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Per salvare i piccoli paesi bisogna abolire i piccoli comuni

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Nelle pieghe della recente crisi di governo si sono annidati proclami e aperture sulla riforma del Titolo V della nostra Costituzione, in particolare sulla ripartizione delle competenze tra Stato e regioni. Un tema non nuovo, per usare un eufemismo, che si è ripresentato in tutta la sua complessità nel corso della pandemia.


A ben vedere, l’obbligo-opportunità di adottare riforme strutturali per la sostenibilità e la semplificazione delle procedure amministrative – necessarie per l’approvazione del Recovery Plan dell’Italia – offre un “assist” ulteriore per intervenire anche su altri aspetti che riguardano i livelli inferiori di governo.

L’agenzia Moody’s ha di recente evidenziato come la pandemia abbia reso ancora più critiche le situazioni debitorie di regioni e comuni. Partendo dal basso, già prima del Covid, il peso del debito sui bilanci dei piccoli comuni ne strozzava quasi 2 mila. Di fatto, come evidenziato dall’IFEL (Istituto per la Finanza e l’Economia Locale), un comune ogni quattro era già schiacciato dal proprio debito.
Figurarsi oggi a seguito del rinvio o della cancellazione di molte imposte locali.
I comuni sotto i 5 mila abitanti costituiscono il 70% circa dei ben 7903 comuni italiani, di cui circa il 44% del totale al di sotto dei 2 mila abitanti, concentrati prevalentemente nelle aree interne.
L’esistenza di piccoli centri, caratterizzati da borghi o suggestivi scenari paesaggistici, costituisce un fattore di bellezza e di interesse turistico-culturale, ma, allo stesso tempo, presenta problematiche molto serie in termini di buona amministrazione, erogazione dei servizi e gestione del territorio.


È una questione che contribuisce a dividere il Paese. Amministratori e impiegati dei piccoli comuni risultano spesso sprovvisti delle competenze necessarie per rispondere alle esigenze dello sviluppo e alla mancanza di lavoro, prima causa di emigrazione giovanile.
Negli ultimi tempi, inoltre, i già carenti organici si sono ridotti all’osso per via dei numerosi pensionamenti anticipati dovuti a Quota 100. Peraltro, la scarsa capacità da parte della PA di gestire i fondi europei spiega il ritardo dell’Italia nell’attuazione dei piani europei, ovvero di molti degli strumenti pensati proprio per la coesione e lo sviluppo dei piccoli comuni.


Nelle aree interne, l’eccessiva frammentazione amministrativa rappresenta un freno per la programmazione e la cooperazione, già rese inevitabilmente problematiche dalla complessità morfologica, dall’ipertrofia normativa e dalla sovrapposizione delle competenze di enti e agenzie pubbliche, spesso dotati di consorzi e società partecipate inefficienti. La debolezza infrastrutturale, il ridotto grado di diversificazione delle attività produttive, l’abbandono ambientale, l’invecchiamento e il galoppante spopolamento caratterizzano la realtà di molti piccoli comuni italiani. La situazione è drammatica, con interi paesi che rischiano di essere completamente abbandonati, da Nord a Sud.


Sull’equilibrio dell’architettura istituzionale del nostro Paese è intervenuta la cosiddetta legge Delrio – un intervento incompiuto vista la bocciatura del referendum costituzionale del 4 dicembre 2016 – che ha introdotto nuove misure per ottimizzare i servizi locali, le unioni di comuni e incentivi per le fusioni. Tuttavia, tali strumenti non sono risultati efficaci rispetto agli obiettivi prefissati, così come non lo è stata la legge per il sostegno e la valorizzazione dei piccoli comuni (L. n. 158/2017).

Bisognerebbe chiedersi: a cosa servono unità amministrative con meno di 5 mila abitanti? Sono queste sostenibili o funzionali alle esigenze dei cittadini? Pare sempre più evidente che per salvare i piccoli paesi sia necessario abolire i piccoli comuni, operando al contempo una riforma radicale dei sistemi di governance regionali e locali.


Sarebbe auspicabile un intervento normativo netto che fissi una soglia di abitanti minima per l’esistenza dei comuni – se non 5 mila, anche 3 mila sarebbe un gran passo avanti – che consenta un riassetto e un riequilibrio degli enti, ottenendo vantaggi immediati e di lungo periodo: riduzione dei costi, razionalizzazione e miglioramento della qualità dei servizi pubblici, semplificazione della governance locale, migliore selezione degli amministratori e politiche di sviluppo su più vasta scala.
Sarebbe un cambiamento notevole che, probabilmente, aiuterebbe anche a superare il frequente discorso monocorde del turismo nei piccoli paesi e nelle aree interne, allargando la visione a digitale, ricerca in agricoltura, start-up innovative e incentivi all’impresa.

Ma questo è un altro discorso, anzi un’altra rivoluzione.

1 comment

Seneca 24/11/2022 at 18:38

L’ interesse è troppo grande per quei minuscoli politici locali che is fanno chiamare amministratori, pur non avendo istruzione e competenze, ma tirando acqua al proprio mulino , anzi al proprio portafoglio e il tutto a spese della collettività .

Nel terzo millennio, parlare ancora di campanile, con tutti i problemi enormi che i giovani hanno ereditato da quei politici locali e nazioni, dotati di disumana coscienza , è non solo offensivo ma oltraggioso , guardando a quei giovani, costretti ancora ad emigrare per un lavoro che questi che si fanno chiamare amministratori non sono in grado di fornire.
Seneca

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