Mi chiedevo se fosse possibile riuscire a far più confusione sul programma Next Generation EU di quanta non si fosse fatta sul MES. Devo esser sincero, pensavo con il MES avessimo toccato il fondo. Ma, come diceva qualche saggio, una volta toccato il fondo si può sempre iniziare a scavare, il che è particolarmente vero quando ideologia, disegni di bassa politica, e scarsa conoscenza si sommano in un mix che, a ben guardare, lascia poche speranze. Se vogliamo, però, che qualche speranza ci sia è fondamentale fare un po’ di chiarezza.
In brevissimo, il Next Generation EU prevede 750 miliardi (di cui 500 in grants) che verranno finanziati con l’emissione sul mercato di titoli europei, i quali andranno ad aumentare il budget della commissione. Iniziamo subito con il dire che il metodo scelto è molto corretto. Infatti, viene finanziata una percentuale che è oggettivamente modesta vis-à-vis il PIL europeo, e tale percentuale andrà a progressivamente a diminuire nel tempo come risultato della crescita del prodotto interno lordo dell’EU da qui al 2058.
Stiamo parlando di un’iniziativa storica. Nonostante non sia la prima volta in cui l’Unione Europea si muove per emettere titoli le dimensioni fanno la differenza. Nei nove anni pre-COVID (2010-2019) l’UE ha emesso un totale 69 miliardi. Il passo avanti, esplicitato in questa decisione, è evidente, ed andrà ad obliterare il record precedente. Da un punto di vista tecnico, siamo di fronte a quello che viene comunemente definito un Hamiltonian moment (da Alexander Hamilton che, nel 1790 superò l’opposizione di Thomas Jefferson e James Madison, raggiungendo un compromesso in cui lo stato federale US decise di assumersi i debiti degli stati)? La risposta è no. Ne siamo ben lontani, e su questo tema tornerò in altri articoli. I problemi dell’Unione continuano ad esistere.
Allo stesso tempo, è innegabile che quanto sta accadendo in questi giorni possa essere letto come un segnale positivo. Infatti, il fatto che l’allocazione delle risorse risulti in un trasferimento fiscale netto per alcuni paesi (tra cui l’Italia), supera un altro dei tanti tabù europei, lungamente discusso tra economisti e practitioner. Un tabù che cede di schianto sotto la pressione di una crisi la cui velocità non ha precedenti.
Questo passaggio rivoluzionario nel trasferimento fiscale netto è evidente quando ci soffermiamo sui grants. Facendo due rapidi conti. L’ammontare totale dei grants è di 500 miliardi di euro, a cui vanno “sottratti” 67 miliardi a garanzia delle iniziative centralizzate a Bruxelles ed ulteriori 7 miliardi che vengono assegnati sia ad aiuti umanitari fuori dall’UE e alla protezione civile europea. Di conseguenza, tecnicamente, queste risorse non vanno direttamente ai paesi membri. Una volta sottratti questi 74 miliardi di euro, ci rimangono 426 miliardi in grants. Ad oggi, ancora non sappiamo come tutti questi fondi verranno ripartiti.
Per semplificare, è conveniente allora utilizzare la stessa allocazione prevista nel Recovery And Resiliance Facility, la quale prevede che l’Italia riceva il 20.45% del totale. Utilizzando tale percentuale, l’Italia riceverebbe all’incirca 87 miliardi (in grants) – un poco di più di quanto riportato dai mezzi di comunicazione, che si attestano su circa 82 miliardi di euro. Se però aggiungiamo la percentuale relativa alle iniziative centralizzate destinata all’Italia, allora raggiungiamo la tanto richiesta somma di 100 miliardi.
La domanda di molti, dove si aggiunge un altro velo di confusione, è: quanto dobbiamo pagare per ottenere questi fondi? Nella peggiore delle ipotesi (ossia quella in cui non vi è un aumento delle risorse proprie UE, cosa che, come detto inizialmente data la discussione odierna sul tema, pare improbabile) l’Italia continuerebbe a pagare la propria quota di bilancio di circa il 13%. Utilizzando come base di riferimento il PIL 2019, questa percentuale si tradurrebbe in 55 miliardi su un totale di 426 totali in grants.
Ciò significa che, anche nella peggiore delle ipotesi possibile, l’Italia riceverebbe un trasferimento netto di 32 miliardi – ossia approssimativamente il 2% del proprio prodotto interno lordo. Quelli che odiano l’UE la possono leggere cosi: Bruxelles ci ridà circa 8 anni di contributi netti. Tutti gli altri possono esser semplicemente contenti di questo trasferimento senza bisogno di connotarlo in maniera negativa.
In aggiunta, quando si parla di grants, l’Italia è l’unico paese tra quelli che normalmente sono contribuenti netti a diventare beneficiario netto. Tutti gli altri continuano ad essere nella loro situazione originaria. Il fatto che l’Italia cambi diametralmente la propria posizione è il sintomo più chiaro di questa (accennata) solidarietà fiscale europea.
Certo, molti si lamentano del fatto che ci saranno condizioni nello spendere queste somme. Ma pensiamoci bene, per un momento. È davvero negativo che ci siano? Se queste condizioni sono dirette ad utilizzare le risorse in maniera efficiente, produttiva, e verso settori utili, qual è il problema?
Non c’è, anzi. È un fatto eminentemente positivo. Questo dovrebbe esser chiaro in particolare in un paese come l’Italia, in cui i soldi a pioggia sprecati (si, sprecati) nel mezzogiorno hanno dimostrato infinite volte che la mancanza di ogni condizionalità non incentiva crescita, sviluppo, e convergenza. Al contrario, è mia ferma convinzione che una situazione siffatta stimoli ulteriore mancanza di convergenza, decrescita e, in buona sostanza, un totale fallimento di policy. Certo non suggerisco di mettere condizionalità senza senso, stile austerity fine a sé stessa di (purtroppo) recente memoria. Al contrario. Ma vincolare le risorse ad un utilizzo virtuoso delle stesse è qualcosa di fondamentale.
Tutto ciò particolarmente vero quando parliamo di Italia, ossia un paese che non ha effettuato un aggiustamento sotto il profilo macro nel corso degli anni. E di un paese che è tristemente famoso nell’utilizzare risorse pubbliche al fine di un massivo voto di scambio. E qui mi limito a citare Alitalia, e mi taccio.
La verità è che il Next Generation EU è, nei fatti e di fatto, un atto di fede nei nostri confronti. Se vogliamo vedere altri passi verso una vera policy fiscale europea nel futuro, sarà il caso di non sprecarlo.