Il mondo del lavoro sta cambiando e la cosiddetta polarizzazione del mercato del lavoro sembrerebbe intaccare il benessere della classe media.
Stando al working paper pubblicato dall’OECD , possiamo notare che i cambiamenti verso livelli bassi di reddito delle classi tradizionalmente chiamate medie, sfociano in frustrazione sociale. Tale frustrazione viene posta al centro del dibattito pubblico da ogni politico di turno che ha, come scopo, quello di ottenere consenso.
Analizzando i dati, tra il 1990 e il 2010, la quota di lavoro per le professioni high-skill è aumentata, in media per tutti i paesi OECD, del 10.6%. L’aumento della quota occupazionale per i lavoratori high-skills è stata compensata da una diminuzione sostanziale delle middle-skill, per un valore pari al -7.8%, e un po’ meno significativamente per le softskill, pari al -2.8%. Chi tradizionalmente faceva parte della cosiddetta classe media, ma non ha elevato le proprie capacità, probabilmente risiede nei livelli bassi di reddito. Chi invece ha studiato, passando da soft o middle-skill ad high-skill, è riuscito ad ottenere maggiori vantaggi, pur restando, in alcuni casi, nella classe media con livelli medi di reddito. Sembrerebbe, quindi, condizione necessaria ma non sufficiente una preparazione elevata affinché il reddito cresca significativamente; mentre sembra evidente il rischio, per chi ha una preparazione media, di cadere nella parte bassa del reddito.
Questa erosione nel benessere della classe media, come effetto di una bassa scolarizzazione, o meglio, di una scarsa propensione al perfezionamento, porta l’italiano medio a riflettere (e quindi votare) secondo sentimenti poco razionali. Quindi, la stabilità dell’aggregato sociale, data dal benessere statico dell’italiano medio, viene intaccata.
Se poi pensiamo ai politici italiani che cavalcano l’onda in nome di un consenso divino, notiamo come la situazione precipiti sempre più. La solita retorica del “si sta peggio con l’euro”, “la moneta sovrana farà stare bene l’italiano medio e non i grandi poteri”, “Bruxelles non ci permette di poter attuare politiche verso questa o quella classe sociale”, deviano il dibattito pubblico verso sentieri poco lungimiranti.
I politici dovrebbero spiegare perché, secondo i dati OECD, l’Italia investe in istruzione il 4% del PIL, sotto di quasi un punto percentuale rispetto alla media della UE (4,9%) e ancor più basso se pensiamo agli investimenti attuati da Islanda (7,5%), Danimarca (7%), Svezia (6,5%), Belgio (6,4%), Finlandia (6,2%), Estonia (6,1%) e Portogallo (6%).
Dovrebbero spiegare perché gli incentivi in R&S siano ridicoli, e perché vengono continuamente tagliati i fondi alle Università…
I politici non dovrebbero invogliare la popolazione a crescere professionalmente e culturalmente piuttosto che millantare false politiche profetiche?
Non dovrebbero parlare di produttività del lavoro che come effetto avrà l’aumento dei salari, piuttosto che parlare delle gabbie salariali o dei minimi salariali? Ovviamente sì, ma si preferisce mantenere bassa la cultura e alto il malumore. Sennò come si spiegherebbe l’elezione di gente che non è riuscita neanche a completare l’Università?
Investimenti in capitale umano possono generare menti in grado di sapere gestire, nel migliore dei modi, la cosa pubblica. Ma a qualcuno, evidentemente, conviene non generarli, per ovvi motivi.
Dunque, se non vogliamo che “tutto cambi perché nulla cambi” dobbiamo, noi tutti, cominciare a diffondere queste “alternative”, con la speranza che “tutto cambia perché cambiano le idee”.