Donald Trump è stato spesso accusato durante il periodo elettorale di esemplificare le questioni promettendo soluzioni indefinite e di non disporre di vere posizioni politiche, ma in realtà la candidatura Trump è quella con la posizione programmatica probabilmente più eclatante degli ultimi vent’anni: la rivisitazione o cancellazione degli accordi commerciali con la Cina.
L’entrata della Cina nelle istituzioni economiche occidentali ha rappresentato l’evento centrale del processo di “globalizzazione”, con risultati piuttosto negativi per gran parte della società americana ed europea. La possibilità di occupare manodopera a costo bassissimo in Cina ha spinto molte migliaia di imprese occidentali a trasferire i loro apparati produttivi in Cina in ordine di massimizzare i loro profitti, lasciando a casa soltanto le funzioni di dirigenza e design. Questo fatto ha provocato un enorme buco di disoccupazione, precariato e redditi ridotti per le classi operaie americana ed europea, mentre nello stesso momento l’eliminazione dei dazi permetteva alle colossali imprese statali cinesi di praticare un dumping costante a danno delle imprese medie e piccole occidentali.
A migliorare la situazione dal punto di vista economico per gli imprenditori medi e piccoli, e in genere le classi medie americane ed europee, c’è stata l’immigrazione, particolarmente quella illegale, e la deregulation dei mercati finanziari; la prima offriva anche a loro la possibilità di abbassare i costi di produzione, mentre la seconda ha assicurato un acceso a crediti molto più facile rispetto al passato. Però questi due elementi, che avevano mantenuto relativamente soddisfatta la maggior parte della società, e in termini politici avevano permesso all’establishment di mantenere il controllo sociale, sarebbero state quelli che avrebbero finito a condannare la sua politica. La bolla di debito è esplosa, permettendo alla realtà oggettiva a materializzarsi, e nello stesso tempo l’immigrazione ha gradualmente superato i limiti che gran parte della società considerava accettabili, comportando problemi di funzionalità e coesione sociale. Le risposte di welfare state provate anche negli USA durante la presidenza Obama per alleviare la difficile situazione di strati sociali deboli, hanno comportato la perdita di fiducia definitiva delle classi medie imprenditoriali, appesantite da una tassazione sempre più alta.
Il successo di Donald Trump e Bernie Sanders, che hanno entrambi basato la loro retorica sulla polemica contro il commercio libero con la Cina, è dunque la manifestazione politica di questa evoluzione materiale oggettiva. La direzione dell’élite politico-economica è stata travolta presso il Partito repubblicano, ma ne ha risentito anche il Partito democratico. Ciò è accaduto perché Trump, a differenza di Sanders, ha parlato non solo contro il commercio libero con la Cina, ma anche contro l’immigrazione, guadagnando il sostegno massiccio e convinto di grandi masse popolari che considerano l’immigrazione come la causa principale della loro condizione problematica.
Fra i sostenitori più convinti di Sanders c’erano d’altra parte giovani disoccupati e sottooccupati qualificati, che avendo una certa cultura accademica si sentono lontani dall’atteggiamento redneck assunto da Trump. Questi strati voteranno quindi più per il Partito democratico per ragioni ideologiche e culturali, ma per quanto detestino le posizioni sociali di Trump e la cultura conservatrice centroamericana, penso che non sosteneranno massivamente ed esclusivamente Hillary Clinton, perché capiscono che le politiche da lei promosse non siano benefiche per la loro condizione attuale.
Al contrario la piccola e media borghesia di dirigenti e impiegati qualificati ha sempre sostenuto con convinzione il presidente Obama e ora Hillary Clinton, perché non essendo sottoposta alla concorrenza immediata della forza lavorativa cinese e immigratoria non ha subito gli effetti negativi delle politiche seguite, e non si sente in pericolo concreto di abbassamento decisivo del proprio benessere; anzi ha visto i suoi redditi per lo più aumentare durante gli ultimi anni, giacché la sua attività professionale è legata ai livelli medio-alti delle grandi aziende. A questi strati appartengono i giornalisti dei grandi giornali e media, che hanno tenuto un atteggiamento mai visto nella storia delle elezioni americane, aggredendo in blocco e in ogni modo Trump, cercando di dipingerlo come nemico della repubblica americana.
Nonostante ciò la realtà è che la retorica di Trump neanche lontanamente include elementi di critica teorica verso l’ordinamento istituzionale, parlando invece sempre nel nome della Costituzione e delle leggi. Trump incarna l’immagine archetipica del businessman brusco americano, che punta sull’efficienza e i risultati senza nemmeno porsi questioni sistemiche e ideologiche. Grandi masse popolari si sentono molto vicine a un tale tipo di leader, mentre le cantanti pop e gli attori hollywoodiani inorriditi dal candidato repubblicano esprimono il normale disprezzo degli strati cittadini semi-cosmopoliti nei confronti del provincialismo rurale.
Dunque l’immagine di un Trump detestabile, che perderà quasi sicuramente le elezioni, promossa dai grandi media e gli artisti pop, non corrisponde alla vera tendenza della società americana. Lo studio e la riflessione sulla situazione oggettiva portano a conclusioni diverse da quelle sostenute dalla maggioranza degli analisti e dei sondaggi, i quali non sembrano aver compreso adeguatamente la base socioeconomica su cui si gioca l’elezione del prossimo otto novembre.
Essi ad esempio danno per scontata un’ampia prevalenza di Clinton presso i neri, i latinoamericani e altre minoranze a causa dell’atteggiamento redneck di Trump, però le condizioni reali più solite presso queste minoranze sono simili proprio a quelli dei bianchi redneck che rappresentano la base elettorale di Trump, e non a quelli dei dirigenti e impiegati qualificati (e ancora bianchi) che rappresentano i sostenitori più convinti della Clinton.
In ogni caso, sembra certo che la direzione seguita negli ultimi due decenni dall’élite politico-economica, abbia perso il sostegno della grande maggioranza della società americana. Quindi anche se Hillary Clinton dovesse vincere in extremis, si tratterebbe solo di una vittoria di Pirro, seguita molto probabilmente dall’inizio di una radicalizzazione anti-establishment che questa volta potrebbe toccare anche argomenti istituzionali.
3 comments
Analisi ambigua. Sembra ignorare che il rigetto degli accordi commerciali con la Cina e con vari altri paesi danneggerebbero l’economia USA e aggraverebbero i problemi dei ceti colpiti dagli effetti della globalizzazione. E’ il giudizio sostanzialmente unanime dei migliori economisti USA, anche di quelli più vicini ai repubblicani (Mankiw, Cochrane), e della totalità dei consulenti economici di tutti i passati governi americani, da Reagan a Obama.
Se il popolo USA sceglierà l’isolazionismo economico di Trump e Sanders, passerà molti anni di vacche magre prima di potere fare marcia indietro. L’analisi è ambigua perché non si capisce se l’autore condivida o non condivida questo giudizio, che è rilevante. Dicendo, in modo peraltro molto azzardato, che la società americana ha scelto l’isolazionismo, e non dicendo nient’altro, l’autore lascia intendere che non sia la scelta insensata che invece è.
(Btw, si dice dumping, non dumbing.)
Gli economisti che sostengono gli accordi commerciali con la Cina si riferiscono alle virtù del commercio libero in astratto, però non dimostrano in quale maniera gli accordi specifici avrebbero effetti veramente benefici per le classi operaie. Da parte sua Trump parla contro precisi accordi commerciali con un paese preciso, e non contro l’economia libera come tale: al contrario è proprio lui che sostiene politiche tipicamente liberiste, parlando di diminuzione generale delle tasse, mentre la Clinton cerca di rispondere alle preoccupazioni degli strati deboli alla maniera tipicamente populista, cioè promettendo di aumentare le tasse ai ricchi e ridistribuire la ricchezza con le politiche sociali, mentre difende il meccanismo che massimizza i profitti delle grandi aziende a danno dell’occupazione industriale via il trasferimento in Cina, e la mancata denuncia delle pratiche cinesi.
Inoltre il termine “isolazionismo” si riferisce all’atteggiamento strategico e diplomatico generale, non all’imposizione di dazi a paesi specifici. Altrimenti tutte le amministrazioni USA sarebbero state “isolazioniste” fino a quella di Bill Clinton.
Certo che si dice “dumping”, grazie per aver notato e notificato l’errore.
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