Se pensate che sia difficile concentrare insieme la quint’essenza del pessimo giornalismo, la sublimazione della cattiva politica e l’assoluta ignoranza sul funzionamento della giustizia e dello Stato di Diritto, probabilmente vi è sfuggita un’intervista a Carles Puigdemont pubblicata dal quotidiano la Repubblica nell’edizione cartacea del 6 marzo 2021.
Certamente è un diritto di ogni cittadino avere delle idee e se questo cittadino esercita la professione di giornalista, deve poterle esprimere liberamente, plasmarle nel proprio lavoro, sostenerle sulle colonne da lui vergate. Questa libertà, però, non può spingersi fino alla distorsione della realtà, o all’accettazione pedissequa delle menzogne di chi si sta intervistando.
L’autore dell’intervista a Puigdemont apparsa su Repubblica, fin dalla prima riga, lascia manifestamente intendere che per lui, l’obbligo inderogabile (per) il rispetto della verità sostanziale dei fatti, sancito dal primo articolo del Testo Unico dei Doveri del Giornalista, è una vacua e sterile dichiarazione di principio, di cui il giornalista progressista e filo separatista può infischiarsi bellamente.
Il pezzo si apre infatti con una affermazione falsa, una bugia, introdotta in incipit, tendenziosamente, per orientare fin da subito l’opinione del lettore: Da oltre tre anni Carles Puigdemont vive in esilio a Bruxelles. È falso. La condizione di esiliato appartiene a chi è soggetto a una pena limitativa della libertà personale, che consiste nell’allontanamento del cittadino dalla patria. Non è il caso di Puigdemont, questi è piuttosto un latitante (come del resto il giornalismo in Repubblica, recentemente), un soggetto che si è deliberatamente sottratto a un processo regolare e munito delle garanzie essenziali per qualsiasi imputato in uno stato di diritto, fuggendo nascosto nel portabagagli di un’auto e così inguaiando i propri sodali e compagni di lotta politica.
L’intervista prosegue in un crescendo di frottole e mezze verità, senza mai un dubbio sollevato dall’intervistatore o magari un minimo di contesto volto a spiegare al lettore che il fuggitivo Puigdemont non è quel sant’uomo che egli pretenderebbe.
Si va dalle migliaia di denunciati, arresti e condanne, che ha visto solo il giornalista di Repubblica (le denunce sono state meno di duecento, gli arresti qualche decina e le condanne, al momento, dodici, tra l’altro, nulla viene detto sulle assoluzioni, come ad esempio quella del comandante della polizia regionale, Josep Luís Trapero, che dimostrano l’assoluta correttezza dei procedimenti giudiziali a carico dei separatisti catalani animatori ed esecutori del cosiddetto referendum d’indipendenza e il garantismo delle corti chiamate a giudicarli), al fantomatico nonno di Puigdemont, in esilio in Francia dopo la caduta di Barcellona durante la Guerra Civile (un fatto mai riscontrato oltre le affermazioni dell’ex presidente della regione Catalana, mentre di suo nonno Francisco Puigdemont si sa per certo che valicò i Pirenei e poi si rifugiò in Andalusia, riparando presso la fazione franchista, per sottrarsi ai repubblicani che perseguitavano i cattolici come lui e che l’avrebbero probabilmente arruolato nelle truppe del fronte popolare, per combattere nella battaglia dell’Ebro).
L’intervista si chiude con un’altra serie di considerazioni mendaci e fraudolente non contrastate dal giornalista: Puigdemont si paragona al re emerito, Juan Carlos I, fuggito ad Abu Dhabi, mentre il leader separatista sarebbe arrivato in Belgio per continuare la sua battaglia politica e a disposizione della giustizia europea. Una doppia panzana: Juan Carlos non è imputato di nessun reato, al momento si trova ad Abu Dhabi per ragioni fiscali e non per fuggire dall’azione della giustizia, un comportamento non certo edificante per un ex capo di stato, ma nulla di paragonabile alla fuga rocambolesca di Puigdemont, che in Belgio è andato, e non altrove, per due ragioni che non hanno nulla a che vedere con la sua battaglia politica: in primo luogo perché il Belgio è da molti anni un rifugio per criminali di varia natura, compresi molti terroristi spagnoli della banda armata ETA e poi perché in quel paese gode di precise coperture politiche, da parte dei movimenti separatisti fiamminghi. Prosegue poi con un’ultima affermazione faziosa e incorretta: Noi catalani siamo per tradizione un movimento democratico, repubblicano e antifascista… No, i catalani non sono un movimento e non sono un blocco unico, monolitico e coeso attorno al progetto separatista. La società catalana è profondamente divisa e variegata, esistono le opinioni più disparate e una larga parte della popolazione è leale alla Spagna e alla Costituzione, non ultimi gli elettori del Partito Socialista Catalano, partito più votato alle ultime elezioni, celebratesi il 14 febbraio.
La gravità dell’intervista è esaltata dalla circostanza che lunedì otto marzo il Parlamento Europeo voterà la revoca dell’immunità di Puigdemont, lo scudo che permette al contumace di sottrarsi alla giustizia spagnola che vorrebbe processarlo, non già per impedire a due milioni di catalani di essere rappresentati, come egli sostiene, bensì per fatti gravissimi, tra i quali aver perseguito, nell’estate e autunno del 2017, il rovesciamento della legalità vigente in Spagna e Catalogna, approvando le cosiddette leggi di sconnessione, in spregio assoluto delle regole democratiche vigenti (Costituzione Spagnola e Statuto di Autonomia della Comunità Autonoma di Catalogna).
In questo contesto, l’opinione pubblica italiana avrebbe diritto di formarsi un’idea sulla base di fatti documentati e di opinioni depurate da menzogne e non sembra certo corretto far passare il racconto di uno dei diretti interessati come la sola verità possibile, senza nessun tipo di riscontro e anzi, avvallando le opinioni dell’intervistato con affermazioni dell’intervistatore basate sul nulla: sembra che la Spagna continui a perseguire un approccio “giudiziario” e non “politico” per affrontare la questione catalana. A chi segue le vicende catalane da vicino sembra piuttosto vero il contrario: esiste un tavolo di negoziazione tra il governo centrale e l’esecutivo regionale, in condizioni di parità, contrariamente a quanto sarebbe logico in un paese organizzato in forma regionale/federale, ed esistono opinioni, nella maggioranza progressista che governa la Spagna, palesemente favorevoli o amichevoli nei confronti dei separatisti catalani, alcuni dei quali (Esquerra Republicana de Catalunya), peraltro, sono alleati del governo Sanchez nel parlamento nazionale. Tuttavia, come è logico in uno stato di diritto, chi viola una norma risponde della propria condotta di fronte ai tribunali, anche un politico molto votato. È un principio basilare di qualsiasi paese democratico e, ironicamente e giustamente, è stata la linea editoriale di Repubblica per vent’anni, in merito ai processi di Berlusconi.
Si può avere qualsiasi opinione sul sentimento indipendentista di molti catalani, si può credere e sostenere apertamente le ragioni di una frattura dell’integrità territoriale del Regno di Spagna, lo si può fare in Italia e in Spagna, dove legittimamente sono centinaia di migliaia i cittadini che si esprimono in tal senso, senza che nessuna autorità si permetta di interferire con la loro libertà di opinione. Non si può però assolvere a mezzo stampa un presunto criminale dalle sue colpe. Non si può nemmeno sorvolare sulle connessioni di Puigdemont con i movimenti eversivi e violenti che infiammano periodicamente le strade di Barcellona (ne parlammo anche qui).
A chi giova pubblicare un’intervista celebrativa di un personaggio per lo meno ambiguo e problematico come Puigdemont senza fargli delle vere domande, senza un minimo di facts checking? Sicuramente non alla comprensione dei fatti e alla qualità dell’informazione.