Siamo alla Seconda Repubblica oppure alla Terza? Fatto sta che nel dibattito pubblico vengono utilizzati spesso termini specifici per identificare alcuni periodi storici, come il Sessantotto o gli anni di piombo, poiché essi avrebbero segnato una generazione in maniera indelebile e sancito un momento di completa discontinuità rispetto a ciò che li ha preceduti o seguiti. Allo stesso modo possiamo far entrare nella definizione appena data anche il termine “Seconda Repubblica”, che potrebbe rimandare, se ci si ferma per un momento a pensare, ad alcune analogie per inquadrarne al meglio il significato. Ad esempio la stessa espressione viene utilizzata per la Francia repubblicana, sorta dopo i famosi eventi rivoluzionari del 1848 con la fine della cosiddetta monarchia di luglio. Appunto una Repubblica (con le ore contate, occorre precisare, date le ambizioni di un certo Luigi Napoleone Bonaparte, futuro Napoleone III) impegnata a rimarcare come la sovranità fosse esercitata dal popolo e i suoi rappresentanti, riallacciandosi così alla “Prima Repubblica” rivoluzionaria del 1792, pronta a negare dunque i princìpi ereditari e il potere conferito ai monarchi, aventi un supposto privilegio naturale rispetto ai “sudditi”.
Ma in Italia è cambiato qualcosa nella stessa maniera in cui ho appena descritto? Non proprio.
Siamo una repubblica sin dal 2 giugno 1946 e non abbiamo avuto alcun nuovo ’48. Questo esempio rende bene l’idea che se per la Francia una periodizzazione del genere potrebbe avere un’immediata comprensione, per l’Italia non è così. Tuttavia, allo stesso tempo, non si vuole suggerire che tale termine lo si debba intendere come un’iperbole (per quanto possa apparire azzeccato e convincente) concernente gli eventi che segnarono la stagione politica tra il 1992-1994, ma che invece vada inteso come un vero e proprio indicatore di un momento di rottura politico-istituzionale sui generis, i cui effetti sono ancora vivi e presenti oggigiorno.
L’illusione degli anni ’80
Prima di arrivare a trattare quegli anni tumultuosi è necessario contestualizzare gli eventi e comprendere quale Italia si aveva di fronte sul finire degli anni ’80. La politica del Pentapartito che rispondeva ad una coalizione formata da DC, PSI, PRI, PSDI e PLI (rispettivamente democristiani, socialisti, repubblicani, socialdemocratici e liberali) ed era culminata con l’affermazione elettorale di un polo di centrosinistra, avendo lasciato all’opposizione il PCI (comunisti) che man mano cedeva voti, soprattutto ai socialisti di Bettino Craxi (segretario del PSI). La società stava mutando e la stessa popolazione richiedeva dei cambiamenti sostanziali, come accadde col referendum del 1981 dove si confermò la legge n. 194 sull’aborto approvata nel 1978, ma anche problemi di natura morale quando, nello stesso anno, scoppiò il caso degli iscritti alla lista P2, cosicché si vide come «erano all’opera dinamiche potenzialmente innovative e contraddizioni laceranti, elementi di degrado e forze vitali».[1]
Le elezioni del 1983 portano all’affermarsi del PSI come ago della bilancia politica e la presentazione al Paese di un nuovo modo di intendere la politica (che ha in nuce ciò che si affermerà dopo il 1994), attraverso un’impronta marcatamente più personalistica, la tendenza alla spettacolarizzazione e insieme l’utilizzo di una comunicazione moderna e al passo con i tempi, novità riscontrabili inequivocabilmente nel PSI di Craxi. Questa maschera tuttavia non potrà bastare a nascondere i problemi di un’economia in difficoltà e di un debito pubblico crescente (ne ho parlato dettagliatamente qui), tanto che nemmeno il rilancio del “Made in Italy” e l’apparente ripresa della produttività porteranno a rendere credibile quel tipo di sistema politico. Infatti nessuno osa modificare uno status quo in cui i partiti hanno assunto un potere capillare (un termine usato non a caso, ma essenziale per capire ciò che verrà scardinato negli anni ’90), «perché mettere le mani sul debito pubblico significa bloccare il meccanismo benefici in cambio di voti dal quale la partitocrazia ricava il consenso e la sua stessa legittimazione»[2].
Nel quadro internazionale, invece, abbiamo due eventi segnanti: da una parte la caduta del muro di Berlino nel 1989, con il venir meno della forza ideologica sprigionata dall’URSS e della controparte occidentale, convissuta in reazione ad essa sin dal secondo dopoguerra; dall’altra il processo di integrazione europea (Trattato di Maastricht, 1992) che prometteva una stabilità economica e un deficit statale contenuto (fissato al 60% rispetto al PIL) e sanciva la nascita dell’Unione Europea, affermando così l’avvio di un nuovo e vincolante processo di cooperazione politico-economica fra gli Stati membri. Due questioni che si correlarono con il venir meno progressivamente del peso ideologico dei partiti e della trasformazione in un elettorato più “liquido” e volubile, ma soprattutto con la scarsa considerazione che gli Stati europei poterono avere di un’Italia con un debito pubblico rispetto al PIL arrivato nel 1992 al 125% .
L’inizio della crisi: tra le inchieste giudiziarie e la mafia
Ecco allora approdati agli anni ’90. L’economia mette a dura prova la democrazia, ma il sistema politico viene veramente scosso quando nel 17 febbraio 1992 viene arrestato Mario Chiesa al Pio Albergo Trivulzio di Milano, un socialista trovato colpevole di concussione e complice all’interno di una prassi illegale di tangenti e favori. Solo la punta dell’iceberg di un fenomeno così esteso da provocare di lì a breve un effetto domino. Inizia così “Tangentopoli”, con un termine squisitamente giornalistico che rende bene l’idea dell’estensione del fenomeno: infatti verranno indagati ed arrestati altri esponenti facenti parte della maggioranza dei partiti, con innumerevoli avvisi di garanzia che li stigmatizzeranno ineluttabilmente agli occhi dell’opinione pubblica, alcuni arrivando addirittura al suicidio, come avvenne per il socialista Sergio Moroni e alcuni industriali. Il pool di magistrati di “Mani Pulite” (altro sinonimo giornalistico delle inchieste giudiziarie) sarà comunque risoluto e tra di essi Antonio Di Pietro, per la tenacia e le modalità con cui procederà a far sgretolare il sistema partitocratico, assumerà un notevole potere mediatico Nel frattempo le elezioni del 5 aprile 1992 sanciscono una sconfitta per la DC che per la prima volta approda a meno del 30%, c’è il ridimensionamento del PSI e insieme l’avanzare della Lega Nord a quasi il 9%; in questo modo il pentapartito si sente minacciato e non ha più l’ampio margine di manovra che aveva in passato. Ancora: le dimissioni del Presidente della Repubblica Cossiga (dopo aver caratterizzato il suo mandato con rivelazioni ed esternazioni scioccanti, come la difesa della P2 e di Gladio, quest’ultima un’organizzazione para-militare in chiave anticomunista)[3] obbligano il parlamento ad eleggerne un altro, ma arrivando a un nome concorde solo dopo aver capito che la situazione sarebbe potuta sfuggire di mano.
Dopo la morte di Giovanni Falcone nell’attentato di Capaci (23 maggio 1992), verrà scelto Oscar Luigi Scalfaro. Passeranno poi solo due mesi per il successivo attentato che porrà fine alla vita di Paolo Borsellino. Insomma, gli eventi (molti come si vede) si riversano sul Paese in maniera condensata e fulminea; determinante è così anche quella mafia che, dopo l’inizio nel 1986 del maxi-processo, vede così alcuni suoi esponenti minacciati, continuando però allo stesso tempo ad uccidere e ricattare, a vedersi concedere sconti di pena e assoluzioni (come il giudice Carnevale che in Cassazione nel febbraio 1991 scarcerò alcuni boss). Tuttavia, stavolta, essa ha di fronte un pool determinato ad operare affinché al Sud «lo Stato ristabilisca il monopolio dell’uso della forza. Riaffermi le sue prerogative e la sua autorevolezza»[4]. Ecco allora il motivo delle stragi: è proprio l’inizio di questo braccio di ferro fra Stato e mafia ad aumentare la tensione, dove il primo intende ristabilire il suo potere fino in fondo mentre la seconda non vuole perdere quello conquistato dopo sanguinose guerre fra clan e anni di infiltrazione politica, economica e sociale.
La magistratura a Milano portava avanti le indagini relative alle tangenti, in Sicilia vi era uno stato d’emergenza e i partiti non sapevano più cosa fare, tanto che Craxi fece un discorso alla Camera sostenendo «che il finanziamento illegale dei partiti era notoriamente parte essenziale del sistema politico italiano, e in quanto tale doveva essere accettato»[5]. Insomma se tutti erano colpevoli nessuno in realtà lo era; ma ciò non bastò a fermare le indagini e i due governi che si susseguirono, quello di Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi, cercarono di tamponare una crisi sistemica, dove il debito e gli alti interessi minarono ancor di più la credibilità del Paese. Deleterie furono alcune azioni, come la tentata approvazione (scongiurata solo dalla mancata firma del Presidente Scalfaro) del decreto Conso da parte di Amato, volto a depenalizzare i reati di finanziamento illecito ai partiti, o il passo falso commesso dal parlamento durante il governo Ciampi nel non concedere il via libera per tradurre in tribunale Craxi. Giungiamo così al 1994, quando il nuovo sistema elettorale (Mattarellum, misto di proporzionale e maggioritario) mise fine al proporzionale puro avuto sinora e fece tracollare i vecchi partiti e il Quadripartito (divenuto tale nel 1991 senza l’appoggio del PRI). Di essi sopravvisse solo il Pds, erede del PCI dopo la famosa svolta della Bolognina seguita ai fatti dell’’89 e toccato solo superficialmente dalle inchieste giudiziarie, ma fu minacciato dal partito di Berlusconi, reale vincitore in un’arena piena di sconfitti. Solo così Craxi, non eletto e senza alcuna immunità, sarà interrogato in tribunale e su questa resa dei conti avrà inizio la Seconda Repubblica.
Il problema della legittimità politica
Ma perché parliamo proprio di Seconda Repubblica? Se riguardiamo bene gli eventi, principalmente per il fatto che i partiti detentori delle redini dell’apparato statale fino al 1994 sparirono in un colpo solo, certo alcuni individui si “riciclarono” e non si può certo affermare che le politiche illegali denunciate in quegli anni sparirono insieme ai partiti, tuttavia la discontinuità fu subito chiara; anche perché l’illegalità diffusa e i falsi in bilancio avevano reso ancor più evidente il problema della finanza pubblica. Allo stesso tempo la nuova legge elettorale e il nuovissimo partito di Berlusconi (Forza Italia) segnarono una svolta nel modo di fare politica, proiettata ora «verso un incerto futuro a portata di mano, immerso nel tempo delle coalizioni competitive»[6], ma (ed è questo l’aspetto più importante a mio avviso) la classe dirigente non ritrovò più ciò che aveva perso lungo la strada: la legittimità.
Con Tangentopoli infatti si formarono delle «forti oscillazioni del possibile»[7] che ridefinirono le relazioni sociali, soprattutto fra politici ed industriali, fino ad allora fortemente legate da una convergenza d’interessi e dall’incentivo a tenere insieme un sistema “capillare”, dove tangenti e benefici divennero la norma; dopodiché anche quelle fra politici e cittadini, che grazie ad un sistema mediatico frenetico cambiarono radicalmente. Partendo da quest’ultimo, la vicinanza con il pool e le veloci informazioni che viaggiavano tra i giornalisti fecero scattare un sistema rivoluzionario: infatti tutti cercarono di accaparrarsi più velocemente degli altri le notizie e per questo ci furono molte ricadute professionali. Ad esempio il sistema fu utilizzato come incentivo per delle promozioni, facendo sì che avvenissero anche vari scioperi e venisse criticata la lottizzazione dell’informazione. La pressione scandalistica influenzò l’attività dei giornalisti e le stesse redazioni capirono che sarebbe stato meglio cavalcare l’onda del momento: ebbe così il via libera un linguaggio fatto di neologismi e termini ad hoc che plasmarono la realtà. Tutto questo però non era nelle strategie dei giornalisti, poiché tutte le variabili favorevoli o sfavorevoli sorsero durante lo scandalo e non prima.
Anche gli industriali cambieranno la loro percezione su alcuni esponenti politici durante lo scandalo, ma inizialmente non avranno molta paura, almeno fino a quando gli indagati non inizieranno a parlare e sosterranno la tesi di una concussione ambientale che li avrebbe dovuti mostrare essenzialmente nel ruolo delle vittime, al cospetto della grande partitocrazia italiana. Il gioco non valeva la candela, ma dopo aver assaggiato i metodi duri del pool e avendo ascoltato ogni giorno l’aumento del numero degli arresti, gli industriali capirono che addossare la colpa agli altri e parlare fosse più utile, spaccando così quel muro di omertà che avevano eretto davanti a loro per molti anni.
In sostanza, si nota come la destabilizzazione di alcuni settori abbia creato un clima in cui, in base alle varie possibilità del momento, lo scandalo si presentava come una continua «riconfigurazione di queste relazioni intersettoriali»[8]. La classe politica perdeva vertiginosamente il suo “capitale simbolico”, il quale garantiva loro il potere e li rendeva affidabili agli occhi di coloro con cui entrava in contatto, nonché, ovviamente, con l’opinione pubblica e i cittadini. L’atteggiamento scandalistico quotidiano e il confronto con eventi non disposti ad essere controllati dal potere politico, come sentenze, referendum, attentati ecc., si risolsero in una situazione che ai politici sfuggì letteralmente di mano, malgrado i tentativi (spesso maldestri) messi in opera per evitarlo.
La Seconda Repubblica diviene dunque un momento di delegittimazione politica: ma come può avvenire questo?
Potere e autorità si implicano a vicenda in un sistema istituzionalizzato, dove una società civile ha riconosciuto tale struttura come legittima. Questo avviene per via di una credenza che viene resa pubblica attraverso la norma, la legge, che è condivisa dai cittadini, la quale giustifica l’autorità; dunque il potere dell’autorità ha efficacia grazie alla credenza diffusa della sua giustificazione che è racchiusa nella legge (in quanto riconosciuta come “giusta”). D’altro canto è la legge a giustificare l’autorità e il suo esercizio, ma esse (legge ed autorità) non possono che determinarsi circolarmente l’una dall’altra, in quanto per avere una legge ci vuole un’autorità che la esercita, ma per avere autorità ci vuole una legge che la conferisca e la riconosca, perciò a promuovere un reale funzionamento delle due vi è la credenza o la fede di chi è subordinato della “giusta” azione della legge e dunque del potere esercitato dall’autorità. Forza fisica (autorità), legge e giustificazione delle due tramite una credenza diffusa, fanno sì che l’esercizio del potere incontri pochi ostacoli davanti a sé.
Nel momento in cui tale autorità viene istituzionalizzata ovviamente il meccanismo descritto si amplia e diffonde maggiormente, tanto che il potere esercitato dall’autorità viene accettato quanto più il sistema di credenza è diffuso al livello simbolico, perciò essa «deve divenire un mito collettivo pubblicamente condiviso»[9].
Caduto il consenso, la fede nell’autorità politica e dunque il venir meno di tale mito, si apre quella che Antonio Gramsci avrebbe definito una “crisi organica”, termine che utilizza «indicandone l’epicentro nel distacco dei gruppi sociali dai loro partiti tradizionali, nel contrasto “tra rappresentanti e rappresentati”»[10], in cui dunque l’egemonia, cioè l’insieme di credenze e contenuti culturali diffusi e in grado di dare una direzione a chi, attraverso un consenso, li assimila, non viene più esercitata nella società civile tramite degli organi predisposti come i partiti politici. Si rimettono allora in gioco strutture di natura economica così da rendere più facile una reintegrazione nella politica; in particolare si vengono a manifestare tre fenomeni: il ripiegamento della società civile sul piano economico che promuove la centralità dell’esecutivo, dove i governi Ciampi e Dini (1995) ne sono un esempio, contando su personalità esterne e indipendenti dai partiti, volte a dare un’efficacia all’azione di governo e iniziando una prassi che sarà comune anche dopo il 2000; poi la formazione di ampie coalizioni (con connotati privatistici-contrattuali); infine il neo-bonapartismo, di cui Berlusconi potrebbe essere stato un ottimo esempio.
Concepita in questo modo, la crisi del 1992-1994 e l’avvento della Seconda Repubblica assumono un valore cruciale per la comprensione della storia italiana, dove si evince innanzitutto una disfatta politica e la delegittimazione della classe dirigente di allora ha degli effetti duraturi che se provano, per certi versi, l’affermarsi di una forte discontinuità, ne va assolutamente evidenziato anche l’aspetto di continuità, implicito nella fragilità odierna sia dei partiti e che delle istituzioni. Le parole di Norberto Bobbio sono emblematiche in tal senso e suonano come un monito ai cittadini odierni: «La prima repubblica non solo è finita, ma è finita male. Non poteva finire peggio. Uomini politici sino a ieri eminenti, […] stanno uscendo di scena senza che nessuno se ne accorga. Lasciano dietro di sé un cumulo di problemi non risolti […]. Confesso che mi costa un certo sforzo credere che la nuova repubblica, che sta per nascere, […] sia migliore della prima»[11].
[1] G. Crainz, Storia della Repubblica. L’Italia dalla Liberazione a oggi, Donzelli, Roma, 2016, p. 251.
[2] S. Colarizi, Storia politica della Repubblica. 1943-2006 Partiti, movimenti e istituzioni., Laterza, Bari, 2007, Ebook cap. VI.
[3] G. Crainz, Storia della Repubblica. L’Italia dalla Liberazione a oggi, op. cit., p. 281.
[4] Ibidem.
[5] P. Ginsborg, L’Italia del tempo presente. Famiglia, società civile, Stato 1980-1996, Einaudi, Torino, 2007, Ebook cap. VIII par. 7.
[6] U. Gentiloni Silveri, Storia dell’Italia contemporanea 1943-2019, Il Mulino, Bologna, 2019, p.300.
[7] H. Rayner, Tangentopoli e il crollo della “prima repubblica“, in Quando crollano i regimi, a cura di Paolo
Viola e Antonio Blando, Palumbo, Palermo, 2004, p. 128.
[8] Ivi, p. 134.
[9] A. Lippi, Dinamiche di legittimazione politica, Il Mulino, Bologna, 2019, ebook PDF, cap. 2.
[10] M. Mustè, Marxismo e filosofia della praxis, Viella, Roma, 2018, p. 318.
[11] N. Bobbio, Com’è finita male la prima repubblica, in “La Stampa”, 20 gennaio 1993.
3 comments
Tutto giusto. Non conosco abbastanza le “seconde repubbliche straniere” per confrontare, ma dopo aver vissuto un po’ all’estero tendo a pensare che in fondo non siano/siano state così diverse…
Analisi corretta ed esposta in maniera chiara, in Italia molti pensano che la seconda repubblica NON sia migliore, certamente gli eventi quotidiani avvalorano il pensiero
Tutti temi da approfondire: chissà che non si riescano a scuotere le coscienze delle giovani generazioni e non solo?