L’invasione russa dell’Ucraina ha rappresentato sotto diversi aspetti una cartina di tornasole della alterità del nostro dibattito pubblico rispetto al mondo occidentale. Tra posizionamenti dei leader politici e orientamenti di molti “opinion maker” vecchi e nuovi, anche l’opinione pubblica italiana sembra riflettere questa impostazione. In questi giorni, proprio sull’invio di armi in Ucraina, l’Italia sta rischiando una crisi di governo, con Salvini e Conte che sembrano voler tirare la corda fino al punto di spezzarla. I valzer linguistici di qualche tempo fa dello stesso Giuseppe Conte, contro il “vetero-atlantismo di stampo fideistico”, sembrano raccontare molto dello storico atlantismo all’italiana: non di collocazione ma di posizionamento, accomodabile e ritrattabile a seconda delle diverse stagioni, in un Paese che espresse una classe politica consapevolmente atlantista solo nei primi anni della Repubblica.
Le elezioni del 18 aprile 1948, con la netta sconfitta del Fronte Democratico Popolare, posero le fondamenta di quella che sarebbe stata la collocazione dell’Italia repubblicana. Oltre a De Gasperi, assursero a ruoli di primo piano figure filo-occidentali come Gaetano Martino o Ugo La Malfa, in uno scenario politico plasmato dall’anti-comunismo. In questo senso, giocò un ruolo importante anche la leadership di Palmiro Togliatti, fin dalla “Svolta di Salerno” del ’44, creando poi il mostro impossibile ma mansueto di un comunismo italiano inserito nella democrazia eppure cultore del mito rivoluzionario sovietico.
La nostra collocazione internazionale, il nostro essere linea di faglia tra Est e Ovest caratterizzò in modo fondamentale ogni aspetto della prima Repubblica; compresa (indirettamente) Tangentopoli, di cui in questi mesi ricorre il trentesimo anniversario, e ciò che ne seguì. Il Presidente Cossiga, uno dei pochi atlantisti convinti, aveva colto questo aspetto con una lungimiranza che purtroppo restò isolata. Non a caso amava riferirsi alla nostra Costituzione come “una piccola Yalta” e, alla vigilia della sua ultima visita a Buckingham Palace, dichiarò all’Independent: “Due Paesi sono spaccati da una cortina di ferro: la Germania sul piano territoriale e l’Italia politicamente, moralmente, ideologicamente. Io non so dove la cortina di ferro sia caduta più pesantemente. Il crollo del Muro di Berlino è anche il crollo di un muro invisibile. Oltre alla Germania, anche noi siamo stati liberati e riunificati. Anche per noi la guerra è quasi finita”. Quello del Presidente della Repubblica era un invito a tutto il sistema politico italiano: occorreva riformarsi radicalmente perché le nostre storture e assurdità non sarebbero più state condonate in ossequio alla guerra di resistenza tra blocchi e per via di una democrazia bloccata “nel suo punto più delicato”, ovvero l’alternanza. Ed era in particolare un invito al Partito Comunista a farsi forza socialdemocratica occidentale e di governo, partecipe della possibile alternanza finalmente conquistata.
Il sistema partitico italiano non comprese e anzi si arroccò, in un dualismo tra destra e sinistra che si faceva sempre più conservativo. Giulio Andreotti, che aveva ambizioni concorrenti a quelle di Cossiga, tirò anzi fuori la vicenda Gladio, consapevole degli effetti che la mossa avrebbe avuto sullo stesso Presidente della Repubblica. Da laico legittimatore dei comunisti sul piano internazionale, Cossiga dovette passare anni a difendersi dalle ombre di oscuro manovratore anti-comunista. Curiosamente, sosterrà sempre che tra i fondatori di Gladio ci fosse stato anche il suo mentore Aldo Moro. I riflessi interni della spaccatura tra est e ovest caratterizzarono in quel periodo il crollo stesso della prima Repubblica. Il 10 aprile 1990 il Presidente Cossiga concesse un’amnistia per vari reati compiuto fino al 24 ottobre 1989 (pochi giorni prima della caduta del Muro). Tra i reati amnistiati ci fu anche il finanziamento illecito ai partiti. In questo modo si creò inconsapevolmente una demarcazione comprensibile solo anni dopo: vennero depenalizzati anche tutti i finanziamenti versati ai comunisti italiani dall’Unione Sovietica o da altri Stati dell’Est. Tale demarcazione disegnò inevitabilmente i confini di Tangentopoli rispetto a certi partiti. E portò alla fine di un sistema partitico nato nel 1946 per reati commessi in una trentina di mesi.
Proprio riguardo ai comunisti italiani, molti potrebbero obiettare che già nel 1976 Enrico Berlinguer aveva dichiarato di sentirsi “più sicuro sotto l’ombrello della NATO”. Pochi giorni fa, per il centesimo anniversario della nascita del leader comunista, la stessa Bianca Berlinguer ha voluto citare quella frase, sottolineando come suo padre avesse voluto “allontanarsi dal modello sovietico per trovare una via italiana ed europea al comunismo… guardare all’Occidente e non al Patto di Varsavia, fare scelte giuste e lungimiranti rispetto al futuro”. Una descrizione decisamente viziata dal senno di poi che pure (al di là dell’ammirazione di figlia per un padre grande personaggio) racconta come la stessa famiglia desideri che il padre venga ricordato. Ciò che pochi raccontano, tuttavia, è che quella intervista (di Giampaolo Pansa) uscì il 15 giugno, a pochi giorni dalle elezioni, contemporaneamente sul “Corriere” e sull’”Unità” e “Liberazione”: sugli organi comunisti proprio quel passaggio venne stralciato. Una mossa chiaramente elettoralistica e con ogni probabilità avvenuta col consenso del Segretario del PCI, che si allontanerà definitivamente da Mosca solo negli anni ’80. Giusto nel 1981 arrivò a dire, ancora senza abbandonare il marxismo-leninismo e rifiutando strade socialdemocratiche: “Ciò che è avvenuto in Polonia ci induce a considerare che effettivamente la capacità propulsiva di rinnovamento delle società, o almeno di alcune società, che si sono create nell’est europeo, è venuta esaurendosi. Parlo di una spinta propulsiva che si è manifestata per lunghi periodi, che ha la sua data d’inizio nella rivoluzione socialista d’ottobre, il più grande evento rivoluzionario della nostra epoca, e che ha dato luogo poi a una serie di eventi e di lotte per l’emancipazione nonché a una serie di conquiste”. E ancora durante la crisi degli Euromissili, terrà un posizionamento di fatto utile alla causa sovietica. Senza contare peraltro gli intensi rapporti che l’URSS continuerà a intrattenere con il PCI cossuttiano.
D’altra parte, era l’Italia delle “tre politiche estere”: quella del PCI, quella mediterranea e filo-araba degli Andreotti e dei Craxi (cui va riconosciuto di averci saputo proiettare come Paese leader del Mediterraneo) e quella “istituzionalmente” euro-atlantica, cui davano sostanza effettiva pochi statisti, come Spadolini. Superata la fase filo-americana a cavallo tra gli anni ’90 e 2000, nemmeno la seconda Repubblica seppe offrire forme di atlantismo coerente, e in generale una visione che superasse il corto raggio. Il Berlusconi amico fraterno di Putin che da vent’anni ripeteva la favola stantia dello “spirito di Pratica di Mare”; il Prodi filo-russo, la dipendenza energetica accresciuta anche sotto gli ultimi governi a guida PD.
La nostra collocazione internazionale non è solo l’effetto di scelte politiche interne: è stata e continua ad essere anche una matrice della politica interna, una sorta di costituzione non scritta. Nei decenni in cui, dalla fine della Seconda guerra mondiale alla caduta del Muro, il nostro posizionamento ha reso impossibile l’alternanza (per ragioni sia esterne che interne), le stesse anomalie italiane hanno trovato varie forme di contenimento e giustificazioni. Nel momento in cui le limitazioni novecentesche caddero, le anomalie di un sistema partitico che sfociava nel racket malavitoso, sorretto su uno stato assistenziale a debito e su una certa indulgenza verso l’evasione fiscale, sfociarono in una pseudo-rivoluzione giudiziaria a furor di popolo. Riguardo a ciò che ne seguì, se la “terza Repubblica” è figlia della seconda, tanto basta a tirare un bilancio su quest’ultima.
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“reati compiuto”