Con la morte di Eugenio Scalfari, viene a mancare uno dei più grandi decani del giornalismo italiano. Uno dei pochi ad aver fatto per davvero la storia del giornalismo del ‘900 (con la S maiuscola). Incarnato la stagione d’oro del giornalismo cartaceo. Vale la pena ripercorrere qui le gesta straordinarie, le tappe e la vita di questo preclaro intellettuale, politico, giornalista, filosofo, editore e scrittore.
Nato a Civitavecchia il 6 aprile del ’24, si trasferisce entro poco coi i genitori nella città di Sanremo dove il padre Pietro, esponente della massoneria, è nominato direttore del casinò. Studia al liceo classico avendo come compagno d banco quell’Italo Calvino che poi diventerà suo collaboratore a Repubblica.
Insieme fondano il movle italiano, una sorta di apprendistato alla politica, un’esperienza del tutto estemporanea dal momento che, poco dopo, il celebre scrittore si avvicinerà ai comunisti e Scalfari ai socialisti. Durante il fascismo scrive per “Roma fascista”, di cui diventa caporedattore insieme ad altri nomi dell’intellighenzia di sinistra che poi faranno strada (tra gli altri: Paolo Sylos Labini, Enzo Forcella, in futuro editorialisti proprio a Repubblica). Gli scritti giovanili dell’epoca verranno ripescati di tanto in tanto (Antonio Socci ci fece una campagna di stampa nel ’92) e gli verranno rinfacciati (colpisce in particolare il fervore scalfariano per la causa fascista). Il giornale, inviso a Mussolini, viene chiuso una prima volta per eccesso di zelo e lui epurato dal guf.
Nel frattempo torna a Roma per laurearsi in giurisprudenza, con una tesi – cum laude – in economia politica, inizia a lavorare alla Banca nazionale del lavoro (da cui viene licenziato per violazione del segreto bancario) e si avvicina agli ambienti liberal de Il Mondo di Pannunzio. La leggenda vuole che, per approcciarlo, Gegè, com’è soprannominato da loro, avesse affittato il piano di sotto della casa di Forte dei Marmi dove Pannunzio era solito trascorrere le vacanze estive; si presenta una sera esclamando: “voi parlate, parlate e non mi lasciate dormire. Almeno fatemi entrare e chiacchieriamo insieme!”. Scriverà 22 articoli per Il Mondo.
Secondo la testimonianza di una segretaria di redazione, Pannunzio dirà di lui: “la presunzione di Scalfari supera la sua intelligenza. A noi però è utile perché conosce l’economia”; e in una lettera a Valiani lo descrive come “instabile, femmineo, esuberante. Non ha veri legami o affinità ideali e morali con nessuno. Tutto è strumentale, utilitario. Tutto deve servire alla sua splendida carriera”. La rottura fra i due, insanabile e traumatica (non gli sarà permesso di accedere ai funerali), avviene per ragioni politiche: Pannunzio è un fervente anti-comunista, il giovane Scalfari invece si avvicina alla corrente di sinistra del partito radicale (che contribuisce a fondare e da cui si allontana per i dissidi con un giovane reporter: Marco Pannella). Quegli anni sono rievocati da Scalfari in La sera andavamo in via Veneto, probabilmente il suo libro di maggior successo, una sorta di autobiografia intellettuale con finalità autocelebrative: “la sera andavamo in via veneto, al caffè Rosati, che aveva soppiantato fin dall’immediato dopoguerra la terza saletta di Aragno”, il celebre incipit.
Nel 1950 sposa Simonetta de Benedetti (figlia di Giulio, direttore de La Stampa dell’epoca), inizia a scrivere per l’Europeo di Arrigo Benedetti sinché non viene rilevato da Angelo Rizzoli che ne vuole fare una sorta di giornale di gossip per adulti sulla scorta del rotocalco Oggi. Al pari di Pannunzio, Arrigo Benedetti fu, intellettualmente parlando, il vero maestro di Scalfari, ma entrambi verranno accantonati e ripudiati dall’epigono quando ormai non contano più nulla.
Benedetti e lui abbandonano gli indugi e decidono di fondare un settimanale, di cui sono anche azionisti. L’Espresso rappresenta il rotocalco di maggior successo nel dopoguerra. Si ispira al settimanale francese l’Express, fondato dal giornalista editore Jean Jacques Servan Schreiber (un vero e proprio mito per Scalfari, che per 15 anni lo emula), la linea politica è forte e schierata a sinistra (a favore dei socialisti), la scrittura è molto curata, il formato a lenzuolo, abbondano gli editoriali e le opinioni.
Il primo editore è Olivetti (che però subitaneamente si tira fuori dall’operazione regalando le sue quote del valore di 150 milioni di lire – oggi circa 5 miliardi – agli altri tre protagonisti), gli subentrerà il principe Carlo Caracciolo – in un sodalizio di affari con Scalfari che prosegue ininterrottamente anche con la nascita di Repubblica. Memorabile, a questo proposito, la definizione che Caracciolo gli dedica: “Eugenio porta la testa come il santissimo in processione”. Il direttore editoriale è Benedetti, Scalfari dapprima è solo direttore amministrativo e discetta di economia – di fatto, è l’inventore del giornalismo economico così come lo concepiamo oggi. Quando Benedetti si ritira nella sua villa a Saltocchio per dedicarsi alla scrittura di romanzi (peraltro senza successo), Scalfari diviene anche direttore responsabile della testata oltreché il maggiore azionista dopo Caracciolo. Impone il formato a quaderno, nonostante lo scetticismo della redazione: le vendite raddoppiano (da 150.000 a 300.000 copie).
L’Espresso cannibalizza il Mondo fino a surclassarlo e col tempo assurge al rango di settimanale più autorevole in circolazione. A quel punto Scalfari non è più soltanto un “giornalista”, ma si impone come un grande manager dell’informazione: è spregiudicato, oltremodo ambizioso, sa fiutare dove tira il vento. Ha un’incrollabile e illimitata fiducia in se stesso. Giampaolo Pansa, che lo ha conosciuto bene, rileva come “anche nelle circostanze più difficili non dubitava mai delle proprie capacità ed era sempre convinto di sfondare. Era questa granitica sicurezza a renderlo forte. E a non fargli mai perdere il traguardo folle che si era dato: conquistare il successo”. Un’autostima indefettibile che sconfina in albagia. “La sua carriera – ha chiosato Vittorio Feltri – è stata sfolgorante, disseminata di successi, vittorie, raggiungimento di traguardi che in molti se non tutti ritenevano impossibili”.
L’inchiesta sul Sifar (i servizi segreti dell’epoca) e sul presunto golpe del generale de Lorenzo a firma sua e di Jannuzzi gli procurano una querela e la condanna a 15 anni per diffamazione. Sfugge al carcere candidandosi in parlamento coi socialisti, ma deve dimettersi da direttore de l’Espresso. La carriera politica è breve e non lascia il segno: si rende conto che un parlamentare conta meno di un direttore di giornale. Li definirà “i quattro anni più frustranti della mia vita”. Risale a quei giorni l’episodio della multa per oltraggio a pubblico ufficiale. A un vigile che lo vuole multare, Scalfari risponde: “lei non sa chi sono io: sono l’onorevole Scalfari!”.
Secondo Paolo Guzzanti, che gli ha dedicato il corposo volume “senza più sognare il padre”, fu proprio Craxi a spiattellare la notizia ad alcuni giornalisti del Corriere della Sera, che la pubblicarono con grande evidenza. E’ l’inizio di una rivalità che prima traligna in inimicizia e poi in vero e proprio odio antropologico. Sono gli anni del ’68, dei movimenti studenteschi e della contestazione generale, verso cui Scalfari non nutre particolare simpatia. Su l’Espresso viene pubblicato l’appello ferale contro Calabresi, additato come il responsabile della morte di Pinelli. Tra i nomi dei firmatari c’è anche quello di Scalfari, che più avanti farà un gesto di resipiscenza, agevolando la carriera giornalistica del figlio del commissario.
Terminata l’esperienza politica, pubblica insieme a Giuseppe Turani “razza padrona”, una requisitoria contro la classe imprenditoriale, quella borghesia di stato collusa col sistema di potere della dc; in particolare si scaglia contro Eugenio Cefis (trattato a giorni alterni come un industriale illuminato oppure uno scavezzacollo, a seconda dei loro rapporti). Il libro, un pamphlet di notevole successo, viene presentato in tour in tutta Italia, serve a rilanciare la popolarità di Scalfari. I due anni seguenti lo vedono perfezionare il lancio della sua nuova creatura, alla ricerca di finanziatori (Pirelli e Agnelli declinano la proposta).
Il primo numero di Repubblica esce il mercoledì del 14 gennaio ’76; la sede è in piazza Indipendenza (nomen omen). La redazione è snella, composta da una cinquantina di redattori, la foliazione ridotta – una ventina di pagine, un terzo rispetto ai concorrenti – così da agevolare lo sfoglio. Inizialmente non esce il lunedì, per risparmiare sui munifici stipendi della domenica, non c’è lo sport; in luogo della terza pagina, che viene espunta, il paginone della cultura occupa le pagine centrali. I giornalisti hanno un’età compresa tra i 20 e i 30 anni, alcuni sono alle prime armi, altri sono stati strappati alla concorrenza. Nella squadra vengono assoldati Giorgio Bocca, Natalia Aspesi, Giampaolo Pansa (che arriva un anno dopo), Corrado Augias, Vittorio Zucconi, Paolo Guzzanti, Miriam Mafai. Scalfari è un leader conclamato, un direttore paternalista e autoritario. Un monarca assoluto. Dal carattere sanguigno, puntuto, passionale. Mostra una dedizione assoluta alla causa, un puntiglio fiori dall’ordinario; Repubblica è la sua seconda famiglia. Chi abbandona la nave entra fatalmente nel “cono d’ombra”: da quel momento non esiste più, viene disconosciuto, Scalfari gli toglie il saluto. Raramente concede il suo perdono. La riunione mattutina delle 10:30 passa sotto il nome di “messa cantata”. I suoi giudizi oscillano: passano dall’encomiastico alla reprimenda più dura (gli attacchi più virulenti li riserva ai leader politici, a seconda delle sue ubbie o idiosincrasie).
L’Editoriale L’Espresso, guidata da Caracciolo, e la Mondadori di Formenton si dividono le quote a metà, con un investimento di 5 miliardi a testa. Il nome originario doveva essere L’Opinione, si verte su La Repubblica in omaggio alla rivoluzione dei garofani in Portogallo. Il formato a quaderno, in stile tabloid, assai maneggevole, si ispira a Le Monde. “Questo giornale è un poco diverso dagli altri: è un giornale di informazione il quale, anziché ostentare una illusoria neutralità politica, dichiara esplicitamente d’aver fatto una scelta di campo. E’ fatto da uomini che appartengono al vasto arco della sinistra italiana, consapevoli d’esercitare un mestiere, quale appunto del giornalista, fondato al tempo stesso su un massimo di impegno civile e su un massimo di professionalità e di indipendenza”, scrive Scalfari nell’editoriale d’esordio.
Giancarlo Perna rivelò che, quattro anni dopo la nascita, era stato siglato un patto di non belligeranza con gli editori del Corriere della Sera Tassan Din e Rizzoli per non uccidere in culla il giornale appena nato. Secondo la tesi di Perna a far da garante è Licio Gelli, nella cui abitazione a Castel fibocchi viene ritrovato una copia di questo gentleman’s agreement. Quando scoppierà lo scandalo della p2, Scalfari non si farà scrupoli a maramaldeggiare sul Corriere della sera invischiato da cima a fondo nell’affaire. L’effetto è devastante per il Corriere che nel giro di poche settimane ha un crollo nelle vendite, ma una vera e propria manna per Scalfari che ci si butta a capofitto sparando ad alzo zero un giorno sì e l’altro pure; fa pure una campagna acquisti portandosi via diverse firme di punta come Enzo Biagi, Alberto Ronchey, Gianni Brera.
Repubblica viene pensato originariamente come un secondo giornale che punta a nuove nicchie di mercato e si rivolge a un pubblico filo socialista. E’ un socialismo libertario, quello propugnato da Scalfari, secondo la massima di Pannunzio: liberali in economia, progressisti in politica, libertari nei costumi. Liberal in politica, di destra in economia. Repubblica è quindi un misto di tecnocrazia, borghesia e progressismo. Piace all’establisment che conta.
I suoi editoriali – dice Giovanni Minoli – sono per molti potenti la prima lettura del mattino. E’ un tipo di giornalismo militante. A tratti anche piuttosto fazioso. Il giornalismo inteso (anche) come lotta politica con altri mezzi. Da cui discende che, per lui, l’obiettività è un obbiettivo impossibile da raggiungere (a differenza di Ottone, con cui intreccia un dialogo sul giornalismo memorabile). Secondo Scalfari, “vocazione al giornalismo vuol dire voglia e capacità di entrare nella vita degli altri, per raccontarli cogliendoli in tutte le loro posture, quelle gradevoli e quelle inquietanti, innocue o criminose, normali o devianti. A cominciare da quelli che esercitano un potere. Perciò il giornalismo è un contropotere e come tale detiene un intenso potere di controllo. Questo dà una sorta di ebrezza, un senso di potenza. Io l’ho provato. Ti appassioni. E aspiri a essere il più bravo. Il più aggressivo. Il più irriducibile”.
La svolta avviene quando decide di puntare, secondo un preciso disegno di marketing, al bacino dei lettori vicini al partito comunista, grossomodo un terzo del Paese. Il progetto quindi parte dalle elitè per poi espandersi alle masse di sinistra. E’ di Giancarlo Pajetta la battuta: “Repubblica è il secondo giornale dei comunisti che però lo leggono per primo”. Eppure, quando nasce Repubblica, il suo direttore non è ben visto dai dirigenti comunisti, che la chiamano “ripubblica” perché ricicla notizie già pubblicati da altri quotidiani. E’ un giornale simpatizzante, ma fuori dal loro controllo. Berlinguer, a margine di un’intervista a Pansa, gli confida: “il suo direttore pretende di modificare l’immagine che abbiamo di noi, orientare i nostri comportamenti e indirizzare il PCI verso certi esiti piuttosto che altri. In tutto questo c’è qualcosa di oscuro che non mi piace”. Sempre Pansa: “Al quadro dirigente comunista non piace. Lo considerano un liberale, cresciuto nel mondo della banche, un giornalista spocchioso e capace di qualunque fantasia pur di scrivere un articolo acchiappante e conquistare qualche lettore.”
“Di lui dicono che è il cantore del neocapitalismo, si maschera da uomo di sinistra, ma starà sempre dalla parte dei padroni”. Scalfari riesce a penetrare nella base comunista vellicandone l’antisocialismo montante, Repubblica prende il largo e fa strame della concorrenza (Il Manifesto e L’Unità rilevano un calo cospicuo della copie, Lotta continua e Paese sera cessano di esistere), rinsalda i rapporti con Berlinguer all’insegna della questione morale (lo slogan “il partito degli onesti” è ispirato proprio da Scalfari).
Scalfari fa, dal versante opposto, la stessa operazione compiuta da Montanelli nel ’74 con il Giornale nuovo. Tra le due primedonne del giornalismo corre un rapporto di odio – amore, una sana rivalità. Il primo, Scalfari, si fregia di essere un liberal progressista (“perché piaccio ai comunisti? Perché sono liberale”), il secondo, Montanelli, è un liberalconservatore con venature anarchiche. Si detestano ma al contempo, senza poterlo ammettere, si stimano. A un certo punto, allorché Montanelli abbandona il corriere per fondare il Giornale, Scalfari coltiva l’idea, bizzarra, di fare un giornale assieme. Lo vuole nel suo giornale ancora di là da venire come direttore. Non se ne fece niente.
Quando Montanelli viene gambizzato dalle brigate rosse “soltanto i miei amici–nemici Eugenio Scalfari e Giorgio Bocca ebbero il coraggio di manifestarmi la loro solidarietà”. Montanelli gli invidia di saper gestire egregiamente i conti di un giornale; Scalfari l’impareggiabile scrittura. Chi è stato più grande fra i due? E’ un dilemma senza risposta. Montanelli è un giornalista a 24 carati, un solista: nasce come inviato e corsivista, Scalfari invece è riconosciuto da tutti per le sue doti eccezionali di fondatore e direttore di quotidiani.
Se Montanelli inizialmente gode di una popolarità maggiore, risulta essere più amato, Scalfari però, tra i due, è senza dubbio il più influente. “Il Giornale non solo ha una platea più ristretta, ma si batte essenzialmente per dei princìpi e trascura, com’è nel temperamento del suo direttore, gli interessi concreti di partiti, gruppi, correnti, o cordate. La Repubblica invece è attentissima proprio a queste cose. E il potere di Scalfari è tra i massimi in Italia”, nota Perna. I governi della prima Repubblica nascono e muoiono nella sua stanza; i leader politici lo blandiscono e lo temono. Ugo Intini conia l’espressione di “partito irresponsabile dell’informazione”: l’accusa è di far politica attraverso l’informazione, di essere un partito fittizio, un potere occulto.
Scalfari replica che “Repubblica si sottopone ogni giorno al giudizio dei suoi lettori che tutti i giorni vanno in edicola e la scelgono tra molti altri giornali”; da più parti gli viene affibbiata l’etichetta di “giornale partito“. C’è del vero. Il giornale viene usato per regolare conti, indirizzare i politici; il suo fondatore si impanca a censore, gran consigliere, king maker della politica. Coltiva amicizie e rapporti con Guido Carli, Ciampi, Sarcinelli, Baffi, Draghi, il gotha della finanza e dell’imprenditoria.
Mette becco su tutte le decisioni politiche, convince Lama a cambiare la sua politica sull’inflazione; suggerisce e impone il nome di Prodi a presidente dell’Iri, caldeggia e raccomanda ministri – Maccanico alle Poste -, ottiene leggi contro i propri nemici (quelle di Andreatta sulle televisioni di Berlusconi). E’ un battitore libero (malgrado la nomea di comunista, per anni vota il partito repubblicano), per nulla succube o gregario nei confronti dei partiti politici. Per il decimo anniversario di Repubblica, quattrocento persone, mezza Italia che conta, sono riunite per l’omaggio al Direttore. Qualcuno grida: “coraggio Eugenio, fai tu un partito!”. Quel sabato 15 gennaio 1986 è una giornata indimenticabile.
La nomenklatura prostrata ai suoi piedi è la raffigurazione plastica del successo raggiunto. La consonanza con i lettori è assoluta. Nel tempo Repubblica diventa un quotidiano di moda, di tendenza. Dice ai suoi lettori cosa guardare al cinema, come vestire, quali libri leggere. Fa un giornale popolare e al contempo radical chic. Il suo pubblico è il ceto medio riflessivo e lui gli propina la convinzione di essere un club di illuminati in lotta contro una turba di oscurantisti (Craxi, Forlani, la p2, Andreotti ecc), li convince di essere radicalmente diversi. “Politicamente si entusiasma con facilità. Per Berlinguer, per il sindacalista Pierre Carniti o l’economista Franco Modigliani. Scalfari sposa ogni giorno lo stato d’animo dei suoi lettori. Scrive quello che si aspettano che scriva in quel momento, poi si vedrà. Non si sente gravato da nessuna responsabilità. Insomma riesce a conciliare l’emozione e il marketing. In questo è bravissimo”, Ronchey dixit.
Il rodaggio inziale de La Repubblica tuttavia è difficoltoso: Scalfari stabilisce come obiettivo programmatico una media di 150.000 copie vendute entro due anni e due miliardi di introiti dalla raccolta pubblicitaria. La deadline non viene centrata: il massimo a cui arriva è 90.000, con una media di 70.000, meno della metà.
Repubblica avrebbe chiuso (viene fissata pure la riunione di redazione per annunciare la fine dell’esperienza del quotidiano scalfariano), se non fosse intervenuto un evento provvidenziale: l’assassinio di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse. La foto segnaletica di Moro che regge in mano il quotidiano, la linea della fermezza di cui Scalfari si fa assertore in maniera pervicace (unico giornale che mantiene una posizione così netta e decisa), beneficiano Repubblica più degli altri giornali. “Le vendite schizzano a 130.000 copie. Direttore e redattori festeggiano a Champagne”, scrive Perna. Il giornale non è più minoritario, di nicchia, ma è diventato nazionalpopolare. Dieci anni dopo la sua genesi, avviene il clamoroso sorpasso ai danni del primo quotidiano nazionale, il Corriere della sera diretto da Ostellino. E’ determinante il gioco a premi Portfolio; ma l’impresa dal punto di vista simbolico rappresenta un traguardo clamoroso: un giornale nato dal nulla che in un amen supera un rivale con quasi un secolo di storia alle spalle e il primato imbattuto di giornale più venduto. E’ un capolavoro senza precedenti, frutto del virtuosismo di un fuoriclasse del mestiere.
Pansa racconta che in quei giorni Scalfari, per motivare la ciurma, avesse preso l’abitudine di sciorinare i numeri della diffusione giornaliera: “Abbiamo superato il Messaggero, vendiamo più de La Stampa, ci stiamo avvicinando al Corriere”, per poi aggiungere celiando: “quando avremo battuto il Corrierone, vi sarà riconosciuto il diritto allo stupro e al saccheggio! Ma prima di allora tutti dovremo imparare a non commettere più le cazzate che facciamo ogni giorno”. La nascita e l’affermazione di Repubblica ha un impatto dirompente sulla stampa: è il primo vero quotidiano nazionale con una diffusione omogenea su tutto il territorio. Impone le notizie, anziché riferirle creando dei temi che diventano di attualità proprio perché a lanciarle è il giornale fondato da Scalfari (in gergo questo si chiama settimanalizzazione della notizie). La concorrenza si attrezza per rispondere all’offensiva copiandone il modello: non a caso a La stampa e al Corriere vengono nominati direttori Paolo Mieli ed Ezio Mauro, provenienti entrambi da Repubblica.
”L’apparizione de La Repubblica – secondo Perna – ha avuto l’effetto di un terremoto. Prima o poi, tutti si sono dovuti adeguare. La sua aggressività, concentrata soprattutto nei titoli, ha spiazzato il grigiore filogovernativo dei giornali tradizionali tipo il Corriere della Sera. Ha dimostrato che un quotidiano che fa la voce grossa non è necessariamente destinato a una minoranza di scontenti, ma può creare una comunità ampia ed esigente. I leader politici si fanno in quattro per apparire sul giornale e ottenere la benevolenza. I lettori di Repubblica formano un partito, si sentono l’Italia degli onesti, che si stringe attorno e si lascia guidare da Scalfari. Lui sa chi sono, cosa vogliono, cosa potrebbero desiderare. Ne conosce il numero, l’età, lo status sociale. Città per città. Provincia per provincia”.
Scalfari non ha fatto tutto di colpo, ma per successive correzioni guidato dall’esperienza professionale, ma soprattutto dal suo bernoccolo di imprenditore in grado di adattare il prodotto giornalistico alle richieste della gente. Negli anni ha cambiato contenuti, ribaltato ideologie, modificato i toni per adeguarsi alle variazioni di gusto e sintonizzarsi con i nuovi lettori del giornale in crescita. Ha studiato e capito il mercato editoriale come pochi altri nell’Italia nel del dopoguerra. La Repubblica nella sua stagione d’oro arriverà a vendere più di un milione di copie. Nell’89, all’apice del successo, Scalfari monetizza e passa all’incasso: lui e Caracciolo vendono le loro quote di proprietà a De Benedetti, divenuto socio nell’ ’83: a Barbapapà spettano 93 miliardi, al principe 300. Con un patrimonio di oltre 100 miliardi, investimenti redditizi in borsa, Scalfari è diventato il giornalista più ricco in circolazione. “L’ho fatto perché non avevo eredi“, ammette.
“Nel 1942 Scalfari era fascista, nel 1943 antifascista, nel 1945 azionista, nel 1946 votò monarchia, nel 1952 liberale, nel 1955 radicale, nel 1963 socialista, nel 1976 filocomunista, dal 1983 al 1989 è stato demitiano. Ora ha il dito in aria e spia il vento”. La definizione, icastica, è di Giancarlo Perna, nella biografia non autorizzata Scalfari, una vita per il potere. A queste critiche, Scalfari ha sempre obiettato che “la coerenza è la virtù degli imbecilli” e, nelle sue plurime autobiografie, scomodando Popper, ha cercato di nobilitare queste giravolte come una forma di libertinaggio intellettuale.
Purtuttavia, va riconosciuto che la Repubblica fu un esempio formidabile di libertinismo: un giornale che ospita firme ideologicamente diverse fra loro, spesso in contrasto; aduso a contraddirsi, spiazzare, cambiare opinione. “Sta sul filo del vento, da gran marinaio”, ha detto di Scalfari Montanelli. Già dai primi anni si diffonde la nomea di menagramo. Tutti i cavalli su cui punta – da de Mita a Berlinguer – immancabilmente sono destinati all’insuccesso. Visentini sardonico dichiara: “quando sosteneva Berlinguer, il Pci ha perso le elezioni. Quando nel 1983 Eugenio ha sponsorizzato per la prima volta de Mita, la dc ha perso il 6%. Non sarà che porta iella?”. L’anedottica dei baci della morte con cui Scalfari affossa il candidato che appoggia è ricca e variegata. Politicamente non ci azzecca quasi mai. Nel 2008 preconizza la vittoria di Veltroni perché “chi vuoi che voti uno cosi” (riferito a Berlusconi). Come noto, il leder della coalizione di centro destra otterrà una vittoria senza precedenti.
Nel corso della prima repubblica, scevera tre grandi nemici: Craxi, Andreotti e Berlusconi. Con Craxi, ribattezzato Ghino di Tacco, il brigante di Radicofani, intreccia duelli all’arma bianca sulla pagine del giornale. I lettori vanno in visibilio per questo scontro tra due pesi massimi. Scrive editoriali di fuoco contro la gang di Bettino, non risparmia nessuno. A Giuliano Amato, “esperto di diritto, di trabocchetti giuridici, di scappatoie politiche” affibbia il nomignolo di Dottor Sottile.
Ad Andreotti (soprannominato belzebù) dedicherà ritratti al vetriolo: “già con le orecchie a sventola e l’incurvatura delle spalle, ha gli occhi astuti di un seminarista che studia per diventare monsignore”; e ancora: “ha gli occhi obliqui di un mandarino cinese, le labbra strette d’un gesuita settecentesco, l’andatura circospetta di chi nasconde a se stesso la propria ombra. Averlo nemico può essere un guaio. Andreotti non tramonta. Andreotti non perdona. Andreotti non dimentica”. Le vignette di Forattini lo ritraggono con la coppola da mafioso. Nell’ ’86 mette il veto alla nascita dell’esecutivo guidato da Andreotti. Dichiara a De Mita: “guarda ci tengo a comunicarti che noi siamo contro la candidatura di Andreotti. Se tu la avanzerai, noi ci spareremo sopra a palle incatenate”. Nasce così il secondo governo Craxi.
Ma è Berlusconi l’arcinemico per eccellenza, il Mekir di brechtiana memoria, una “simpatica canaglia”. In realtà i due sono più simili di quanto possa sembrare di primo acchito: sono entrambi uomini dal fascino irresistibile, dotati di grande carisma. Affetti tutti e due da uno smisurato narcisismo e da un’irrefrenabile egolatria, maschilisti impenitenti: è noto che Scalfari fosse bigamo ed abbia avuto relazioni con due donne nello stesso momento. Sono scaltri, spregiudicati e hanno un’eccezionale fiuto per gli affari: la carta stampata e i quotidiani sono il business di uno, le televisioni e il mattone dell’altro. Ambedue hanno avuto rapporti di affari e simpatia per uomini loschi (Sindona e Calvi per Scalfari, nonostante abbia poi smentito sdegnato queste frequentazioni, dell’Utri e Mangano per Berlusconi).
Il giovane Scalfari che allieta le serate milanesi, che ama le canzoni napoletane, che impazzisce per il ballo “e appena sente un ritmo, si dimena come un giamaicano” (cit Perna) non è dissimile dal Berlusconi che canta sulle navi da crociera. Scalfari e Berlusconi – insieme a de Benedetti, Caracciolo, Luca Formenton saranno i protagonisti della guerra di Segrate per il controllo della Mondadori, descritta mirabilmente da Piero Ottone nel “La guerra della Rosa”. Grazie all’intermediazione di Ciarrapico, tramite l’odiato Andreotti, si arriva al cosiddetto Lodo Mondadori e alla spartizione ex ante: libri e periodici come Panorama in capo a Berlusconi, il Gruppo Espresso-Repubblica a De benedetti.
Nel mentre la Mondadori passa sotto l’egida di Berlusconi, Scalfari minaccia di andarsene e fare un altro giornale portandosi via tutti i suoi giornalisti. Farà clamore scoprire anni dopo che Berlusconi e Scalfari trascorrevano le serate a casa di Gianni Letta alternandosi al piano, mentre di giorno il grande giornalista sparava a salve contro il reprobo, accusato di ogni nefandezza; senza dimenticare che, al di là della tracotanza di CDB dimostrata nell’occasione, l’ascesa di Berlusconi in Mondadori era dovuta in realtà alla corruzione di un giudice prezzolato.
Scalfari esce logorato dalla guerra di Segrate. Nel ’96, dopo 20 anni, lascia a Ezio Mauro la direzione del giornale, che ormai si contende a fasi alterne con il Corriere della Sera la primazia di giornale più venduto. Gli avrebbe preferito Paolo Mieli, anche per indebolire il Corriere della Sera, oppure Bernardo Valli, inviato di politica estera. Nel celebrarne i 20 anni, Scalfari sostiene che è riuscito nell’obiettivo di cambiare la struttura e il linguaggio del giornalismo italiano ma ha fallito nel contribuire alla trasformazione della politica.
Nel discorso di commiato alla redazione cita Shakespeare (“vi lascio il rosmarino per i ricordi e le viole per i pensieri”). Seguiterà a pubblicare i suoi lunghissimi editoriali domenicali per commentare gli avvenimenti e imbeccare i politici a lui vicini. Gli ultimi anni sono dedicati alla stesura di libri filosofici, in una ricerca intimista che trascolora in riflessioni sul senso della vita, l’etica, il potere (tra gli altri, i volumi più interessanti sono: la ruga sulla fronte, l’uomo che non credeva in Dio, scuote l’anima mia Eros, per l’alto mare aperto).
Il resto è cronaca recente: le delusioni politiche (si definisce straniero in patria in contrapposizione all’Italia alle vongole berlusconiana secondo la celebre definizione di Vittorio Calegariis attribuita erroneamente a Pannunzio), le conversazioni con il cardinale Martini, le interviste a Bergoglio (con il giornalista, ateo convinto, ormai ultra novantenne, che mette in bocca al Papa asserzioni al limite della blasfemia); interviste che prima vengono smentite e censurate dalla Santa Sede ma poi ripubblicate tali e quali in quello che appare come un gioco delle parti.
Eugenio Scalfari ha dettato la linea (secondo i suoi desiderata) alla sinistra, condizionato la politica nazionale con un’influenza senza eguali, segnato, nel bene o nel male, la storia, i costumi, il modo di fare giornalismo del secolo scorso. Anche chi non lo amato, anzi lo ha detestato, non può non rendergliene atto.
1 comment
grazie
ps: gli riserva
pps: sente sede