Il processo di separazione tra Unione europea e Gran Bretagna sta assumendo contorni sempre più torbidi, dopo che di recente si è prospettata una lunga attesa per l’attivazione della procedura ex art. 50 del Trattato. Il governo britannico non ha mancato di marcare la propria posizione, invero abbastanza discutibile, in merito al tema della difesa comune europea, affrontato il 16 settembre a Bratislava nel primo vertice del Consiglio a 27 membri invece che a 28.
Il Consiglio di Bratislava si è occupato delle principali aree in cui l’Europa si trova attualmente in crisi o in cattive acque – immigrazione, politica estera, politica economica. Non pare essersi caratterizzato per un vertice particolarmente innovativo o d’impatto; del resto non sarebbe stato astuto (purtroppo) scommettere su un esito più piccante, in primo luogo visto quanto è complicato raggiungere posizioni comuni sull’approfondimento dell’integrazione in un periodo in cui in alcuni Stati si paventano persino tendenze contrarie ai principi fondativi dell’Unione (ogni riferimento ad Austria e Polonia è tutt’altro che casuale); e in secondo luogo, dato che sono trascorsi solo tre mesi dal referendum su Brexit.
Si è trattato di un Consiglio di compattamento e – per quanto possibile – di discussione sulla “way ahead”. È necessariamente in questa cornice, colorata di aspettative moderate, che si inseriscono i due principali appelli a una maggiore integrazione in materia militare e di difesa, ossia il discorso del Presidente della Commissione Juncker a Strasburgo e la Road Map tracciata a Bratislava. Ora, varie indiscrezioni da commentatori e giornali affermano che nella mente della Commissione e almeno di alcuni Stati ci sarebbe l’idea di implementare un programma che conduca alla creazione di un esercito europeo tramite la “fusione” di forze armate nazionali. Il progetto è antico tanto quanto l’Unione, ma non ha mai conquistato molta popolarità nel corso degli anni. È qui che arrivano le dichiarazioni di Michael Fallon, Segretario per la Difesa britannico: egli ha promesso solennemente che il Regno Unito, fino alla sua uscita formale dal’Unione porrà il veto a qualsiasi progetto di difesa comune; fin tanto che i britannici saranno “membri a pieno titolo”, un esercito europeo non diverrà mai realtà.
Tuttavia, a ben esaminare il discorso di Juncker e la Road Map di Bratislava, non vi è traccia né implicita né esplicità di un piano simile. Juncker, che si è spinto a proporre linee di policy più approfondite, ha osservato che per meglio salvaguardare gli interessi europei sulla scena mondiale è tempo di delineare una strategia europea per la Siria, creare un quartier generale per le operazioni congiunte correnti e future, istituire un fondo europeo per aiutare l’industria europea della difesa, e soprattutto iniziare una “cooperazione permanente strutturata” tra Stati membri nel campo militare. La Road Map di Bratislava si limita a raccomandare, come ha fatto lo stesso Juncker, che ogni misura sia presa in complementarità con la NATO. Pare esserci dietro queste proposte un’ennesima intesa franco-tedesca per accelerare l’approfondimento comunitario in tema di difesa, dopo che numerosi e anche concreti suggerimenti da parte italiana sono rimasti per lo più lettera morta.
Ora, se c’è una cosa che si può rimproverare a questi proclami – soprattutto alla Road Map – è di essere troppo scarni; certo non sono inquietantemente (dal punto di vista britannico) mirati verso un’integrazione senza ritorno. Il concetto più importante tra quelli sopra riportati è la cooperazione strutturata permanente, che potrebbe a prima vista far pensare a un’integrazione militare. In realtà, Juncker e il Consiglio si sono mossi entro i limiti che il Trattato sull’Unione europea attualmente prevede agli artt. 42-46 e nell’annesso Protocollo: gli Stati che lo vogliono possono istituire una cooperazione rafforzata che implica rapporti privilegiati nella gestione di personale ed equipaggiamento per operazioni militari europee, allinamento delle proprie dotazioni militari e limiti di spesa, nonché rafforzamento dell’interoperabilità e della logistica congiunta. Misure che non pregiudicano la sovranità nazionale sulle forze armate. Niente esercito europeo, quindi; ma nemmeno qualcosa su cui ci sia bisogno di porre il veto: l’adesione è su base volontaria, e non stiamo parlando di una decisione per istituire una politica di difesa comune, che andrebbe votata all’unanimità e introdotta nell’ordinamento costituzionale di ciascun membro.
Viene quindi da chiedersi perché il Segretario britannico per la Difesa si sia sentito in dovere di impuntarsi con perentorietà su una questione che non è stata ufficialmente toccata. Sicuramente non si tratta di una risposta a fonti giornalistiche poco accurate e alla ricerca di click. Fallon argomenta che vuole evitare la creazione di un doppione della NATO con le complessità burocratiche comunitarie; ma se non c’è nemmeno una bozza di progetto, è alla meglio prematuro parlare di veto. Perché allora non ci si è preoccupati di riconoscere che anche la Gran Bretagna – in quanto Paese europeo ancorché sulla strada del ritorno alla completa sovranità – ha tutto l’interesse a che si formi un nucleo di policy-making in politica estera fatto da europei e attento alle esigenze geopolitiche europee? Perché, invece di ciò, ci si ostina a rendere il più ostili e ostici possibile i rapporti tra Regno Unito e Unione? Qual era la necessità di esternare un’altra opposizione, quasi di principio, all’integrazione comunitaria, avvelenando il dialogo e non contribuendo? Sembra poi paradossale – o forse legittimista? – far leva sul proprio, residuo, potere all’interno dell’Unione quando l’intenzione è di non servirsene più recedendo dai Trattati.
È tristemente ironico notare, del resto, che questo nuovo dibattito si sta sviluppando sul (quasi) nulla mentre sono anni e anni che l’idea di una politica estera davvero comune si sarebbe meritata molta più cittadinanza. Se da un lato non era previdibile aspettarsi molto di più da Bratislava, visto che prima di far fronte comune all’esterno è indispensabile avere compattezza interna, l’evolversi delle crisi internazionali dovrebbe costituire un ulteriore stimolo a capire che c’è una certa urgenza. Anzitutto il tema immigrazione, che mette a nudo l’impreparatezza di molti Stati europei ad accettare la solidarietà reciproca come obbligazione pratica e non solo come principio altisonante; poi il Medio Oriente, la cui situazione ha sempre palesato un peculiare intrecciarsi di inimicizie e alleanze talmente complesso che è già difficile delinare delle strategie per gli attori chiaramente indipendenti: la Turchia a parole si schiera contro l’IS, ma – ambiguamente sostenuta dagli Stati Uniti e da presunti alleati sunniti – combatte i curdi che sono tra i più attivi oppositori del jihadismo; i russi appoggiano per interesse Assad, il quale è premuto da turchi e IS, ma al contempo paiono volersi avvicinare a una cooperazione strategica con gli Stati Uniti, generando le diffidenze turche. Non è pensabile, in queste circostanze, continuare ad affidarsi alle singole priorità di ciascuno Stato, complicando al massimo il quadro, né a farsi scudo della guida NATO nell’area, tralasciando le specificità geopolitiche che legano l’Europa al Medio Oriente, che sono diverse da quelle che legano ad esso gli Stati Uniti.
Inutile dire che la possibilità che Donald Trump conquisti la presidenza statunitense costituisce un ulteriore fattore di stimolo (e di rischio), visti i suoi non rassicuranti proclami sul futuro della NATO e delle relazioni con la Russia. Nel caso, sarebbe la prima volta da diversi anni che la parola ‘autarchia’ verebbe usata con un senso logico: sì, ma autarchia di noi europei, non di ciascuna bella capitale ognuna per sè. La seppure flebile proposta di Bratislava, informalmente anticipata – almeno nello spirito – anche dall’Italia, sembra riconoscere almeno uno strumento promettente: la cooperazione rafforzata. Se l’Unione si è impantanata con il mezzo passo falso del grande allargamento, che ha prodotto eterogeneità, complessità decisionale e difficoltà di gestione delle crisi, un modo per aggirare parzialmente le fratture interne può essere affidarsi ai membri più desiderosi e pronti a ulteriore integrazione e a fare da guida. Non ci sarebbe nulla di vergognoso: l’Unione ha da sempre, più o meno espressamente, riconosciuto che non tutti i membri corrono alla stessa velocità. Si tratta però di un’impresa non priva di rischi: anzitutto, non sono in molti a dare l’esempio, a proporre concrete strade di cooperazione rafforzata; inoltre, un ipotetico “pool” di Paesi membri nel settore della difesa potrebbe contribuire significativamente a migliorare l’efficacia di azioni contro il terrorismo e l’immigrazione clandestina, o a instradare l’Unione verso esperienze di gestione militare integrata, ma non potrebbe ancora garantire l’agognata voce comune europea in politica estera.