Pete Buttigieg è uno dei più interessanti talenti politici del mondo. Ha ottime capacità di analisi unite a capacità comunicative. Ha una visione non ancora approfondita ma all’altezza del 21esimo secolo. È un leader di nuova generazione, in grado di fare sintesi pur non cedendo un centimetro sui temi fondamentali.
La prima volta che vidi un articolo su di lui, il candidato gay che ha studiato ad Harvard e parla 7 lingue, pensai superficialmente alla classica figurina democratica che non sarebbe mai stata in grado di connettersi con l’America inquieta di oggi. Invece Buttigieg è qualcosa di meglio. È una persona che ha fatto esperienza sulla propria pelle: è sindaco di una piccola città della “america rurale”, nell’Indiana, colpita dalla crisi; ha svolto un lungo servizio militare, anche in Afghanistan, maturando un’esperienza molto maggiore rispetto agli ultimi presidenti; parla della propria omosessualità descrivendo apertamente i tormenti dell’autoaccettazione ancora fino ai 25 anni. La sicurezza che mostra non appare frutto di snobismo di casta, ma l’elaborazione di un percorso personale e sofferto. È per questo che può essere “élite e leader” nel senso più alto dei termini. Il suo discorso in risposta a Pence “Your quarrel, sir, is with my creator” sulla propria omosessualità è fra quelli che più mi hanno emozionato negli ultimi anni. È il fatto che sia uno dei candidati democratici a citare più spesso la propria religiosità, nelle primarie 2019, è un fatto da segnalare.
Pete Buttigieg è sufficientemente alla mano nel modo di porsi, per quanto persegua un carisma algido di tipo obamiano. Politicamente è un centrista palesemente intenzionato a non commettere gli errori dei predecessori e ad affrontare la sfida secondo canoni nuovi. Per questo mette al centro della sua campagna i concetti “libertà, sicurezza, democrazia”. Ha capito che sui primi due temi la corrente spinge da quella parte e prova a tradurli in chiave progressista: sicurezza dalle stragi, sicurezza climatica, sicurezza di potersi curare (coniugata con la libertà di scelta), libertà di essere chi vuoi, di amare chi vuoi, libertà per le donne di avere figli senza dover rinunciare alla carriera e così via. Attaccherà puntualmente e senza sconti Trump, ma non i sostenitori di Trump (secondo il famigerato modello del “basket of deplorables”), il suo messaggio è anzi: io vengo dal vostro stesso contesto disagiato, ho risposte migliori per voi. Tratta Trump non come il problema in sé ma come il sintomo dei problemi di una “nuova era”. Si pone come candidato di una generazione che vede le proprie aspettative sgretolarsi rispetto alle certezze dei propri genitori. L’aspetto forse più importante della sua lettura è che qualsiasi promessa politica che ruoti attorno alla parola “again” è un’illusione. I democratici non possono promettere di riportare il mondo agli anni 90 mentre i repubblicani promettono di riportarlo agli anni 50. È un messaggio vero, che però chiaramente non basta a se stesso. L’ultimo punto, più particolare, è la sfida democratica sulle regole americane, fallita da Obama ma più volte dichiarata, certamente complessa per qualsiasi presidente.
In politica estera è un centrista, moderatamente non interventista, convinto come la maggioranza dei candidati che gli USA debbano mettere ordine rispetto ai troppi tavoli aperti a livello internazionale. È tuttavia ostile all’autoritarismo putiniano e non nega lo scontro per la democrazia che si giocherà con la Cina nei prossimi anni: anche per questo proporne di rinnovare e rafforzare l’alleanza con i partner storici (riferendosi all’Europa). È anche convintamente (ma con posizioni di buon senso) pro-Israele, in un partito democratico dove questa posizione è diventata tutto fuorché scontata.
Finora Pete Buttigieg non ha pronunciato nessuna eresia e non ha fatto nessun scivolone, mantenendosi in media brillante. Ma è ancora presto. Nei frequenti paragoni con Obama non può non constatarsi superficialmente quanto sia meno “presidenziale” nel fisico: se fosse il candidato di sicuro si parlerebbe della differenza di altezza rispetto a Trump. Il suo principale svantaggio resta probabilmente la sua omosessualità, che potrebbe condizionare la scelta di alcuni elettori molto più di quanto fosse uno svantaggio per Obama il colore della pelle, ammesso che in assoluto lo fosse davvero. Stando ai sondaggi neanche questo sembra un elemento decisivo in grado di pregiudicare una sua elezione, ma come è noto il meccanismo richiede una osservazione Stato per Stato. Il tema fondamentale resta quindi politico: i democratici possono vincere la sfida “dal centro” o sarebbe preferibile un candidato più radicale? Finora gli “unifier” sembrano tirare di più, ma la distanza rispetto a profili come la Warren è sottile. A livello di idee Biden e Buttigieg sembrano finora più rappresentativi della maggioranza degli elettori democratici.
La nomination resta comunque difficile, per quanto la sfida sia tutta da giocare. Un’idea interessante e percorribile potrebbe essere una sua candidatura a Vice, in grado di moderare candidati più radicali o svecchiare una candidatura come quella di Biden.