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Per risolvere i problemi demografici servono i dati, non i profeti di sventura

È sempre più frequente trovarsi ad ascoltare discorsi pronunciati da attivisti ed esperti climatici che preannunciano prospettive catastrofiche, nelle quali ci confronteremo con una natura distrutta da decadi di pratiche negative per la salute e per l’ambiente. Al di là di rivendicazioni più o meno sensate, spesso i discorsi maggiormente sensazionalistici lasciano il tempo che trovano: si considerano i worst-case scenario, evocando come soluzione una sorta di religione green: un mix di luddismo e cattolicesimo, che professa la liberazione da ogni privilegio. Eppure, come sperimentiamo tutti nella quotidianità, raramente la soluzione a un problema è così netta e questo caso non fa eccezione. Lasciati da parte i sensazionalismi, dunque, ci conviene adottare il buon senso e metterci di buona volontà a guardare dati e previsioni oggettive.

Una di queste prospettive è sicuramente quella relativa alla sovrappopolazione: quante volte abbiamo sentito parlare dei problemi che un “eccessivo” sviluppo demografico porterà nell’ambito dell’impiego di risorse naturali ed umane? È capitato che il problema venisse presentato con l’assunto che la popolazione umana continuerà a crescere con un coefficiente costante con l’avanzare del progresso, a meno di adottare un certo tipo di politiche, a volte persino nefaste come quella cinese del figlio unico.

Tuttavia, guardando anche solamente agli ultimi 200 anni, la popolazione ha evidentemente avuto tassi di crescita diversi nel tempo. Paesi come la Cina e l’India hanno di recente avviato il proprio periodo di boom demografico. Nel 1950 l’India aveva una popolazione di poco inferiore ai 500 milioni di abitanti, come la Cina aveva una popolazione invece di poco superiore al mezzo miliardo di abitanti. Ad oggi, quindi dopo 70 anni, la Cina conta una popolazione di 1.43 miliardi di abitanti, l’India invece di 1.37 miliardi. Il fenomeno però non è solo orientale: come sappiamo, 100 anni prima in Europa stava accadendo una cosa simile, ma la crescita poi si è arrestata.

Per citare degli esempi europei, con l’avvento dell’industrializzazione e del conseguente poderoso sviluppo economico, la Gran Bretagna solo nei primi venti anni dell’Ottocento ha quasi duplicato la sua popolazione, passando da 10.8 milioni di abitanti a 20.8 milioni di abitanti. Giusto per avere un termine di paragone, l’Italia, che arrivò piuttosto in ritardo all’appuntamento con lo sviluppo economico (nei primi anni del Novecento il PIL pro capite italiano era circa la metà di quello inglese) avrà una crescita della popolazione molto più lenta: nel 1800 questa si attestava circa sui 19 milioni, duplicandosi solamente 120 anni dopo.

Questa crescita sorprendente, impensabile ai giorni d’oggi, fu causata da diversi fattori, avendo però il suo motore principale nel miglioramento delle condizioni di vita della popolazione. Prendendo sempre come riferimento il periodo dello sviluppo industriale in Europa tra il XIX e il XX secolo, la mortalità infantile vide un crollo mostruoso. Nel 1800 in Gran Bretagna moriva quasi un bambino su tre nei suoi primi cinque anni di vita, solo nel 1927 questo rapporto scenderà ad uno su 10. Discorso simile per l’Italia, nella quale nel 1800 però moriva quasi un bambino su due e nella quale solo nel 1947 la mortalità infantile diminuirà fino ad arrivare a un bambino su 10.

Come già anticipato, questa crescita non è stata infinita e lineare: negli ultimi 20 anni la popolazione italiana è cresciuta di soli 4 milioni di abitanti (il 7%), mentre quella inglese di 8.6 milioni (il 14%). A questi dati è interessante unire le previsioni sulla crescita futura della popolazione mondiale: ne sono state fatte molte nel tempo, le più celebri sono quelle dell’ONU, che ne ha prodotte diverse dagli anni Cinquanta ad oggi. Questi studi sono basati su traiettorie definite dall’andamento attuale dei dati di fertilità, mortalità e migrazione: sicuramente in questi vi è una buona dose di incertezza, ma vi dobbiamo fare affidamento per capire qual è il trend che guiderà in futuro la crescita o la decrescita della popolazione. Uno dei più recenti prospetti del Department of Economic and Social Affairs delle Nazioni Unite propone alla nostra attenzione uno scenario di stabilizzazione (se non di decrescita) della popolazione nei prossimi 80 anni. Secondo lo studio, nel 2050 la popolazione mondiale dovrebbe attestarsi sui 9.7 miliardi di abitanti e nel 2100 invece dovremmo raggiungere tra i 9.4 e i 12.7 miliardi di abitanti. Ma è rilevante la proiezione della crescita: secondo le Nazioni Unite, c’è una probabilità di circa il 27% che la crescita della popolazione mondiale nel 2100 si attesti al o sotto lo 0%, mantenendo la curva demografica stabile o addirittura in discesa.

Sicuramente ci sono anche altri studi che hanno affrontato la questione, che però vanno in una direzione simile: uno di questi è stato pubblicato da The Lancet a luglio di quest’anno. Rispetto ad altri sviluppati precedentemente, come quello delle Nazioni Unite, questo studio presenta una modellizzazione che tiene conto dell’effetto leva che ulteriori elementi potrebbero rendere possibile (come ad esempio l’utilizzo di contraccettivi, l’istruzione, la migrazione e altri).I risultati hanno una traiettoria simile a quella già delineata dalle Nazioni Unite, tuttavia il picco viene toccato prima. Secondo questo scenario nel 2064 raggiungeremo i 9.7 miliardi di abitanti, per poi iniziare la nostra discesa. Per capire l’entità del cambiamento, nel reference scenario nel 2100 la Cina vedrà la sua popolazione dimezzata: ad oggi, infatti, conta 1.43 miliardi di abitanti, invece nel 2100 dovrebbe averne solo 731 milioni, raggiungendo il picco di 1.44 miliardi di abitanti nel vicino 2024. Nel vecchio continente il massimo verrà raggiunto leggermente più in là nel tempo: nel 2038 dovremmo raggiungere 447 milioni di abitanti, nel 2100 invece ne avremo 374 milioni (contro i 433 milioni di oggi).

Come abbiamo visto, le previsioni più accreditate mostrano un futuro ben diverso dai cataclismi che alcuni si aspettano, lasciando intravedere la speranza che le questioni ambientali si possano, almeno in parte, risolvere da sé. In qualunque caso, tuttavia, dobbiamo necessariamente continuare ad interrogarci: la curva che abbiamo descritto porta con sé inevitabilmente anche altri problemi, più che altro di entità economica e sociale. Uno su tutti quello della sostenibilità della macchina statale e soprattutto del welfare. Come sarà possibile far andare di pari passo crescita economica e welfare di Stato efficiente in un mondo in cui non esistono risorse giovani che possano sostenere il sistema economico? E come sarà possibile gestire una crescente domanda di prestazioni sanitarie e previdenziali in un mondo in cui il baricentro della popolazione si sposterà sempre maggiormente sugli over 60?

Queste domande purtroppo rimangono, almeno per ora, senza risposta. Ciò che è certo è che nel quadro italiano non si sta facendo granché per prepararsi a questa transizione. Viviamo in un Paese che sta rinunciando quasi completamente alle sue più giovani risorse, in cui il tasso di crescita è stato pressoché nullo negli ultimi 20 anni in confronto agli altri Paesi europei, in cui la macchina statale nel 2019 ha speso il 17% del proprio PIL in pensioni (contro un esiguo 3.7% in istruzione), in cui la vita lavorativa dura in media 31.2 anni (contro una media UE di 35.6 anni). Come pensiamo di superare efficacemente un mutamento del genere, che genererà un momento di crisi considerevole per tutti i Paesi del mondo, se volontariamente rifiutiamo la crescita, l’innovazione e le nuove risorse e invece accogliamo la decrescita, il regresso e i sussidi?

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