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Biden, Putin e “Regime Change”

Biden Putin

“For God’s sake, this man cannot remain in power”, una frase poco accorta pronunciata da Biden nei confronti di Putin durante la conferenza stampa di sabato a Varsavia, l’ultima di una lunga serie in cui fa confusione, dimentica le parole, sbaglia sostantivi e aggettivi in un momento particolarmente delicato, viziato da un giornalismo accomodante che gli concede molto margine d’errore, troppo come sottolineato anche da Forbes.

Quando un intervento ogni due l’ufficio stampa della Casa Bianca o la Segreteria di Stato devono correre a rettificare/chiarificare/smentire le parole del Presidente v’è un evidente problema istituzionale ed anche qualche virtuoso giornale americano, come l’Atlantic, ha sommessamente iniziato a scriverne.

Stavolta a correggere il tiro ci ha pensato direttamente Antony Blinken sottolineando come non vi sia alcuna intenzione USA di intromettersi nella politica domestica russa. Un’affermazione tutt’altro che di facciata vista la complessa situazione interna alla Federazione, caratterizzata da divisioni etniche, religiose e culturali, oltre che da un intricato quadro amministrativo composto di “entità federali” e vere e proprie “repubbliche” interne di cui spesso in Occidente s’ignora l’esistenza.

Se a proposito della recente invasione russa non si può che confermare un totale sostegno all’Ucraina, una riflessione più ampia, oltre il conflitto, resta comunque doverosa: una Russia senza Putin è davvero difficile da immaginare per coloro che, come me, hanno 30 anni e sono cresciuti vedendo lo zar governare per 20 dopo la disfatta del comunismo sovietico, durato 70 anni e di cui lo stesso Putin è per altro un ingombrante strascico.

Il processo di balcanizzazione di una Federazione con enormi differenze culturali e tensioni territoriali accomunate da un’intolleranza di fondo per il dirigismo di Mosca non si può più escludere con certezza dal futuro a lungo termine, con tutti i pro e i contro che questo comporta. A margine dell’invasione e della guerra odierna il declino di Putin, auspicabile ed inevitabile per mere ragioni anagrafiche oltre che politiche, potrebbe non generare né la pace né la stabilità che cerchiamo.

Una Russia senza Putin

È di questo che si è occupato per anni il Professor V. Shevchenko dell’Istituto di Filosofia dell’Accademia delle Scienze Russa. Secondo Shevchenko le principali motivazioni di una possibile lenta ma costante implosione russa sarebbero da ricercare anzitutto nella mancanza di un sentimento nazionale condiviso, come spiegato nel suo saggio “The Future of Russia: Strategies for Philosophical Understanding“, oltre che nella tendenza separatista di alcuni gruppi etnici, principalmente residenti nel caucaso settentrionale, pronti ad aumentare l’autonomia delle repubbliche di confine, Daghestan e Cecenia in primis. Anche la Crimea, contesa con l’Ucraina, ma formalmente riconosciuta da Mosca come Repubblica a seguito dell’annessione, resta comunque caratterizzata da una forte propensione all’autonomia. È proprio con i leader di queste regioni che Putin ha intessuto rapporti personalissimi, in un intreccio di relazioni elitarie che compongono l’oligarchia russa. Per sua stessa ammissione l’abbandono della Federazione Russa da parte di una repubblica del caucaso innescherebbe una reazione a catena che condurrebbe rapidamente al disfacimento della Russia. Tensioni simili coinvolgono infatti anche aree più interne come il Volga, il Tatarstan e la Yakuzia. Da qui la stretta che il Cremlino ha progressivamente esercitato nell’ultimo decennio su molte regioni, fomentata dal sentimento di riunificazione post-sovietico dello zar, suscitando il malcontento popolare.

Quanto questa stretta possa durare e quanto forte potrà essere dopo il tramonto di Putin sono le domande che in molti iniziano a porsi, Putin compreso, a partire dai ricercatori dell’Atlantic Council che già nel 2021 analizzavano l’ipotesi del regime change propinato qualche giorno fa da Biden, senza nascondere le evidenti difficoltà che un nuovo Presidente si troverebbe a dover fronteggiare cercando di ridare dignità alla apparentemente minoritaria anima democratica russa pur tenendo insieme il paese.

Difficoltà che a detta di Alexander Motyl, professore di Scienze Politiche a Newark e specialista di Russia e URSS, potrebbero essere insormontabili e finerebbero o per generare un nuovo Putin nel solco autarchico già tracciato dal vecchio o per condurre alla frammentazione, anche parziale, della Federazione Russa sulla base dei moti democratico-indipendentisti delle repubbliche nazionali, con prevedibili ripercussioni estere in Bielorussia, Transnistria e Asia centrale. Un quadro geopolitico incredibilmente fluido che interesserebbe una vasta area per un tempo non facilmente definibile.

Di diverso avviso è Kadri Liik, Senior Policy Fellow presso l’European Council of Foreign Relations, che sebbene spieghi come Putin abbia minato lo stesso sistema di potere che l’ha mantenuto al governo finora, ipotecando il futuro della Russia, non ritiene plausibile una frammentazione. Pur evidenziando una crescente intolleranza dei cittadini verso l’attuale sistema, un cambiamento sociale profondo -già in atto da anni- potrebbe sfociare con il tempo nella svolta democratica diffusa ed unitaria di cui il paese ha tremendamente bisogno, arginando le spinte separatiste e le lotte intestine. Una coraggiosa rivoluzione di cui le piazze russe dell’ultimo mese non sarebbero che l’avanguardia, ma che in ogni caso non potrà essere condotta senza costi.

Per i cittadini russi l’all-in di Putin sulla guerra in Ucraina si è già rivelato una pessima scommessa, per quanto desiderabile un precoce e scomposto regime change -dopo vent’anni di oligarchia e clientelismo- potrebbe rappresentarne un’altra.

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2 comments

Dario+Greggio 29/03/2022 at 19:57

still, putin must die. even better, russia must be deleted

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Dario+Greggio 29/03/2022 at 19:57

non si meritavano Gorbaciov, lo penso dal 1985…

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