti sono d’accordo nell’individuare in questo i mali dell’Italia. Molti economisti, anche noti e stimati, puntano il dito contro altri fattori: «Molti paper, come quello di Zingales, cercano altre cause. Come il mancato investimento in ICT. Ma queste sono sintomi, non le cause». Del resto, chi glielo fa fare all’imprenditore? «Gli imprenditori italiani non sono degli aspiranti suicidi, non sono nati con un rifiuto del computer. La verità è che nel nostro Paese più che investire in ICT, conta l’amico che ti fa su misura le regole del gioco». Sarebbero quindi ragioni di assetto istituzionale e di regulation a far sì che l’industria italiana abbia cercato, più di qualsiasi altra cosa, la protezione dalla competizione internazionale. 

Il rapporto tra rendite e performance dell’economia

E sugli effetti distorsivi della presenza del pubblico nell’economia, così come dei fantomatici lacci e laccioli delle regolamentazioni, è d’accordo anche Federico Cingano, economista della Banca d’Italia con un passato all’Ocse. 

Esiste una relazione tra la possibilità di trincerarsi in mercati protetti da parte delle aziende e la performance dell’economia in aggregato.

In Italia esistono numerose posizioni di rendita che sono fonte di inefficienza e distorsioni. Sono posizioni in cui si incagliano risorse (capitale e ingegno) che potrebbero essere impiegate altrove in modo molto più efficiente. «Si incagliano lì perché rendita è una parola che attira molto, fin dai tempi dei francesi», nota non senza ironia Cingano. Questo spiega gran parte del differenziale tra le performance con Francia, Germania e Spagna. 

Il nostro è un Paese ostaggio delle rendite di posizione create da barriere artificiali. Sono ovviamente prevalenti nei servizi e abbracciano ogni ambito: i limiti all’accesso alle professioni (dal notaio, all’avvocato); il limitato accesso alla rete per i servizi di network come ferrovie ed energia; i vincoli alle aperture di nuovi supermercati; l’impossibilità di determinare i prezzi all’interno di alcuni mercati, o di promuovere i propri servizi con la pubblicità. 

«Quando io impedisco ad una potenziale impresa concorrente di entrare nel mercato, le aziende che lo occupano hanno meno incentivi ad investire, ad innovare, producono beni di qualità inferiori e generano anche meno occupazione», continua Cingano. Si arriva fino alla distribuzione dei redditi, limitando la mobilità intergenerazionale: «in questo caso si parla delle professioni come quella degli avvocati e dei notai». 

Ma gli effetti delle regolamentazioni, se producono extra-profitti a monte, generano extra-costi a valle, con un effetto indiretto sulla manifattura.

Sono queste le distorsioni che tengono in ostaggio l’italia: il grafico della Banca di Francia e dell’OCSE parla chiaro: esiste un forte potenziale soffocato dalla presenza asfissiante dello Stato.  Se convergiamo trasporti, commercio, poste, telecomunicazioni e servizi professionali verso quelle che sono le best practice i guadagni in produttività sarebbero significativi. 

Il forte ruolo del pubblico nell’Economia è l’altro elefante nella cristalleria da tenere d’occhio. Ma è davvero così diverso che negli altri Paesi UE?

I profitti delle imprese con connessioni politiche (parliamo di semplice lobbismo, senza fare ipotesi più pruriginose) sono superiori del 7% in media, perché aumenta il fatturato nei settori esposti alla domanda pubblica. Il beneficio del privato finisce per avere un costo sociale in termini di fornitura dei servizi: «L’aumento dei profitti avviene nei settori che sono più dipendenti ed esposti alla domanda pubblica, come il farmaceutico», argomenta Federico Cingano. Ma le connessioni politiche spiazzano altre attività dell’impresa, come l’attività innovativa? «Le imprese all’aumentare del loro peso nel mercato tendono di più a stabilire connessioni politiche e a diminuire l’innovazione, producendo meno brevetti.» Ha delle ovvie conseguenze sulla produttività: «l’innovazione è il motore della produttività.» 

Ma le conclusioni di Cingano non portano comunque a quanto ci si potrebbe aspettare. «Eppure in Italia –conclude l’economista– c’è stata una forte spinta nel senso delle deregolamentazioni, in parte spinta dalle norme Europee. Inoltre dovremo vedere che il peso del pubblico dovrebbe pesare in Italia disproporzionatamente rispetto che negli altri Paesi. Eppure così non è. I settori regolati non sembrano offrire rendimenti poi così distanti da quelli non regolamentati come la manifattura. Il differenziale non è strepitoso.»

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