Il concetto di identità di genere non può che essere un sottoinsieme della più generica concezione di identità. “Di genere” è appunto una delle specificazioni, un po’ ontologica e un po’ funzionale. Anni di mitologia identitaria hanno cresciuto almeno un’intera generazione, la mia, convinta di poter essere ciò che vuole. Una banale cristallizzazione destinata a sciogliersi come neve al sole -che il contesto sia lavorativo, familiare o affettivo- se esposta dinanzi ad un semplice quanto universalmente condiviso assioma: l’identità ce la danno gli altri.
Non posso che cominciare scusandomi se questo articolo susciterà disagio, insofferenza e finanche livore in qualcuno. C’è da sperare non venga troppo condiviso, affrontando un argomento che ormai è un tabù. Me ne scuso anticipatamente precisando che non è l’offesa il suo intento, restando convinto allo stesso tempo che il risentimento di qualcuno in questo universo sia la diretta conseguenza dell’aver scritto davvero qualcosa.
Giudizio
La funzione di giudizio è una delle poche cose che distingue l’uomo dagli animali, già nelle più antiche forme di scrittura elaborata si trovano riferimenti a questo. Prenderò in esame, da non credente, un antico testo religioso proprio perché lo ritengo un’elaborazione prettamente umana: nella Genesi troviamo scritto che “Dio, avendo formato dalla terra tutti gli animali dei campi e tutti gli uccelli del cielo, li condusse all’uomo per vedere come li avrebbe chiamati, e perché ogni essere vivente portasse il nome che l’uomo gli avrebbe dato”. Era quindi già noto che l’uomo fosse istintivamente portato ad attribuire un significato alle cose, a definire la natura attorno a sé.
Questa caratteristica apparentemente linguistica è in realtà alla base dei processi neurologici umani. Siamo soliti pensare di poter formulare un concetto per poi essere liberi di esprimerlo nella lingua che più conosciamo, in realtà ciò che avviene è quasi il contrario: possiamo pensare solo tramite le parole che conosciamo. Non è un caso che la filosofia sia prevalentemente greca o tedesca, due lingue con un vocabolario vastissimo. Nel nostro cervello i concetti si formano simbolicamente, per imitazione, facendo nostro il modo in cui gli altri hanno definito quei concetti.
Per quanto possa apparire inopportuno ognuno di noi, entro certi limiti, impara a giudicare sempre qualsiasi cosa, a lavorare per categorie, meglio se in silenzio. È un meccanismo evolutivo che serve a distinguere i pericoli dalle opportunità.
Identità
Sono gli altri che giudicando ci attribuiscono un’identità. Questa è profondamente legata alla nostra prevedibilità. Dire che conosco una persona significa affermare che conosco entro certi limiti il modo in cui agirà. Tant’è che quando qualcuno tradisce la nostra fiducia la frase “non ti riconosco più” rende bene l’idea.
Definire un’identità serve a sapere di poter lasciare il portafoglio con la carta di credito al nostro migliore amico, mentre non saremmo mai disposti a lasciarlo al primo che passa. È una questione di giudizio, basata sulla conoscenza e sulla pronosticabilità, lavora per categorie e si fonda sul concetto di fiducia. Riguarda qualsiasi relazione, non solo quelle quotidiane. Un’identità bancaria ad esempio è quella che consente di definire la nostra affidabilità ed in ultima analisi di farci ottenere un finanziamento, cosa ben più difficile per uno sconosciuto. L’identità serve a mitigare il rischio.
Tuttavia, l’amico a cui abbiamo lasciato il portafoglio potrebbe essere assolutamente onesto con noi e comportarsi in maniera totalmente diversa sul lavoro, dove invoca invece intere settimane di malattia senza alcun motivo. Ecco allora definirsi un concetto che pare inafferrabile per noi millennials (e anche per la Z gen): l’identità è un qualcosa di dinamico, mutevole, assume un diverso valore a seconda dei contesti. È strettamente dipendente dalla percezione -condivisa- che le soggettività operanti in un determinato ambiente hanno di noi.
Noi siamo quella percezione condivisa. L’ambiente quindi si relazionerà con noi secondo quella percezione e le nostre azioni saranno dirette reazioni al modo in cui l’ambiente si pone con noi. Se saremo ben considerati la nostra identità ne risulterà accresciuta, viceversa intaccata, sminuita e persino demolita.
Cambiare la percezione che gli altri hanno di noi significa voler cambiare la nostra identità: attraverso il delinearsi delle categorie apprese, dei modelli che abbiamo in mente, fissiamo chi siamo e chi vorremmo essere. Le nostre azioni saranno in seguito volte a colmare il gap. Se ad esempio volessimo ottenere un aumento di stipendio saremo propensi ad assumere l’identità del lavoratore perseverante ed efficiente e a ridefinire le nostre priorità quotidiane. Tuttavia la definizione di cosa sia un buon lavoratore è un concetto simbolico, culturalmente connotato in una determinata epoca storica. L’identità del buon lavoratore è qualcosa di già fissato a prescindere dalla nostra volontà, a noi non resta che muoverci verso un modello predefinito.
Identità di genere
Arriviamo quindi al concetto di genere: una caratteristica umana definita entro certi limiti, come tutte le cose (compreso il volersi attribuire -complicando di non poco la propria esistenza- un genere non binario). Non è importante che questa caratteristica sia definita clinicamente o giuridicamente, ciò che conta è quanto lo sia culturalmente. Di norma ad un genere corrisponde il relativo sesso.
Potremmo stare a domandarci se di fronte ad un campo biologicamente definibile sia giusto volersi sbarazzare di una definizione deterministica in favore di una teleologica, ma ho imparato a superare questi discorsi anni fa: giusto e sbagliato sono accezioni assolutamente prive di significato se trasposte ad di fuori di un’epoca, per cui non intendo indugiarvi oltre. Di morale devono discutere i filosofi.
Ciò che conta è che vi è un’universale percezione di cosa sia un uomo e cosa sia una donna, a prescindere dalla biologia o dalla legge. Non binario è per sottrazione l’unico modo in cui possiamo definire un individuo che intenda rigettare queste due categorie mutualmente esclusive, rifiutando l’identificazione che deriva dall’accetare una di esse.
Ma la realtà è percezione condivisa, frutto di un modello irrazionale che apprendiamo tramandato di generazione in generazione. Sottrarsi a questa percezione non è possibile, per quanto ci piaccia ubriacarci dell‘idea secondo cui la nostra identità sia qualcosa che noi e soltanto noi abbiamo il diritto di definire. Romantico, ma a dir poco surreale. Questo deriva in ultima analisi dall’errata concezione che esista una realtà meccanicisticamente definibile come vera, semplicemente da scoprire meglio qualora nascosta. Il concetto stesso di vero è però soltanto un’utile semplificazione.
I modelli irrazionali che definiscono la realtà sono inconsciamente insiti in tutti noi, sia nella rappresentazione di uomini, donne, non binari, sia nella volontà, cis-gender e trans-gender. Quando leggemmo ad esempio che Ellen Page si sentiva diversa da ciò che era, che non si sentiva una donna, scoperchiammo un calderone di modelli estremamente complessi. Anzitutto occorre definire cosa sia la percezione di sé e successivamente la percezione condivisa di cosa sia una donna, al fine di evidenziare un disallineamento esistenziale tra la prima categoria e la seconda.
La fu Ellen Page, come noi, ha dovuto definire questi concetti per maturare la propria, assolutamente legittima, volontà di transizione. Ma come in che modo?
Cos’era una donna per Ellen Page? Cos’era una uomo? Beh, nient’altro che ciò che la società aveva definito per lei prima di lei. Ellen apprese questi modelli attraverso un simbolismo di fondo, ereditandoli per intuizione dall’ambiente in cui era cresciuta. Non potrebbe essere altrimenti. Se fosse stata in grado di definire in completa autonomia questi concetti, a prescindere dal pre-giudizio della società -cosa impossibile per chiunque in qualsiasi ambito-, non avrebbe nemmeno potuto percepire il disallineamento che la spinse verso la transizione ad Elliot Page.
Quindi cosa significa percepire di essere diversa? Cosa significa non sentirsi una donna? In buona sostanza significa non riconoscersi nell’attuale accezione culturale del concetto di femminilità, quale che sia quello dato in un determinato ambiente e in un determinato tempo. E non riconoscersi di conseguenza nel genere femminile che la società di norma attrivuisce agli individui di sesso femminile.
Pericoli inerenti la transizione in un ambiente costruito su modelli dinamici di identità
Non credo sia sbagliato cambiare genere nel momento in cui non ci si riconosce più in quello che la società ci ha attribuito. Questo tuttavia non è da intendersi come la massima affermazione dell’indipendenza dell’Io, ovvero come il trionfo del libero arbitrio che conduce alla costruzione autodeterminata della propria identità, bensì -al contrario- è la più solida conferma di come l’identità sia frutto di un giudizio esterno a cui dobbiamo adeguarci.
È più facile cambiare chirurgicamente sesso che cambiare l’accezione che la società attribuisce a quel sesso, fin qui è abbastanza intuitivo. Diretto corollario, tuttavia, è comprendere che l’identità sia qualcosa in diretto conflitto con il libero arbitrio. L’identità è prevedibilità, tanto che farsi accettare può significare doversi adeguare ad un modello ben definito, differente da quello che ci è stato inizialmente attribuito, che per rigettare abbiamo anzitutto dovuto definire facendo nostre le categorie che l’hanno istituito.
Ci siamo tutti dentro, giusto o sbagliato, bello o brutto. L’autodeterminazione, in qualsiasi contesto, non è altro che la caccia ad un modello, più o meno inconscio, appreso dall’ambiente e la capacità di aderenza a quel modello. Nessuno crea una categoria dal nulla totale, si serve in larga parte di quelle già presenti, universalmente condivise.
A questo punto non vi sarebbe nulla di potenzialmente pericoloso nel cambiamento identitario qualora l’ambiente fosse un terreno stabile ed immutabile. I rischi si incontrano però in un ambiente che cambia costantemente perché cambia -e in maniera repentina- la società stessa, nonché le categorie che la strutturano. Cambiano i principi, i valori, le definizioni, ma non muoiono, se ne formano di nuove, di incredibilmente diverse, ad esempio più inclusive.
Augurarsi di vivere in un mondo privo di giudizi e categorie è un esercizio mentale fanciullesco che, come evidenziato prima, rinnega la stessa natura umana. È qualcosa che possono forse permettersi le persone talmente abbienti da potersi totalmente distaccare da qualsiasi relazione umana per un lasso di tempo considerevolmente lungo, ma anche qui ne sono tutt’altro che convinto. Ognuno di noi deve quindi accettare di essere definito, di avere un’dentità e di non poterne fare a meno. Rifugiarsi in un comodo quanto indefinito “sono quello che sono” non è possibile.
Risulta quindi fondamentale per noi mortali interrogarsi sul principio che guida il concetto stesso di transizione: pur soddisfando in apparenza una profonda spinta dell’Io, potrebbe non essere altro che un radicale adeguamento psicofisico ad un modello sociale in costante divenire.
Una drastica transizione identitaria volta ad incontrare una mutevole categoria culturale di genere potrebbe rivelarsi solo una fugace infatuazione. Una non risolutiva trasfigurazione da pagare in seguito ad un prezzo sociale altissimo: il disconoscimento. Soprattutto -ma non solo- se intrapresa prima della maggiore età, tempo che convenzionalmente consideriamo fondamentale per poter esprimere, almeno formalmente, una parvenza di autodeterminazione.
Qualora la transizione verso la nuova identità fosse stata effettuata e le categorie che convenzionalmente la definiscono dovessero cambiare, cosa resterebbe del nostro Io? Potremmo trovarci di fronte al vuoto. Significherebbe accorgerci di aver intrapreso un cambiamento forzoso, che nella nuova tassonomia non trova più ragione d’essere, poiché la nostra nuova categoria di appartenenza è stata ridefinita dall’ambiente, e con essa la nostra identità, quale che sia la nostra singolare opinione e volontà al riguardo.
Scoprendo che le categorie culturali su cui la nostra transizione identificativa si è basata sono radicalmente e repentinamente mutate a loro volta, saremmo pronti a pagare il prezzo di un cambiamento psico-fisico irreversibile? Probabilmente Elliot Page sì, ma sono convinto che larghissima parte di coloro che sponsorizzano convintamente questa profonda forma di decostruzione dell’identità (cis, trans, donne, uomini e non binari…) sia ancora ben lontana dal porsi questo genere di domande.
3 comments
[…] letto questo pezzo del buon Jacopo – nel senso che sembra uno che scrive cose sensate, nonostante il nome […]
Personalmente mi ha fatto piacere leggere questo articolo ché è comunque un pezzo scritto divergente da quello che potremmo chiamare mainstream. Credo però che sia un po’ troppo incentrato su masturbazioni intellettuali-filosofiche (forse era questa la sostanza ?) Ché di fatto se si conoscono le esperienze concrete di transessualità (sia direttamente che indirettamente tramite conoscenze) ci sarebbero anche altri argomenti da mettere nero su bianco che porterebbero altre risposte e magari anche altre domande più fruttuose ; partendo semplicemente dal fatto concreto che la transizione, oltre alla sofferenza mentale che poi si ha a livello psicologico, comporta un iter non poco difficoltoso di vita: pletoriche visite da psicologici/psichiatri/endocrinologi/giudici, operazioni invasive, assunzione di ormoni a vita, cazzi e mazzi burocratici/lavorativi, quindi non è un percorso che si prende a cuor leggero e non so quanto possa idealisticamente parlando SOLO dipendere dall’alter, che sia ‘sta fantomatica moda, individuo o collettività (anche perché ad oggi in Italia il senso comune non è che converga molto verso questa categoria). C’è comunque una predeterminazione biologica- a mio parere- in queste persone ché se ha terreno fertile fuoriesce. Ho una persona molto cara a me con cui sono cresciuta che ha sempre deviato fin dall’ infanzia più tenera dai modelli di comportamenti del suo sesso biologico (femminile). Da adolescente andava al liceo in una scuola paritaria di suore salesiane dove, a parte tutto il corredo di ideologia catto-fascista, i 2 modelli di maschio e femmina erano molto categorici (limitativi per chiunque) : atteggiamenti, vestiti, peso del corpo, e persino le operazioni di rinoplastica erano omologati e perfettamente divisi agli antipodi tra i due sessi. Lei comunque andava a scuola- unicum in tutta la storia dell’istituto- vestita del sesso opposto. Sapeva gestire le dinamiche dell’ambiente, le persone la conoscevano bene e a parte qualche piccolo tafferuglio era integrata e le persone le volevano bene anche perché c’era della stima dietro questa persona così divergente dagli schemi (certo non da parte di tutti e non fu immediata). Questa è un’esperienza particolare, non certo universale, però è la dimostrazione che anche noi individui cambiamo la collettività, è una influenza reciproca quella della relazione individuo-società. Certo gli individui non vengono dal cielo, nascono già in una società con le sue norme et similia ma appunto le società (nel tempo e nello spazio) hanno in embrione l’input del mutamento, a volte, nei comportamenti di singoli individui (che poi evolveranno nella posteriorità). Per sapere questo comunque basta aprire un manuale di sociologia o semplicemente conoscere la storia di ieri e l’altro ieri. Detto ciò per non fare misticismo sulla fattualità di queste dinamiche bisognerebbe, a mio parere, avere un’informazione seria su questioni quali l’educazione sessuale e tutto il bagaglio che si porta appresso, divulgata non da svariati articoli allarmistici online o su giornale ma da persone competenti attraverso istituzioni scolastiche, conferenze, incontri, attività di teatro et cetera ché sennò si alimenta lo già non indifferente scompiglio.