“Ma perché votare sì?”
Perché la riforma risolve due problemi, il primo è che spesso abbiamo un Senato con maggioranze diverse dalla Camera ma che fa le stesse cose (incluso dare la fiducia al Governo) costringendo ad accordi al ribasso e con partiti improbabili, oltre a determinare lungaggini nel fare le leggi che vengono superate solo abusando della decretazione d’urgenza e della questione di fiducia. Queste sì, vere pistole puntate e mortificazioni del Parlamento, visto che col decreto si fa entrare subito in vigore la legge e il Parlamento può modificarla o cassarla solo in seguito, oppure con la fiducia il Governo dice al Parlamento “o votate così, o rischiate di andare tutti a casa”. E’ per questo che certe leggi sono state approvate in poco tempo, mentre altre ci mettono molto di più.
La riforma rende più difficile il ricorso ai decreti perché dovranno avere soltanto una tematica, si rende meno necessario il ricorso alla fiducia perché l’Italicum porta a maggioranze più chiare ed omogenee, mentre si rende più facile il ricorso alla procedura normale per fare le leggi, dato che invece di passare continuamente dalla Camera al Senato e ritorno, dovranno passare solo alla Camera, tolte alcune eccezioni minoritarie e motivate. Sulla grande maggioranza delle leggi il Senato potrà solo proporre modifiche in tempi certi, non potrà ostacolare in alcun modo il lavoro della Camera (neanche con l’ostruzionismo, vista la possibilità di utilizzare emendamenti “canguro”) e non darà la fiducia o sfiducia al Governo.
L’unico aspetto dove in apparenza aumentano i poteri del Governo è quello delle “leggi a data certa”, ovvero proposte di legge che il Governo ritiene fondamentali per realizzare il suo programma e che può chiedere di votare entro 70 giorni. Ora, a parte il beneficio di poter realizzare in tempi ragionevoli i programmi della maggioranza votata dagli italiani, già adesso il Governo può fare lo stesso usando i già citati decreti legge, che devono essere votati in 60 giorni. Con lo strumento della data certa non sarà più costretto a ricorrere al decreto, che come detto prima comporta “l’abominio” di far entrare in vigore la legge ancor prima che il Parlamento la voti. Quindi un miglioramento rispetto alla situazione attuale.
Il secondo problema (perché se ci fermassimo al primo, basterebbe abolire il Senato) è che Stato centrale ed enti locali hanno sempre “litigato” su chi deve fare cosa. Non basta fare una lista che distribuisce le competenze a questo o a quello, perché poi sorgono sempre controversie sull’interpretazione di queste liste. La filosofia adottata da molte democrazie avanzate (sia pur con delle differenze tra un caso e l’altro) è quella di dare agli enti locali un’arena, un luogo di rappresentanza dove poter decidere insieme allo Stato centrale i ruoli di ciascuno, risolvendo lì le eventuali controversie. Non si eliminano tutti i conflitti, ma sicuramente si riducono. Questo è il nuovo Senato che infatti sarà espressione delle Regioni, come lo è in efferatissime dittature quali Austria, Olanda, Germania, Belgio, Francia e Spagna, dove talvolta ha più poteri rispetto al nuovo Senato italiano, ma ha sempre la funzione di raccordo fra Stato centrale ed enti locali, per decidere insieme chi deve fare cosa.
Vista la funzione che avrà, è del tutto naturale che l’elezione dei suoi membri debba passare dai consigli regionali, se venisse eletto come la Camera ne sarebbe un doppione e perderebbe la sua funzione di voce degli enti locali. Molti fanno l’errore di pensare al nuovo Senato come se fosse il vecchio e si indignano perché non potranno eleggerlo come prima, ma bisogna capire che il nuovo Senato sarà molto diverso e molto meno importante dell’attuale. E sarà composto da gente che votiamo noi, perchè Sindaci e Consiglieri Regionali (95 dei 100 Senatori) sono eletti direttamente dai cittadini e scelti da un consiglio regionale che votiamo sempre noi, inoltre la legge elettorale del Senato dovrà prevedere un’indicazione dei cittadini su chi vogliono che vada a fare il Senatore.
Anche in questo sito si sono messe in rilievo le differenze rispetto al sistema tedesco, che consistono principalmente nel fatto che in Germania i loro senatori sono diretta espressione dei governi regionali (quindi solo dei partiti al governo in ciascuna regione), mentre in Italia sarebbero eletti dai consigli regionali, dando spazio anche alle opposizioni. Ma ci immaginiamo che putiferio si sarebbe scatenato se si fosse adottato in toto il modello tedesco? Già adesso si grida alla dittatura, figuriamoci con un sistema del genere! Quello italiano è un compromesso, simile al sistema austriaco ma non altrettanto inutile, perché l’Austria è un Paese molto più piccolo ed omogeneo del nostro, può benissimo essere una democrazia monocamerale come la Svezia o il Portogallo, non ha i conflitti regionali che abbiamo noi.
Alla luce di tutto questo si può ben capire che il “doppio lavoro” dei senatori ed il loro turn over non sarà affatto un problema, essendoci in tutta Europa. Anche perché molti di quei sindaci e consiglieri regionali che andranno a Roma per fare i senatori, ci vanno già per partecipare alla conferenza Stato-Regioni e Stato-Città, che oggi hanno le stesse funzioni del nuovo Senato, ma solo soltanto consultive. Non è vero quindi che “faranno cose per cui non li abbiamo votati”, ma invece si occuperanno di cose che trattano già.
Questo gridare al regime, alla svolta autoritaria, alla dittatura, è però una costante della campagna del no, che tuttavia si contraddice. A sentir loro questa riforma è allo stesso tempo confusa e dittatoriale, porta contemporaneamente caos ed autoritarismo, un paradosso astrofisico mai visto prima.
Una critica ripetuta allo sfinimento contro il nuovo Senato è che i suoi membri godranno di una certa immunità parlamentare. Immunità che però c’era anche prima, il che significa che se prima c’erano 315 immunità, 315 posti a disposizione dei partiti per infilarci i loro amici, adesso col nuovo Senato ne hanno solo 100, ci sono 215 immunità in meno, la riforma è migliorativa anche su questo. Ma a parte ciò, ricordiamoci che quando la democrazia è in pericolo, è fragile, la prima cosa che i movimenti democratici chiedono è proprio l’immunità parlamentare, per difendere i parlamentari di opposizione dalle persecuzioni giudiziarie ordite dal governo.
Se il fronte del no invece si scaglia contro l’immunità parlamentare, sono loro stessi a dirci che in Italia la democrazia non è affatto in pericolo, altrimenti sarebbero i primi a chiederla e a volerla ampliare.
Ad ogni modo, il tema dell’accentramento dei poteri sul governo e sullo Stato centrale (parente stretto del grido “Dittatura! Dittatura!”) è altrettanto presente ed è visto come uno strumento per consegnarci a lobby e poteri forti, promuovendo pessime riforme. Ma il Senato di oggi è davvero questo tempio della buona politica che ci protegge dalle minacce dei vari potentati? E perché il Governo centrale dovrebbe fare solo leggi negative?
Se gli italiani votano altri partiti, con la riforma questi potranno realizzare più facilmente anche i loro programmi, facendo cose opposte e magari migliori di Renzi.
Perché vedono sempre e comunque l’azione del governo in modo negativo?
Come quelli che dicono “la riforma non serve perché non ci servono più leggi, sono già troppe”.
Ma con la riforma non diventa più semplice solo fare nuove leggi, ma anche abrogare le vecchie.
Sta a chi votiamo noi decidere cosa fare.
Allora perché guardano solo l’eventualità negativa?
Questa gente non ragiona nell’ottica del “andiamo al governo per realizzare nostre idee”, ma ragiona nell’ottica del “rendiamo difficile governare, così sabotiamo i governi degli altri”.
La logica dei “no tutto” e dei tanti partitini che sapendo che non andranno mai al governo, o che se ci vanno contano poco, lo vogliono ostacolare.
Vogliamo lasciargli questo potere? Sarebbe un ritorno al vecchio, alla prima o alla seconda repubblica, con grandi coalizioni di governo che combinavano poco e mantenevano il consenso distribuendo una ciotola di riso a tutti, il cui costo veniva scaricato sulle generazioni future (cioè noi) tramite il debito.
Faccio fatica anche a comprendere le critiche ai poteri che passano dalle Regioni allo Stato, soprattutto se vengono da chi dice peste e corna della “casta corrotta dei consigli regionali” quando c’è da criticare il nuovo Senato, per poi improvvisarsi difensore delle Regioni quando gli vengono tolte delle competenze. La riforma in realtà sta solo dando compimento alle numerose sentenze della Corte Costituzionale che, in occasione dei conflitti tra Stato e Regioni di cui si è già parlato, ha assegnato sempre più competenze allo Stato centrale. Il bello è che queste sentenze sono state emesse proprio quando ne facevano parte gli attuali guru del fronte del no, i Zagrebelsky, i Maddalena e via dicendo. Allora dov’erano tutti questi difensori del regionalismo?
Mi permetto di interloquire, se posso, anche con una persona che stimo come Michele Boldrin, che pur criticando giustamente l’attuale assetto sugli enti locali, emette un giudizio severo anche su questa riforma, invocando uno schema dove le Regioni possono sì gestire vari servizi, ma devono finanziarseli con una propria raccolta fiscale. Ora, a parte la difficoltà pratica di realizzare tutto questo nell’Italia di oggi, questa non può essere una formula universale, si prendano le varie forme di regolazione che oggi sono in capo alle Regioni: Qui la raccolta fiscale o la responsabilizzazione degli amministratori non c’entrano, oggi succede che un lavoratore o un’impresa che vogliamo spostarsi da una Regione all’altra devono ogni volta fare i conti con una burocrazia diversa, formazione professionale diversa, regolamenti diversi, sanità diverse e via dicendo. E’ un grosso ostacolo alla mobilità e alla libertà, in una società fluida e globalizzata come quella di oggi, si rendono necessarie regole comuni a livello nazionale ed internazionale, cosa che la riforma finalmente realizza e sulla quale, fino a pochi mesi fa, erano d’accordo quasi tutti.
Sempre rompendo le scatole a Boldrin, trovo discutibile anche la sua critica al combinato disposto della riforma e dell’Italicum, perché a suo dire porterebbe ad un bipartitismo ormai desueto, visto lo sfilacciarsi delle vecchie ideologie. Io la penso diversamente, quello che vedo è un bipartitismo che cambia, ma non sparisce affatto. La contrapposizione del ‘900 è stata tra favorevoli e contrarti al capitalismo, con varie vie di mezzo, mentre quella di oggi sembra essere tra favorevoli e contrari alla globalizzazione. Il bipolarismo cambia pelle ma resta in piedi, pertanto resta la necessità di fare quello che un po’ tutti dicono da anni sull’assetto dei partiti e del Governo:
E’ da quando sono bambino che sento dire (soprattutto da destra, ma molto anche a sinistra) che governare è difficilissimo, che sei in balia di mille cose ecc ecc… e quindi bisogna aumentare i poteri del Governo. Basti pensare che il Presidente del Consiglio non può nemmeno mandar via i ministri con cui non va d’accordo. Adesso improvvisamente uno stuolo di gente ha cambiato idea, anche quelli che volevano a tutti i costi il presidenzialismo.
Pure i discorsi sull’Italicum mi rimandano all’infanzia, è da allora che sento dire che in Italia ci sono troppi partitini e ne basterebbero due o tre grandi, che ci sono coalizioni troppo vaste e litigiose, ecc ecc.., adesso invece quei partitini e quelle coalizioni sono diventati il sale della democrazia, per qualcuno che vota no.
La riforma costituzionale oltretutto non aumenta di una virgola i poteri del Governo ma lo rende solo più stabile e l’Italicum rafforza solo il partito che vince le elezioni, dandogli la possibilità di governare da solo. Eccolo il famigerato “combinato disposto”, una maggioranza che potrà realizzare più facilmente i programmi per cui è stata votata, ma comunque una comunità di persone e non un organismo monolitico come il Governo, che potrà esser mandato a casa e sostituito in qualsiasi momento, se la maggioranza lo vuole. Rimaniamo sempre una Repubblica parlamentare.
Così come rimane in piedi tutto il sistema delle garanzie, la Corte Costituzionale migliora perché dei cinque (su quindici) giudici eletti dal Parlamento, tre saranno eletti dalla Camera e due dal Senato degli enti locali, il che servirà a dargli rappresentanza presso la Corte, visto che quest’organismo si trova a decidere anche del destino degli enti locali stessi.
Per il Presidente della Repubblica addirittura si alzano i quorum per l’elezione, costringendo la maggioranza a coinvolgere anche l’opposizione: Per i primi tre scrutini servono i due terzi degli elettori (come adesso), per i successivi tre serve il 60% (mentre adesso è il 50%), poi serve il 60% dei votanti, ma è chiaro che se le opposizioni presenziano in massa il quorum si abbassa di poco rispetto alle votazioni precedenti. Insomma, gli organi di garanzia, i famosi pesi e contrappesi, migliorano soltanto, contrariamente alle tante bufale che si sentono.
E la si smetta anche con questa invenzione della riforma confusa e scritta male, se la si legge tutta tenendo a mente queste cose si vedrà invece come invece sia lineare, logica e dettagliata. La polemica riguarda in particolare la scrittura e la lunghezza dell’art. 70, ma è chiaro che debba diventare più lungo, per dire che Camera e Senato fanno le stesse cose basta una frase, se invece i compiti sono diversi vanno specificati. Basta leggere questo articolo 70 per vedere che il problema non sono le parole o i concetti, ma i vari rimandi ad altri articoli. Ma allora il testo deve essere corto o deve essere chiaro?
Perché per renderlo ancora più chiaro, scrivendo per esteso i vari punti senza fare rimandi ad altri articoli, sarebbe diventato molto, molto più lungo. Se guardiamo alla parte analoga della Costituzione tedesca, lì il testo è ancora più lungo, ma basta guardare anche agli articoli della Costituzione attuale (si pensi al 117), e chiedersi se sono davvero tutti corti, chiari e lineari. Posso dire, per quella che è la mia esperienza personale, che dopo aver letto per intero il testo della riforma, sapendo le ragioni che la sottendono, l’iniziale sensazione di smarrimento e di confusione lascia spazio ad un senso di completezza, di logica, di “cerchio che si chiude”.
Un’ultima considerazione sul tema dei tagli ai costi della politica (abolizione di CNEL e Province, taglio dei senatori che per giunta saranno senza stipendi, tagli ai gruppi politici regionali, ecc…), perché molti dicono “votiamo no, poi facciamo una riforma solo su questo tema”. Guardate che in 70 anni queste cose sono state chieste a furor di popolo, ma non si è mai approvata una riforma che tagliasse i costi della politica, punto e basta. Questo perché la classe politica non ha alcun interesse a togliersi “a gratis” delle fonti di prebende così importanti.
Dove li troviamo questi tagli ai costi della politica? Soltanto dentro le grandi riforme, come questa o come quella del centro-destra di 10 anni fa. Come mai? Perché la grande riforma deve essere sottoposta ad un referendum, ad una battaglia politica accesa, pertanto ha bisogno di raccogliere un certo consenso popolare. E’ per raccogliere quel consenso che il ceto politico è disposto a fare delle rinunce, che altrimenti non vedremo mai. Chi è sensibile a questo tema se lo metta bene in testa, questi tagli possiamo vederli solo dentro ad una grande riforma, come questa.
Allora l’Italia deve cambiare, deve fare le riforme, il sistema pensato 70 anni fa per evitare il ritorno della dittatura, volutamente lento e farraginoso per impedire “colpi di mano”, andava bene in passato ma non al giorno d’oggi. Non può passare il concetto che ad ogni tentativo di riforma si grida alla dittatura e si forma l’armata brancaleone che va dall’estrema sinistra all’estrema destra, dai giovani urlatori ai vecchi parrucconi della politica, col risultato di fare casino per non cambiare nulla.
E soprattutto, non si possono resuscitare e rimettere in sella vecchi cialtroni della politica e del sindacato, perché c’è anche tanta “casta” per il no, che lo cavalca per proprio tornaconto. Questo è un treno che passa, si riescono a fare le riforme costituzionali circa una volta ogni dieci anni ed il Paese non può aspettare ancora. Io voto SI, voglio cambiare le cose a Roma.