Nonostante in Italia non siano in molti ad essere a conoscenza della sua esistenza, il Group of Thirty (Gruppo dei Trenta), a partire dalla fine degli Settanta, esercita una notevole influenza sui legislatori ed i governi dei Paesi sviluppati in materia di regolamentazione bancaria e finanziaria.
Formalmente, il G30 è un’organizzazione internazionale senza scopo di lucro composta da alcune delle personalità più brillanti – e rilevanti – del mondo della finanza, sia a livello istituzionale, che professionale che, infine, accademico: tra i membri “illustri” si possono citare, oltre a Timothy Geithner e Paul Volker – entrambi ex vertici della Federal Reserve – il Presidente della BCE, Mario Draghi, e il suo predecessore, Jean-Claude Trichet – che peraltro è chairman dell’organizzazione.
Fondato nel 1968 su iniziativa della Fondazione Rockefeller, il Gruppo dei Trenta ha sede a Washington e si occupa di analizzare le maggiori questioni economiche e finanziarie internazionali, nonché di esaminare gli aspetti collegati in particolare allo scambio di valute, ai mercati di capitali e alle banche centrali. L’obiettivo dichiarato è quello di monitorare le conseguenze a livello globale delle decisioni assunte dai policy maker e dalle punte di diamante del settore privato, anche al fine di fornire raccomandazioni ai governi e ai parlamenti dei singoli Stati sulle politiche da implementare a beneficio del settore e dell’economia mondiale.
In data 29 luglio 2015 il G30 ha pubblicato un documento dal titolo “Banking Conduct and Culture: a Call for Sustained and Comprehensive Reform” dove sono resi pubblici i risultati in forma sintetica degli studi condotti dall’organizzazione in seguito al crollo di Lemhan Brothers e alla conseguente crisi finanziaria ed economica globale. Il Paper, in particolare, analizza le problematiche riscontrate nei modelli di governance e nelle dinamiche operative delle maggiori banche internazionali, coinvolgendo i consigli di amministrazione, i dirigenti e le autorità di vigilanza più importanti del mondo.
Il documento costituisce, sostanzialmente, un appello all’universo bancario affinché vengano intraprese iniziative radicali per creare una nuova cultura bancaria del modo di fare impresa, che sia in grado di generare valori e atteggiamenti che plasmino la condotta dei suoi dirigenti e dei suoi amministratori e contribuiscano a ripristinare la reputazione delle banche, anche al fine di ricreare quel clima di fiducia verso i risparmiatori e gli investitori, drammaticamente deterioratosi nel corso degli ultimi dieci anni.
Il punto di partenza è che la mancanza di fiducia nel settore bancario comporta dei gravi costi materiali a detrimento della società e che, pertanto, questa “rivoluzione culturale” è divenuta una irrinunciabile priorità pubblica.
Per quanto velleitario possa apparire, prima facie, l’intento perseguito dai Thirty attraverso la divulgazione di un messaggio così ambizioso, nondimeno, avuto a riguardo alla sua struttura complessiva ed ai suoi contenuti, il Paper offre degli spunti di riflessione – e di discussione – interessanti, fondati su considerazioni assolutamente realistiche e condivisibili.
Ci si riferisce, in particolare, all’invito, indirizzato ai regolatori, a prendere atto della scarsa utilità dell’approccio fondato sull’imposizione di codici di condotta e di valori etici da rispettare attraverso il ricorso torrenziale a impianti normativi elefantiaci. Con parole semplici ma efficaci, si afferma che la cultura non è altro che un sistema di valori. In generale, un sistema di valori non è suscettibile di essere modificato con una legge o un regolamento. Come viene correttamente evidenziato, insomma, culture cannot be regulated.
Al contrario, secondo il G30, aumentare la mole delle norme può finire per rivelarsi controproducente. Una cultura sostenibile, invece, deve provenire dallo stesso DNA della banca ed ivi essere impiantato.
Considerato il fervore normativo che, negli ultimi anni, contraddistingue il settore bancario e dei mercati finanziari, le riflessioni sopra citate appaiono più che mai attuali. Proprio pochi giorni fa il Comitato di Basilea ha approvato i nuovi principi di corporate governance per le banche: è stato dato molto risalto al tema – di grande rilievo e considerazione nell’ambito dell’attuale dibattito politico, ma anche giuridico – della governance del rischio, in quanto fattore di pericolo per gli investitori e per l’integrità dei mercati, all’interno del quadro generale di governance aziendale.
La centralità dell’impostazione di un assetto societario improntato al costante monitoraggio del rischio emerge altresì chiaramente nella recente normativa comunitaria in materia di accesso all’attività creditizia (CRD IV), nonché in quella – senso latu ancella – che regola la prestazione dei servizi di investimento la gestione collettiva del risparmio, sia proveniente dal Parlamento e dal Consiglio– MiFID II, UCITS V e AIFMD – che dalle autorità di vigilanza – Orientamenti EBA e ESMA.
A parere di chi scrive, nell’ambito della monumentale produzione legislativa sopra citata, vi sono anche misure ragionevoli, potenzialmente in grado di rafforzare il grado di tutela previsto dell’investitore – e, in particolare, dell’investitore retail – e, al contempo, di prevenire l’irrazionale assunzione di rischi da parte di colui che detiene il potere decisionale all’interno della banca, anche a tutela dell’integrità dei mercati. Penso ai meccanismi di clawback e di malus, secondo cui il dirigente deve restituire le commissioni e i bonus che ha percepito in relazione ad un determinato business, in caso di performance negative determinate da condotte azzardate ad opera dello stesso.
Tuttavia, vi sono altresì esempi di disposizioni che, a ben vedere, non rappresentano nient’altro che il tentativo di imporre un sistema di valori attraverso la legge. Un esempio è rappresentato dall’obbligo di istituire – a determinate condizioni – dei Comitati di Remunerazione interni all’azienda, con il compito di valutare le prassi retributive delle banche e degli intermediari per garantire che gli amministratori, i manager e i risk taker siano retribuiti secondo politiche idonee a prevenire che i citati soggetti adottino scelte o assumano comportamenti che espongano la società a rischi eccessivi.
Probabilmente, le scelte legislative più razionali ed efficaci sono quelle che intervengono a livello macro: operazioni quali l’imposizione di requisiti patrimoniali particolarmente stringenti e l’istituzione del Single Supervision Mechanism (SSM) quale sistema di vigilanza accentrato in capo alla BCE sulle banche più rilevanti per dimensioni e capitalizzazione, possono risultare decisive a contenere e a mitigare il rischio sistemico, nonché a prevenire l’insorgere fenomeni e condotte che mettano a repentaglio la stabilità finanziaria globale.
A livello organizzativo interno, invece, l’adeguamento delle policy degli istituti finanziari a best practice riconosciute e a raccomandazioni delle Autorità, dovrebbe avvenire in maniera volontaria, con l’intento di costruire un’immagine solida a livello di reputazione della propria azienda, nell’interesse degli stessi operatori del settore.
Quando parlo di “interesse degli stessi operatori del settore” mi riferisco a qualcosa di molto concreto. Il grafico qua sotto, estrapolato dal Paper, mostra che, nel periodo compreso tra il 2009 e il 2014, l’esborso medio delle singole banche – il campione è costituito dagli istituti più relevant secondo i criteri sopra indicati per l’SSM – per spese legali e multe comminate dalle Autorità in seguito ad accertate violazioni di legge è stato pari a circa 20 miliardi di dollari, vale a dire a quasi un terzo degli accantonamenti rischi su crediti.
Una cultura d’impresa sprezzante delle regole del gioco, seppure foriera di gratificazioni personali anche consistenti nel breve periodo, può comportare danni di una certa rilevanza a medio-lungo termine. Potrà apparire triste come affermazione, ma l’unica motivazione che potrebbe spingere le imprese bancarie a rivoluzionare la propria cultura sarà l’utilitaristica consapevolezza dei costi e dei benefici connessi all’adozione di modelli di condotta più virtuosi rispetto al mantenimento di quelli opachi attualmente vigenti.
D’altro canto, le dichiarazioni rese in giudizio da Tom Hayes, il trader inglese di UBS recentemente condannato a 14 anni di reclusione per lo scandalo nella manipolazione del Libor, certificano che la strada è tutta in salita: “Basta dare una barretta di Mars al cash desk e faranno tutto quello che vuoi” diceva il trader in una telefonata del 2006 nella quale evidenziava la facilità nel compiere certe operazioni.
Ricapitolando e in conclusione:
(i) la pretesa di una rivoluzione spontanea del ceto bancario può apparire utopica ma ancor più velleitaria è la convinzione che una pioggia di regole possa modificarne la cultura d’impresa. Come direbbero i Thirty: “Culture is about behaviors. Behaviors in general are not amenable to legislation or regulation”;
(ii) se la regolamentazione e la legislazione non possono modificare i comportamenti, l’unico impulso al cambiamento è rappresentato dalla consapevolezza che questa cultura d’impresa non è più sostenibile, per la società ma, prima ancora, per il ceto bancario stesso. Si chiama istinto di sopravvivenza. Speriamo che abbia ragione il buon vecchio Darwin.