Mentre aumentano i sussurri su una imminente crisi di governo, si avvicina inesorabile la necessità di avviare la discussione sulla legge di bilancio per il 2020. L’agitazione su questo fronte si è palesata con l’incontro organizzato da Salvini e dalla Lega al Viminale con le parti sociali (e c’è chi si chiede se abbiano pagato l’affitto della sala…). Nel giro di poche ore l’altro Vice-Presidente del Consiglio ha scritto al Sole 24 Ore (forse aveva il cellulare con la batteria scarica) per sollecitare il Presidente del Consiglio ad aprire al più presto un confronto con le parti sociali. Il giorno dopo il Presidente Conte ha rivelato a La Repubblica la sua intenzione di convocare per la prossima settimana le parti sociali “con la partecipazione di tutti i Ministri”, sgridando Salvini per la sua iniziativa (e terrorizzando i vertici delle parti sociali che temono di dover rivedere i loro piani vacanze).
Al di là della irritualità con cui si sta avviando questo dibattito sulla prossima legge di bilancio, è comunque positivo che non si sia attesa la fine di agosto. Sarebbe però grave se questa irritualità fosse stata pensata ad arte per creare un ulteriore solco tra i due partiti di maggioranza e far saltare il governo. Il 20 luglio è l’ultima data che consentirebbe di tenere elezioni anticipate entro la fine di settembre e forse evitare che il 2020 inizi con l’esercizio provvisorio. Per di più il calendario della formazione di un nuovo governo si intreccia con le scadenze da rispettare con la Commissione Europea (CE) per consentire la validazione della legge di bilancio. Un puzzle di difficile soluzione a meno di lasciare che il governo attuale, pur se dimissionario, prepari la Nota di Aggiornamento del DEF entro il 27 settembre, poi presenti alla CE prima e alle Camere poi i saldi di bilancio e le relative misure entro il 15-20 ottobre e discuta (senza impegno visto che è un governo dimissionario) le eventuali modifiche richieste dalla CE. La Commissione non potrà che accettare uno stato di fatto (mancanza di un governo) – ma i mercati (questi maledetti) come reagiranno? E le agenzie di rating (stramaledette) ci puniranno?
Il dramma vero è che la situazione delle finanze pubbliche italiane è molto grave, al limite del collasso, a prescindere da nuove elezioni o da chi sarà al governo a preparare le misure e a presentarle alla CE. I media, a parte qualche rara eccezione, fanno finta di dimenticare i numeri che il paese deve trovare il modo di aggiustare e arrivano anche ad ospitare personaggi che straparlano di sovranità monetaria, di debito che non conta nulla e che può anche arrivare al 200% del Pil o simili varie amenità. In un paese che pensa per il breve termine alle prossime vacanze e per il lungo termine alla pensione e al divano su cui attendere un reddito non guadagnato, l’impatto con la realtà potrebbe essere molto duro.
La realtà è nota: il debito pubblico veleggia intorno al 132% del Pil (tra i più alti al mondo) e quindi il rapporto deficit/Pil va mantenuto entro un percorso di progressiva riduzione da quel 2,04% per il 2019 simbolo della creatività italica. Il governo è riuscito a evitare per quest’anno la procedura di infrazione per debito eccessivo presentando maggiori entrate o minori spese per un totale di 7,6 miliardi, di cui circa metà una tantum. Secondo l’Ufficio Parlamentare di Bilancio l’impatto sui conti del 2019 sarà di portare il rapporto deficit/Pil intorno al 2%, nell’ipotesi che il quadro macroeconomico non deteriori ulteriormente e i tassi di interesse si mantengano sui livelli attuali.
Ma per il 2020 far quadrare i conti sarà impresa molto più ardua, almeno se si intende rispettare i numeri riportati nell’ultimo Def relativamente a deficit e debito. La legge di Bilancio 2019 ha lasciato in eredità a quella 2020 una clausola di salvaguardia di aumento dell’Iva di oltre 23 miliardi e l’impegno di ridurre il debito anche tramite privatizzazioni nel 2019 per 18 miliardi (lasciate nel dimenticatoio e quindi da effettuare nel 2020). I due partiti di maggioranza hanno affermato ripetutamente di non voler aumentare l’Iva, quindi per il 2020 occorrerà trovare risorse per la copertura di quei 23 miliardi e rotti. A questi andranno sommati ulteriori circa 10 miliardi tra
a) rifinanziamento di spese indifferibili,
b) impatto della minore crescita del Pil nominale rispetto a quel 2,9% indicato nel Def (che, oltre a un ottimistico 0,8% di crescita reale 2020, considerava un impatto forte sull’inflazione dovuto all’aumento dell’IVA),
c) compensazione delle una-tantum utilizzate nel 2019 per evitare la procedura di infrazione. In sintesi, una montagna realisticamente oscillante tra 30 e 35 miliardi, sempre nell’ipotesi che non vengano grosse sorprese negative dal quadro macro e dai tassi di interesse.
A questi 32-35 miliardi andrebbero poi aggiunti i costi della cosiddetta flat-tax. Nell’ancora non ben definita formulazione presentata al Viminale dalla Lega alle parti sociali (secondo fonti di stampa, aliquota al 15% fino a 55mila euro di reddito familiare ed eliminazione di tax-expenditures) il costo oscillerebbe tra i 12-13 miliardi “ottimisticamente” indicate dalla Lega e i circa 20-25 miliardi indicati dalla CIDA (una delle parti sociali presenti all’incontro). Realisticamente la montagna si eleverebbe a oltre 50miliardi. Probabilmente oltre 55.
Tria non sembra scomporsi di fronte a queste cifre. Lui (da capo dell’opposizione interna) ha riportato nel Def che l’aumento Iva ci sarà e ha poi dichiarato che attende indicazioni sulle coperture in caso non si volesse far scattare la clausola di salvaguardia. Probabile che anche di fronte alla flat-tax avrebbe una reazione simile. Tra le coperture si possono ipotizzare l’eliminazione dei cosiddetti 80 euro di Renzi (circa 10miliardi di minori costi), qualche risparmio su Quota100 e Reddito di Cittadinanza rispetto a quanto preventivato (per complessivi circa 2,5 miliardi secondo l’UPB), una spending review per 4-5miliardi (anche questa ipotesi ottimistica). Sommando le varie poste, le coperture si fermano complessivamente a circa 17-18 miliardi.
I nostri vice-Presidenti del Consiglio avevano promesso che, dopo aver vinto le elezioni europee, avrebbero portato a casa un atteggiamento più morbido da parte della CE che avrebbe quindi accettato manovre più espansive. Un primo incontro con la realtà ha chiarito come questa strada sia difficilmente percorribile e al massimo (ma non sono molti a crederci) si potrà ottenere che la CE accetti un deficit/Pil intorno al 2,5%, ossia una flessibilità di circa 7-8 miliardi (ipotesi molto ottimistica, dato che implicherebbe per l’Italia un trattamento privilegiato rispetto ad altri paesi). In questo caso dunque, aggiungendo alle varie poste la flessibilità della CE, le coperture arriverebbero a circa 25 miliardi.
Per arrivare a scalare la montagna dei 55 mililardi necessari per rispettare il Def 2019, ne mancherebbero ancora 30 (oltre ad aver eliminato gli 80 euro di Renzi e ottenuto la flessibilità CE). L’ipotesi di eventuali condoni non cambierebbe di molto la sostanza del problema, dato che la CE e i (maledetti) mercati non vedono di buon occhio misure una-tantum.
Il bivio è dunque evidente. Per far quadrare i conti nella Legge di Bilancio 2020 (rispettando il quadro complessivo del Def 2019 e incassando la flessibilità CE) ci sono poche alternative:
a) aumentare l’IVA e allo stesso tempo rinviare o annacquare pesantemente la flat-tax,
b) tagliare drasticamente le spese,
c) incrociare le dita che non intervengano shock esterni.
L’ipotesi prevalente è che la creatività italica adotterà un mix delle prime due ipotesi. Peccato che un qualsiasi mix tra queste ipotesi implicherebbe un aumento significativo della pressione fiscale e allo stesso tempo scontenterebbe molti elettori – sarebbe un dietrofront simile a quello di Tsipras, difficile da accettare per i partiti oggi al governo. Circola anche un’altra ipotesi: sforare pesantemente il rapporto deficit/Pil e portarlo intorno al 4% (dimenticando il Def di pochi mesi fa…). Peccato che questa ipotesi si porterebbe dietro una pesante reazione dei (maledetti) mercati e una revisione al ribasso del rating delle (stramaledette) agenzie. Ossia, fuga degli investitori dal debito italiano e, in caso di rating a junk-bond, impossibilità per le banche di usare i titoli di Stato italiani come collaterale per la BCE – con nuovo aumento significativo dello spread, impatto negativo su fiducia di imprese e consumatori, riduzione del credito e della crescita.