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Siamo soli nell’universo? L’approfondimento – parte 2

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Dal paradosso di Fermi all’equazione di Drake, passando per il Grande Filtro… questa e molte altre ipotesi scientifiche per rispondere alle domande: esiste vita intelligente oltre la Terra? E se sì, dov’è?

Nella prima parte di questo approfondimento abbiamo tentato di introdurre, aldilà delle teorie del complotto sugli alieni, le keywords e alcune iniziali ipotesi ed evidenze emerse nella recente ricerca astrobiologica. Con questa seconda parte, è giunto il momento di passare in rassegna altre e più singolari ipotesi che hanno ricevuto un certo supporto empirico negli ultimi anni, per poi lanciare uno sguardo al futuro.

Risvolti deludenti?

A giugno 2018, i ricercatori del Future of Humanity Institute della Oxford University hanno pubblicato uno studio che fornisce nuovamente risultati poco consolanti. I tre autori sono partiti dall’impossibilità di ottenere un risultato certo da variabili sconosciute, risolvendo ripetutamente l’equazione con dati tratti da pubblicazioni scientifiche, casuali e differenti di volta in volta. Stando alla media degli esiti, la galassia potrebbe essere popolata da un centinaio di civiltà, ma l’equazione ha restituito il 30% delle volte lo stesso infelice risultato: zero. Il che è effettivamente coerente con il numero di contatti di massa che l’umanità ha avuto, almeno finora, con gli amici galattici, escludendo i presunti casi documentati dall’ufologia.

«La probabilità che su un pianeta si sviluppino vita e intelligenza ha un’estrema incertezza», ha riferito a Universe Today Anders Sandberg, professore di neuroscienze computazionali a Oxford. “Non possiamo escludere che quasi ovunque ci siano le giuste condizioni, ma nemmeno che sia un evento astronomicamente raro – e questo comporta una ancora più forte incertezza sul numero di civiltà, cosa che ci porta a concludere che ci sia un’elevata probabilità che siamo soli. Tuttavia dobbiamo anche concludere che non dovremmo essere troppo sorpresi se trovassimo l’intelligenza!». Sminuire il lavoro dei centri di ricerca specializzati è certamente l’ultimo dei desideri dello studio, continua Sandberg: «L’astrobiologia e il SETI (Search for Extra-Terrestrial Intelligence, nda) possono svolgere un ruolo determinante nel ridurre l’incertezza di alcuni parametri dell’equazione».

L’equazione di Drake spiegata

Secondo alcuni, sarebbe paradossale già che il valore di N dell’equazione di Drake (di cui abbiamo parlato nella prima parte di questo approfondimento) sia così elevato, e quindi che esistano numerose specie extraterrestri capaci di comunicare con noi (peraltro con i medesimi mezzi): se le civiltà tecnologiche nella nostra galassia sono rare, il fatto che non siano mai entrate in contatto con noi non è un dato sorprendente. Ma l’impossibilità di stabilire un contatto potrebbe fornire la prova che N è invero una variabile piuttosto trascurabile.

Premesso che il paradosso di Fermi tende a ridimensionare le stime troppo ottimistiche del valore di N, è in ogni caso impossibile che tale variabile si approssimi al valore nullo: l’esistenza della nostra specie impone de facto un limite inferiore per il modulo di N, che deve essere innegabilmente maggiore o uguale a 1, non legato necessariamente al principio antropico. «Le stime che vertono su ordini di grandezza di molto inferiori all’unità sono quindi da giudicare eccessivamente restrittive

Il primo che entra è l’ultimo ad uscire

È sempre del 2018, poi, una nota proposta avanzata dallo scienziato russo Alexander Berezin della National Research University of Electronic Technology: rinominato “First in, last out“, lo studio ipotizza che le civiltà che sviluppano la capacità di compiere viaggi interstellari tenderebbero, nei tentativi di espansione, a eliminare le altre senza che sussistano necessariamente intenzioni negative. «Una popolazione talmente evoluta da varcare i confini della propria stella potrebbe non accorgersi dell’esistenza di altre forme di vita, perché poco interessata a cercarle, nella sua corsa alla conquista» osserva Elisabetta Intini di Focus. «Non ci noterebbero, come una squadra di demolizione non si accorge di un formicaio mentre costruisce un condominio, perché nessuno li ha incentivati a proteggerlo» precisa poi l’autore dell’ipotesi.

Ma, badate bene, secondo Berezin noi non siamo quelle misere formiche, ma i futuri distruttori dei mondi di cui siamo attualmente alla ricerca, poiché potremmo essere tra i primi, se non proprio i primi, a ottenere le capacità necessarie e, conseguentemente, gli ultimi a sparire. Certo è che, in quest’ottica, potremmo non accorgerci delle altre civiltà proprio perché siamo noi quella più avanzata o, viceversa, se fossimo più avanti con la tecnologia e il progresso sociale, forse gli alieni ci noterebbero.

Cerchiamo nel posto sbagliato?

Se a rigor d’intuizione sembra impossibile che non esista altra vita fuori di noi, allora cosa stiamo sbagliando? Un team di scienziati provenienti da Inghilterra, Australia e Paesi Bassi ha condotto una ricerca (risalente al 2014) nell’ambito del programma Evolution and Assembly of Galaxies and their Environments (EAGLE Project) del Consorzio Virgo, pubblicandone i risultati sul Monthly Notices of the Royal Astronomical Society.

Se da un lato l’energia oscura si è rivelata un elemento cruciale, dall’altro i ricercatori, attraverso copiose simulazioni al computer, hanno avuto modo di appurare come le condizioni per la nascita della vita nell’Universo non siano limitate, ma più probabilmente la vita aliena sarebbe sorta in uno o più eventuali universi paralleli al nostro e fuori dal nostro. Motivo per cui è difficile, se non impossibile, entrarvi in contatto (aldilà della problematicità dell’ipotesi del multiverso).

L’impegno della NASA

«La vita complessa può evolvere in sistemi cognitivi in grado di impiegare la tecnologia in modi che possono essere osservabili. Nessuno conosce la probabilità, ma sappiamo che non è zero». È questo ciò che si legge nella documentazione strategica redatta nel 2015 dalla NASA, la quale ha poi rinnovato l’interesse verso la ricerca di eventuali segnali dallo spazio che diano nuove speranze all’impresa astrobiologica.

Detto fatto: mai sentito parlare del Technosignatures Workshop? Trattasi appunto di un workshop tenutosi a Houston fino al 28 settembre 2018, «finalizzato alla ricerca di tecnologie, investimenti e vie più promettenti per far avanzare quella che viene ormai definita come un’arteria della scienza a sé stante, che non ha ancora un suo nome ma può essere definita come la ricerca di vita extraterrestre» e teso a rintracciare le migliori soluzioni per quest’impresa, ad esempio tramite partnership con organizzazioni private e filantropiche. Le “Technosignatures” sono non soltanto i segnali radio, ma anche la presenza di strutture massicce su altri pianeti, sostanze inquinanti nell’atmosfera che indichino un’attività intelligente presente o passata, presenza di metano di origine biologica e altri marker simili.

Segnali dallo spazio

Non sarà una risposta al messaggio di Arecibo, di cui abbiamo parlato nella prima parte, ma piuttosto che niente, meglio piuttosto: il 14 febbraio 2020 i dati di una massiccia ricerca di emissioni radio cosmiche rilasciata il 14 febbraio dalla Breakthrough Listen Initiative, l’indagine più completa finora sulle emissioni radio dalla Via Lattea, con sede presso l’Università della California, Berkeley, hanno permesso agli astronomi di cercare firme tecnologiche di civiltà extraterrestri che potrebbero cercarci. La ricerca ideata dalla dottoranda della Penn State Sofia Sheikh si ispira alla fotometria di transito, una tecnica usata dagli astronomi terrestri per identificare e studiare gli esopianeti. La fotometria di transito si basa su apparecchiature sensibili come il telescopio spaziale Kepler della NASA per rilevare il calo infinitesimale nella luce di una stella mentre i pianeti orbitanti passano davanti alla stella dalla nostra linea di vista. In questa nuova ricerca di emissioni radio, gli astronomi hanno cercato emissioni radio da 20 stelle vicine che sono allineate con il piano dell’orbita terrestre in modo tale che una specie aliena intorno a quelle stelle potrebbe vedere la Terra passare davanti al Sole con un proprio telescopio.

Il team ha utilizzato il Green Bank Telescope in West Virginia per cercare segnali radio da potenziali esopianeti nella cosiddetta banda C, onde radio con una frequenza compresa tra 4 e 8 gigahertz. Sheikh ha guidato l’analisi dei dati e controllato miliardi di frequenze per segnali radio forti utilizzando uno dei più grandi ricevitori radio del mondo, il Green Bank Telescope. Pur non avendo trovato alcuna firma tecnologica della civiltà, l’analisi e altri studi dettagliati condotti dal gruppo Breakthrough Listen stanno gradualmente ponendo limiti alla posizione e alle capacità delle civiltà avanzate che potrebbero esistere nella nostra galassia.

In questa e in altre ricerche SETI, Breakthrough Listen cerca radiazioni elettromagnetiche coerenti con un segnale che sappiamo che la tecnologia produce o qualche segnale anticipato che la tecnologia potrebbe produrre, e che è incoerente con il rumore di fondo degli eventi astrofisici naturali. Ciò richiede anche l’eliminazione dei segnali da telefoni cellulari, satelliti, GPS, Internet, Wi-Fi e una miriade di altre fonti umane.

Un filtro ci preclude un contatto massivo?

Durante una pausa pranzo presso i laboratori di Los Alamos nel 1950, Enrico Fermi si ritrovò con alcuni colleghi a commentare una vignetta satirica apparsa sul The New Yorker che ritraeva alcuni alieni intenti a rubare dei bidoni dell’immondizia. La conversazione finì per vertere sulle probabilità matematiche dell’esistenza dei dischi volanti e Fermi concluse con ironia: «Dove sono tutti quanti?». Quattro anni dopo Fermi morì senza poter confermare di aver formulato effettivamente il paradosso che gli è attribuito, ma lasciando una immensa eredità per gli studi scientifici dedicati.

In generale, possiamo asserire che più la vita fosse comune nel cosmo, più ci sarebbe da preoccuparsi, perché, in assenza di segnali nei “nostri radar”, ci toccherebbe postulare un ostacolo teorico che impedisce il contatto con civiltà extraterrestri. Questo ostacolo è stato ribattezzato Grande Filtro, ma per capire di che si tratta bisogna prendere in esame la scala di Kardashev, una nota classificazione delle civiltà intelligenti:

  • Tipo I: ha l’abilità di sfruttare tutte le energie a disposizione sul pianeta che la ospita. Noi non siamo in questa classe, ma l’astronomo Carl Sagan, fondatore del SETI insieme a Frank Drake, ha elaborato una formula che ci porrebbe a un Tipo 0.7 di civilizzazione.
  • Tipo II: può sfruttare tutta l’energia della stella al centro del proprio sistema. Uno dei modi per farlo sarebbe la fantascientifica Sfera di Dyson, un’ipotetica struttura artificiale di “collettori solari” che, avvolgendo la stella come un guscio, sarebbe in grado di assorbirne l’energia e liberare quella in eccesso in forma infrarossa in una reazione esoergonica (cioè con rilascio energetico).
  • Tipo III: può sfruttare l’intera galassia, qualcosa di letteralmente inconcepibile per il nostro status attuale.

A un certo punto dello sviluppo di una civiltà, prima del raggiungimento del Tipo III, esiste una specie di barriera contro cui tutte le civiltà virtualmente si scontrano: una fase, nel corso del lungo processo evolutivo, che è impossibile o perlomeno molto difficile da superare. Nel 1998, l’economista statunitense Robin Hanson ha definito il Grande Filtro come un intralcio che inibisce lo sviluppo di civiltà extraterrestri durevoli nel tempo. In base a questa teoria, dunque, si profilano due possibilità per noi umani:

  1. La civiltà terrestre è una delle poche, se non l’unica, ad aver superato il Grande Filtro: ciò dimostrerebbe quanto sia raro per una specie raggiungere il nostro livello di intelligenza e spiegherebbe come mai non siamo a conoscenza di altre forme di vita intelligenti. In fondo le altre specie animali, pur avendo avuto lo stesso tempo per evolversi, non hanno acquistato certe prerogative umane, come la parola o l’intelligenza, potenziando altre capacità. «L’evoluzione agisce seguendo meccanismi molto complicati e non porta sistematicamente all’intelligenza. Lo stato in cui la nostra civiltà si trova adesso potrebbe essere ben più unico di quello che pensiamo, frutto di una serie di coincidenze infinita. La nostra rarità potrebbe essere legata al fatto che la Terra si trova in un sistema che è particolarmente adatto alla vita.»
  2. La civiltà terrestre non ha ancora superato il Grande Filtro: ciò significa che la vita potrebbe essere in grado di svilupparsi altrove come sulla Terra, ma non abbastanza da rendere il contatto con altri organismi scontato. L’eventuale scoperta della vita su altri pianeti, inoltre, renderebbe la vita nell’Universo una cosa piuttosto comune e aumenterebbe le probabilità di una nostra estinzione per mano del Grande Filtro. Insomma, citando il video di Kurzgesagt, «più la vita nel cosmo è complessa ed evoluta, più si alza la probabilità che il Grande Filtro sia proprio dinanzi a noi, trovare dei batteri sarebbe male [risultato, questo, ottenuto negli ultimi anni di ricerca esobiologica, nda], piccoli animali sarebbe peggio, vita intelligente sarebbe allarmante, le rovine di una civiltà extraterrestre sarebbe tremendo.»

Nascondino con gli alieni

Studi e congetture a parte, è veramente improbabile che la vita sulla Terra sia circostanziale e casuale e che noi siamo effettivamente gli unici nell’intero Universo. La stessa domanda mal cela una certa presunzione epistemica nel determinare la distribuzione biologica in un cosmo troppo vasto da studiare così accuratamente. La Via Lattea, per quanto ne sappiamo, accoglie dai 100 ai 400 miliardi di stelle. L’universo conosciuto ospita circa 2000 miliardi di galassie, contenenti dalle 100 alle 1000 miliardi di stelle ciascuna. Non tutte sono al centro di un sistema planetario, ma mediamente ognuna di esse reca 4 pianeti in orbita.

Ad oggi risultano scoperti più di 5000 esopianeti (nonostante si trovino dati discordanti su questo online, con un minimo accertato di 3500) in oltre 2792 sistemi stellari, di cui innumerevoli di tipo terrestre e almeno una cinquantina di questi nella fascia abitabile e con una composizione chimica favorevole alla vita. Le stime, inoltre, pronosticano trilioni e trilioni di esopianeti ancora indisturbati ma potenzialmente abitabili. Il testimone, adesso, passa alla pazienza e al lavoro instancabile della comunità scientifica.

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1 comment

dario greggio 18/09/2023 at 19:39

Io voglio crederci.

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