Per quanto assurdo, anche nell’Epifania, festa notoriamente legata al Natale e ai Magi nella tradizione cristiana, resistono numerosi elementi mutuati dalla cultura precristiana: quali sono le origini pagane della Befana?
Gli antichi greci utilizzavano la parola epifanìa per indicare la manifestazione della divinità e la sua azione nel mondo, ma nei secoli a venire il termine ha assunto più il significato di una rivelazione personale, proprio in riferimento ciò che rappresenta nel mondo cristiano. Questo perché all’accezione classica, già con San Giovanni Crisostomo, venne ad accostarsi una significazione più specifica, legata alla Natività di Cristo.
L’Epifania celebra la manifestazione della divinità di Cristo ai tre Magi e precede immediatamente il Battesimo di Gesù, commemorato la domenica successiva a conclusione di tutto il periodo natalizio dell’anno liturgico cattolico romano. Per quanto riguarda ciò che dal paganesimo questa festa ha mutuato, gli unici punti su cui bisogna interrogarsi sono tre oggetti, uno temporale, uno dottrinale e uno folkloristico, che vanno a costituire una parte cospicua di questa tradizione popolare: la data della ricorrenza, i Magi e la Befana.
Solito disclaimer: nella rubrica sulle Origini pagane proviamo a investigare meglio il viaggio e l’evoluzione delle festività nella storia, ma lungi da noi presumere di poter risolvere temi così complessi in articoli così brevi, che non potranno mai considerare ogni elemento storiografico compiutamente. Se ci sono storici all’ascolto, quindi, prendete quest’articolo come uno spunto e commentate per permetterci di migliorare il nostro lavoro!
Il 6 gennaio
Una delle date teorizzate dagli storici per quanto riguarda la nascita di Cristo è proprio il 6 gennaio, tesi che ha trovato diversi riscontri tra gli studiosi, anche se, fino a prova contraria, tale data resta legata indissolubilmente all’Epifania. Il giorno di questa ricorrenza, tuttavia, deriva da alcuni riti propiziatori pagani risalenti al X-VI secolo a.C. riguardanti i cicli stagionali relativi all’agricoltura e al raccolto dell’anno trascorso, che si accingeva a rinascere come un nuovo anno.
Tali riti si diffusero ben presto in tutta l’Italia grazie al mitraismo e ad altri culti legati all’inverno, come quello celtico. Ereditati poi dagli antichi romani e da questi inglobati nell’allora innovativo calendario romano, essi riempirono l’interregno temporale tra la fine dell’anno solare e il Sol Invictus. Dall’antica Roma al Medioevo si dava infatti molta importanza al periodo che intercorre tra il 25 dicembre e il 6 gennaio, un periodo di dodici notti nella cui dodicesima si festeggiava la morte e la rinascita della natura attraverso Madre Natura, e questo numero, il dodici, rappresenterebbe i dodici mesi del calendario romano nel suo passaggio da lunare a lunisolare.
Già all’epoca del teologo Epifanio di Salamina la ricorrenza dell’Epifania fu proposta alla data della dodicesima notte dopo il Natale, assorbendo così l’antica simbologia numerica pagana. Questo era per il calendario popolare un periodo molto delicato e critico, seguente la seminagione, pieno di speranze e di aspettative per il raccolto futuro, da cui dipendeva la sopravvivenza nel nuovo anno, perciò fu collettivamente caricato di vari significati.

La venuta dei Magi
Uno dei festeggiamenti del 6 gennaio consiste nell’adorazione dei Tre Magi, re provenienti dall’Oriente che, secondo il Vangelo di Matteo, ebbero un’illuminazione e si lasciarono guidare da una spettacolare cometa per onorare Gesù infante nella capanna di Betlemme con dei doni. Originariamente, la narrazione evangelica era povera nei loro confronti, ma la successiva tradizione cristiana arricchì le loro descrizioni: si capì che fossero tre per gli omaggi portati (oro, incenso e mirra) e i loro nomi erano Gaspare, Melchiorre e Baldassare. A prescindere dalla reale storicità di tale racconto, tuttora controversa e inevitabilmente dipendente dalla storicità di Gesù Cristo stesso, si tratta di tre saggi astronomi, riletti nel tempo da numerose correnti esoteriche e iniziatiche come saggi e maghi.
La tradizione parla sempre di Oriente, senza mai specificare quale regione. Ebbene, magi è letteralmente l’adattamento dal greco màgoi, plurale di màgos, per l’appunto mago, ma a quanto pare deriva addirittura dal Persiano antico magūsh. La Persia sarebbe allora un ottimo indizio per questo imprecisato “Oriente”: e infatti, quale religione, di enorme rilevanza storica, sorse in tale zona pochi secoli prima e alla quale il Cristianesimo e il Manicheismo si ispirarono massicciamente? Esatto, lo Zoroastrismo, ovvero il culto monoteistico fondato sugli insegnamenti del profeta Zarathustra (o Zoroastro appunto).
Lo Zoroastrismo è una religione mitologicamente vicina, per molti versi, al Cristianesimo: entrambi condividono una visione dicotomica del mondo che contrappone binariamente bene e male e sono costellati da dottrine e dettagli mitici comuni, come la stessa rivelazione divina. È quasi storicamente accertato che il Cristianesimo abbia attinto a piene mani al complesso sapienziale zoroastriano, essendo accessibile da Israele anche solo a livello culturale.
E in questo culto la parola magi, declinata al singolare italiano in mago (e non “magio”, come molti erroneamente credono), assume tutto un altro significato: essi erano infatti, nell’Impero persiano, i sacerdoti dello Zoroastrismo, dunque pagani. Seguendo la stella e raggiungendo il neonato re di Israele, lo avrebbero anche riconosciuto come l’unico Dio venerato dalla rivelazione zoroastriana, Ahura Mazda. Quindi i Magi sarebbero arrivati presso la mangiatoia di Betlemme con piena coscienza dell’importanza religiosa e cosmica della nascita del Cristo.

L’appellativo magi, dunque, non si riferisce all’affinità con le arti magiche, bensì alla natura di uomini saggi, filosofi, scienziati e studiosi del cielo: mago è infatti un arcaico sinonimo di sapiente, anche se la parola magos, che in “Matteo” è tradotta in saggio, mentre negli “Atti degli Apostoli” viene resa come stregone. Il termine magi è inoltre una traduzione artificiosa atta ad evitare il termine maghi, che all’epoca si riferiva ai ciarlatani e agli imbroglioni.
«I tre re pagani vennero chiamati Magi non perché fossero versati nelle arti magiche, ma per la loro grande competenza nella disciplina dell’astrologia. Erano detti magi dai Persiani coloro che gli Ebrei chiamavano scribi, i Greci filosofi e i latini savi» scriveva Ludolfo di Sassonia in “Vita Christi”, ricordandoci come almeno fino al XIV secolo la distinzione tra astronomia e astrologia non fosse ancora riconosciuta e le due discipline cadessero entrambe sotto la medesima denominazione.
Nonostante da sempre, nell’esoterismo, il mago sia considerato il portatore della sapienza o di certe conoscenze segrete e arcane, non si può ritenere questa un’origine pagana della venuta dei Magi, ma piuttosto una derivazione pagana dei Magi stessi. Il fatto che dei pagani si siano inchinati alla Sacra Famiglia pare alludere, ironicamente, alla secolare sottomissione delle religioni pagane a quella cristiana, una sorta di riverente riconoscimento, di passaggio di testimone, di resa delle vecchie credenze a quelle allora emergenti. Ciò di fatto non rende l’Epifania una festa di origini pagane, poiché essa mantiene ben pochi connotati gentili.

La Befana
Secondo una leggenda del XII secolo, i Re Magi in viaggio per Betlemme si persero e chiesero informazioni a un’anziana donna, invitandola ad accompagnarli a far visita al neonato “re dei Giudei”, senza che la vecchina cedesse alle insistenze. Pentita di aver rifiutato, la vecchia signora preparò un cesto di dolci e andò a cercare i Magi, bussando ad ogni porta che incontrava, senza trovarli, e distribuendo dolciumi ai bambini nella speranza che tra loro ci fosse proprio Gesù, per farsi perdonare.
Secoli dopo, quell’anziana signora si sarebbe trasformata in una vecchina rattrappita, con il naso adunco, i capelli bianchi e scarmigliati e gli abiti scuri e consunti che, nella notte del 6 gennaio, visita le case cavalcando una scopa volante e consegnando ai bambini bravi dolci e regali in delle calze, e ai cattivi del carbone. Questa figura è oggi nota come Befana, nome che deriva da una storpiatura dialettale di Epifania, che fu perlopiù il nome colto e letterario della festa. Nel corso del tempo la parola si deformò nei vari dialetti, così i toscani la chiamarono Bifanìa, i romani Pasqua Befanìa, i bolognesi Epifagna, e passando per Befanìa si arrivò al nome definitivo della figura folkloristica che ormai incarna tale ricorrenza.
Le sue radici affondano nell’usanza di celebrare il passaggio al nuovo anno propiziando la Madre Terra che appariva nella forma di Dea Anziana. Le sembianze della Befana, in effetti, sembrerebbero uno specchio della natura a fine anno, fredda e rinsecchita. Proprio come la Terra in inverno appare dura e spaventosa ma poi lascia spazio alla coloratissima primavera, anche la Befana, aldilà della veste di megera, nasconde generosità, speranza e doni.
Nell’antica Roma, in questo periodo, oltre al festeggiamento di Giano, si celebrava anche la dea Strenia, foriera di fortuna e prosperità per l’anno entrante: in suo onore venivano scambiati auguri e doni in forma di statuette d’argilla, di bronzo e talvolta d’oro e d’argento, chiamate Sigilla (dal latino sigillum). I piccini attendevano con ansia le Sigillaria, la festa a lei dedicata, per ricevere in regalo bamboline e animaletti. Secondo alcune fonti, sarebbe stato Tito Tazio, re dei Sabini (e forse anche di Roma) a iniziare l’usanza di scambiarsi i regali, chiedendo ai suoi sudditi, ogni capodanno, di donare un ramoscello d’alloro o di ulivo colto nel bosco sacro della dea Strenia. Da questo gesto deriva il nome “strenna” e questa tradizione si radicò così profondamente che persino la Chiesa dovette tollerarla e integrarla nel suo canone.

In epoca medievale, nelle dodici notti tra Natale ed Epifania, il popolo contadino credeva che la dea lunare Diana, legata alla fecondità, alla cacciagione e alla vegetazione, volasse sui campi coltivati insieme ad altre figure femminili per propiziare la fertilità dei terreni. Ma, nonostante la cristianizzazione, Diana continuò a essere oggetto di venerazione da parte di un culto pagano e magico che, col tempo, prese il nome di Vecchia Religione, e praticava una forma di magia popolare detta stregherìa, la stregoneria pagana d’Italia.
Tale religione era largamente diffusa in tutto il Mezzogiorno, motivo per cui tuttora è l’Italia meridionale a ospitare il maggior numero di fattucchiere, cartomanti, chiromanti, indovine e praticanti di magia popolare. tale culto fu perseguito e represso con forza dalla caccia inquisitoria: la Chiesa, infatti, condannò Diana ed altre deità assolutamente pacifiche e innocue sol perché divinità pagane, e per rincarare la dose e motivare la scelta anche alla gente umile le dichiarò figlie di Satana.
Secondo alcuni non si sarebbe trattato di Diana, bensì di una divinità minore chiamata Sàtia (dea della sazietà) o addirittura di Abùndia (dea dell’abbondanza), ma quel che importa è che la dea in questione mutò nell’aspetto in una figura infernale che, con le sue cavalcate notturne a capo delle anime di molte donne, stimolava la fantasia superstiziosa dei popoli contadini. In questi secoli nacquero infatti i primi racconti su streghe vecchie e brutte con le scope volanti che celebravano riti demoniaci, ma anche la tradizione diffusa in tutta l’Europa che il periodo a cavallo tra vecchio e nuovo anno fosse propizio per i sabba.
Non a caso la ramazza è un elemento tipicamente stregonesco. Tuttavia, la scopa di saggina, che metaforicamente spazza via il vecchio, viene cavalcata dalla Befana al contrario, con le ramaglie davanti a sé. Di contro, proprio come una brava strega, la Befana è saggia, poiché sa valutare chi è stato bravo e chi no, ed è magica poiché può volare, peraltro a cavallo di un simbolo stregonesco come la scopa. Persino il carbone è un antico simbolo rituale, in particolare dei falò, e in ricordo del passaggio dal vecchio al nuovo viene inserito nelle calze. A differenza della classica strega, però, una Befana vera non ha il cappello a punta, come insiste a mostrare l’immaginario collettivo, ma usa solo un fazzolettone di stoffa pesante (la pezzòla) o uno sciarpone di lana annodato in modo vistoso sotto il mento.
Analogo germanico di tale figura stregonesca è Perchta o Berchta, che nella notte del 6 gennaio controlla il livello di ordine e pulizia delle case, donando qualcosa alle donne di casa che sono state meritevoli. Se a sud della Germania è Frau Berchta, a nord diventa Frau Holle.

Nella Befana, tirando le somme, si fondono tutte le componenti delle antiche dee della natura: la generosità della dea Strenia e lo spirito delle feste dell’antica Roma, la fertilità della mite Diana, il truce aspetto esteriore avuto in eredità da certe streghe da tregenda e una punta di crudeltà ereditata da Frau Berchta. La persistenza di tali tradizioni, anche se epurate dalle loro connotazioni originarie, dimostra quanto il tempo non possa estirpare il ricordo dell’antico in nome del nuovo. O, perlomeno, non del tutto.