Esistono luoghi in Europa che ancora adesso vengono ricordati come teatri di guerra o di battaglie particolarmente cruenti e sanguinose: pensiamo a Ypres, la cittadina belga che nel 1915, durante la prima guerra mondiale, sperimentò per prima un attacco con gas nervino da parte delle truppe del Kaiser Guglielmo; oppure Guernica cittadina spagnola che nel 1938, durante la guerra civile, subì un massiccio bombardamento da parte della Luftwaffe; oppure in Italia abbiamo i casi di Boves, Marzabotto e Sant’Anna di Stazzema a rappresengtare quei comuni italiani, questi ultimi due sull’appenino tosco-emiliano, dove furono compiute le terribili stragi nazi-fasciste.
Nel 1991 la Jugoslavia aveva iniziato a frantumarsi dando via a quella che poi sarebbe stata una sanguinosa guerra civile che non ha risparmiato un centimetro di terra: ad eccezione della Slovenia che ha ottenuto l’indipendenza in modo pacifico, negli altri territori della ex-Jugoslavia iniziarono scontri su base etnica che videro i loro apici di violenza in Croazia negli scontri tra serbi e croati e soprattutto in Bosnia-Erzegovina.
L’assedio di Sarajevo iniziato il 5 aprile 1992 a seguito della dichiarazione d’indipendenza bosniaca ha di fatto dato il via agli scontri anche in Bosnia: la Bosnia-Erzegovina era la più multietnica tra le ex repubbliche jugoslave, abitata da 3 principali etnie: la più numerosa che erano i bosgnacchi ossia bosniaci di religione mussulmana, i croati di fede cattolica e i serbi di fede ortodossa.
Proprio durante la guerra in Bosnia i combattimenti furono molto duri: le famigerate tigri di Arkan, reclutate tra le carceri belgradesi e la curva del Marakana di Belgrado (stadio di casa della Stella Rossa) si macchiarono di crimini sui civili croati e bosgnacchi.
Ad affiancare le milizie armate ci fu anche l’esercito serbo-bosniaco guidato dal generale Ratko Mladić ,mentre il capo politico della Repubblika Srpska era Radovan Karadžić.
Come già accennato, durante la prima fase della guerra gli scontri furono tra croato-bosniaci e bosgnacchi, che combatterono a Mostar città celebre per il famoso stari most che venne distrutto durante la guerra e che venne il simbolo di quella che fu in quel momento la guerra in Bosnia: il ponte infatti collegava la parte croata della città con quella mussulmana.
Tuttavia l’episodio più grave accaduto durante la guerra in Bosnia avvenne l’11 luglio 1995 nella località di Srebrenica, cittadina che sarà per sempre ricordata per questo massacro riconosciuto poi dal tribunale dell’Aja per la ex-Jugoslavia come la messa in atto di un vero e proprio genocidio.
La risoluzione ONU numero 819 del 1993 aveva stabilito che Srebrenica doveva essere una “zona protetta” nella quale la popolazione civile (a prevalenza mussulmana) poteva ricevere assistenza umanitaria da parte dei caschi blu che erano a difesa della cittadinanza: dato che ormai i villaggi vicini erano stati tutti conquistati dall’esercito serbo-bosniaco diversi cittadini bosgnacchi trovarono rifugio nella città, sorvegliata da 600 caschi blu olandesi. La città fu messa sotto assedio da parte delle truppe di Mladić che iniziarono l’attacco il 9 luglio 1995.
I caschi blu olandesi assistettero impotenti all’inizio delle deportazioni da parte dei serbo-bosniaci che chiesero di prelevare la popolazione locale ufficialmente con lo scopo di interrogarla ma in realtà l’intento era quello di assassinarla: le donne furono separate dagli uomini, le violenze sessuali furono innumerevoli, tutta la popolazione maschile in età compresa tra i 12 e 77 anni venne passata per le armi e successivamente sepolte in fosse comuni ritrovate nei mesi e negli anni successivi al conflitto.
Alla fine si stima che a Srebrenica siano stati uccisi 8.432 civili, il numero più alto dopo la fine della seconda guerra mondiale, consegnando alla storia questa piccola cittadina com’è accaduto alle altre richiamate a inizio articolo.
Gli accordi di Dayton siglati alla fine del 1995 hanno dato alla Bosnia-Erzegovina un nuovo assetto istituzionale e politico ma non hanno lenito le ferite che questo massacro si porta dietro.
Il 15 aprile 2010 il tribunale internazionale dell’Aja per i crimini commessi nella ex-Jugoslavia ha sentenziato che a Srebrenica è stato commesso un genocidio.
Dopo anni di latitanza, protetti anche dai politici locali, Karadžić e Mladić sono stati condannati arrestati e condotti in tribunale dove poi sono stati condannati all’ergastolo, nel 2019 Karadžić e nel 2021 Mladić, ponendo così la parola fine, almeno dal punto di vista giuridico, a questa triste vicenda.
Tuttavia più difficile è stato il percorso ONU per poter condannare il fatto come genocidio: una proposta del 2015 venne bocciata dal veto della Federazione russa che bollò la risoluzione ONU come “divisiva e che non favoriva un processo di pace”. C’è da notare che la Serbia e la Russia sono due nazioni da sempre alleate e ancora oggi in Serbia si sono verificate manifestazioni di sostegno all’invasione dell’Ucraina: ancora nel marzo di quest’anno i tifosi della Stella Rossa, storico club calcistico belgradese, hanno esposto uno striscione ricordando le guerre che sarebbero state commesse dall’Occidente dimenticando accuratamente alcuni passaggi.
Un tema ricorrente è proprio quello del negazionismo presente in Serbia sul genocidio: il presidente della Repubblica Srpska, Milorad Dodik ha più volte affermato che il numero dei morti a Srebrenica è stato sovrastimato e che i morti sarebbero al massimo 2.000 e comunque compresi soprattutto tra i militari e non tra i civili: lo stesso sindaco di Srebrenica Mladen Grujčić ha più volte negato il genocidio definendolo un “falso storico”. Dichiarazioni simili sono arrivate anche da politici di Belgrado: il ministro degli interni serbo Aleksandar Vulin ha affermato la necessità di “riunire i serbi sotto un unico stato” parole che hanno messo in allarme l’ambasciata statunitense in Serbia in quanto queste affermazioni violerebbero gli accordi di Dayton del 1995. Secondo quanto riportato dal quotidiano eastJournal sono diversi gli ex combattenti serbi in Bosnia, responsabili di crimini che siedono tra i banchi del parlamento di Belgrado: sempre secondo la testata eastJournal domenica 11 luglio 2022 nessun parlamentare serbo ha condannato l’evento.
Anche tra la società civile serba prevale l’idea che questa tragedia sia stata sovrastimata e questo non dovrebbe sorprendere in un paese dominato da un estremo nazionalismo: il tema è stato toccato anche da sportivi serbi molto popolari che hanno preso una posizione analoga ai loro politici su questa vicenda: nel 2010 il celebre calciatore Mihajlović, che non ha mai rinnegato la sua amicizia con il criminale di guerra Arkan, affermò che Mladić era “un grande guerriero che combatteva per il suo popolo” mentre a settembre 2021 il tennista Novak Djoković è stato fotografato a un evento pubblico assieme a Milan Jolović, comandante dei “lupi della Drina”, una delle unità paramilitari serbe che combatterono in Bosnia e che si macchiarono di crimini. Condannato dal tribunale dell’Aja in Serbia viene definito “leggenda” dai suoi connazionali.
Ma perché nella società serba vi è questa forte componente negazionista della strage? Per un comune senso di vergogna? Assolutamente no, in Serbia molti dei personaggi condannati all’Aja sono visti come eroi nazionali che hanno combattuto per la libertà del popolo serbo, mentre forze esterne si sarebbero “messe in mezzo” per impedirgli di realizzarsi e di realizzare il sogno della “Grande Serbia” ovvero riunire tutti i serbi sotto un’unica bandiera. Le sentenze del tribunale dell’Aja sono state giudicate ”serbofobiche” come le condanne all’ergastolo dei responsabili del massacro di Srebrenica come Ratko Mladić e il capo politico della Repubblica Srpska Karadžić: quelle persone si sono battute, secondo loro, per la libertà del loro popolo.
Infine sempre secondo quanto riportato di east journal sono numerosi nel paese i murales dedicati proprio a questi due personaggi.
A sostenere la Serbia nel suo senso di vittimismo e di accerchiamento ci ha pensato la Russia che l’ha sempre sostenuta nello sfuggire alle sue responsabilità.
Proprio in occasione del massacro di Buča, cittadina alle porte di Kiev che presto si aggiungerà all’elenco delle cittadine europee ricordate per eventi bellici, scoperto ad aprile di quest’anno per bocca di Maria Zakharova l’odiosa portavoce di Lavrov l’ormai celebre ministro degli esteri russo Srebrenica è come Buča una “messa in scena”, mentre non sarebbero stati condannati con questa forza i bombardamenti su Belgrado del 1999 e altri crimini commessi ai danni dei serbi entrando così nel benaltrismo più bieco.
Proprio mentre stiamo rivivendo il dramma di una guerra in Europa, ricordare quanto è accaduto quel giorno a Srebrenica è veramente importante: ricordare non solo per rispetto a più di 8.000 morti, ma avere ben chiaro cosa è accaduto ci aiuta a far si che certi avvenimenti non accadano mai più, perché chiunque li neghi, prima o poi, sarà destinato a ripeterli. Il memoriale di Potočari è li a ricordarcelo.
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1 comment
eh sì…
ps:
“venne il simbolo” -> divenne
“sono stati condannati arrestati e condotti in tribunale dove poi sono stati condannati all’ergastolo”