Esteri

Unioni e divorzi: il turno della Scozia (Parte 1)

La recente dimensione internazionale del Regno Unito ha dato origine a due vicende inedite, e probabilmente anche impreviste, nella storia dell’integrazione europea: da un lato, c’è un Paese – il Regno Unito – che con voto popolare ha deciso di voler cessare di essere uno Stato membro dell’Unione europea (Ue); dall’altro, c’è una parte di questo Paese – la Scozia – che, con una svolta indipendentista, potrebbe diventare la prima entità politica a succedere come membro dell’Ue al Paese di cui attualmente fa parte. In Scozia in effetti la maggioranza della popolazione pare rigettare la direzione presa dalla Gran Bretagna con il referendum di giugno, e il governo scozzese non ha nascosto l’idea di andare controcorrente anche a costo di staccarsi dall’Unione britannica.

Va ricordato che nel settembre 2014 in Scozia si tenne già uno storico referendum sull’indipendenza e il 55% dei votanti si dimostrò contrario. Sulla base di questo esito, euroscettici e conservatori unionisti scozzesi, nonché il governo britannico, suggeriscono che indire un altro referendum sullo stesso tema a distanza di due anni sarebbe una mossa inutilmente divisionista. Il referendum su Brexit potrebbe non aver avuto un’influenza sufficiente a cambiare gli equilibri; in effetti il cittadino scozzese si trova di fronte non ad una, ma a due out-out intrecciati, e la posizione degli scozzesi europeisti (la maggioranza, almeno stando al voto su Brexit) è potenzialmente la più complessa, perché essi si troverebbero a dover scegliere tra stare in Europa e stare dentro la Gran Bretagna.

I dati mostrano uno spettro elettorale assai spezzettato da questo punto di vista. Una buona fetta di coloro che hanno votato pro-Brexit sono favorevoli a una Scozia indipendente, e, soprattutto, parecchi di coloro che hanno votato “remain” non opterebbero per salutare il Regno Unito. Alla luce di tutto questo i sondaggi suggeriscono che in Scozia la maggioranza, seppur per un margine minimo, si posizionerebbe contro un nuovo referendum sull’indipendenza; se ciò rispecchia la realtà, Nicola Sturgeon – Primo Ministro scozzese e leader di SNP, il Partito Nazionale Scozzese – disporrebbe di un supporto popolare anche inferiore a quello, di origine referendaria, di cui dispone il governo May riguardo a Brexit. In altre parole, se si è stati pronti a dire che l’esito di giugno ha scontentato quasi metà dei britannici, decidere per un nuovo referendum sull’indipendenza scontenterebbe forse, al momento, oltre metà degli scozzesi. In Parlamento il fronte pro-indipendenza dispone invece di una maggioranza molto sottile e dipendente dalla “lealtà” dei Verdi, a fronte di una posizione contraria tenuta dal Partito Laburista, dai liberaldemocratici e soprattutto dai Tories.

Il diritto britannico complica il quadro per gli indipendentisti, anche se probabilmente non lo fa in modo decisivo. Come successo nel 2014, il Parlamento scozzese ha bisogno di un “trasferimento di potere” da parte del Parlamento britannico per poter iniziare il percorso referendario, dato che si andrebbe a votare su una materia – l’appartenenza della Scozia al Regno – su cui l’assemblea regionale non ha competenza legislativa. D’altro canto, in base allo Scotland Act del 1998, il Parlamento centrale non è certo obbligato ad autorizzare tale trasferimento di potere. E’ evidente che la scelta è tutta politica, e quindi va basata su un bilancio costi-benefici per Londra. Se da un lato rifiutare di autorizzare la delega rappresenterebbe un intralcio pressoché insuperabile per il governo scozzese, dall’altro comporterebbe il rischio di acuire le frizioni tra Londra e il nutritissimo fronte indipendentista scozzese.

E’ per questo che le divergenze tra Edimburgo e Londra, più che sulla scelta in sé di indire un nuovo referendum, si concentrano soprattutto sul “quando”. Nel dibattito appare non negoziabile la volontà di Theresa May di parlare di referendum solo in una data successiva alla formalizzazione del recesso del Regno Unito dall’Unione europea; questa posizione ha senso anche prescindendo dall’ottica di un governo che vuole più di ogni altra cosa evitare che il Paese, inserito in una dinamica di isolamento dal blocco comunitario, si frammenti anche al proprio interno: solo dopo la Brexit ufficiale gli scozzesi potranno votare con la piena consapevolezza di quali rapporti legheranno la Gran Bretagna all’Unione europea. L’accordo tra Londra e Bruxelles potrebbe alla fine rivelarsi complessivamente vantaggioso per quelle che sono le esigenze di una Scozia europeista; è però vero che il governo britannico è indirizzato su una linea negoziale compatibile con una hard Brexit, e che difficilmente l’accordo finale, se mai ci sarà (va ricordato che a norma dell’art. 50 TUE il recesso può formalizzarsi anche senza accordo dopo due anni), prevederà un regime paragonabile all’attuale status del Regno Unito nell’Unione; ciò a meno che a Bruxelles si accetti la pericolosa ipotesi di concedere a un Paese uscente privilegi simili a chi rimane membro effettivo con diritti e obblighi.

Richiedendo di fissare il referendum prima della conclusione del negoziato tra Londra e Bruxelles, Sturgeon dimostra di non riporre alcuna fiducia nell’eventualità che i nuovi rapporti tra Regno Unito ed Unione europea possano in qualche modo soddisfare la maggioranza scozzese post-Brexit, e intende dare una connotazione fortemente autonomista ai due terzi di scozzesi che hanno votato “remain” a giugno 2016. Theresa May, invece, espressione di un sentire conservatore e dal sapore imperialista geloso dell’unità del Regno, cerca invece di tenere insieme i pezzi di una compagine che non si è dimostrata veramente compatta nella volontà di tornare a un passato sovranista; consapevole anche del fatto che perdere la Scozia significherebbe perdere potere negoziale vis-à-vis Bruxelles.

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