“Vedrai che non riuscirà a fare nessuna delle cose impopolari di cui c’è bisogno”, si diceva di Draghi.
“Vedrai che la scuola la lascerà perdere, ci sono cose più vitali di cui deve occuparsi”.
“Vedrai…”
Quand’ecco all’improvviso, a consultazioni ancora in corso, a governo non ancora formato, esce la soffiata: “Draghi vuole modificare il calendario scolastico per recuperare le ore perse con il Covid”.
Per chi vive e lavora nella scuola è stato un fulmine a ciel sereno. Chi con sgomento, chi con entusiasmo, abbiamo tutti fatto quella faccia che nei film americani precede la frase: “Caspita, ma allora questo fa sul serio”.
Perché questa è davvero la classica cosa impopolare di cui c’è bisogno.
Non la vogliono i professori, non la vogliono gli studenti, non la vogliono gli albergatori che ancora sognano a occhi aperti una stagione estiva come le altre, non la vogliono parecchi genitori. Delude chiunque. E infatti, prima ancora che la soffiata fosse confermata da alcune delegazioni di partito, il risentimento aveva iniziato a dilagare sui social:
“Quindi Draghi pensa che noi professori non abbiamo lavorato abbastanza?”
“Quindi Draghi non prova nessuna pietà per i poveri alunni che in didattica online stanno faticando il doppio?”
“Quindi Draghi…”
Un fuoco di fila che sta insinuando dubbi sul prolungamento estivo anche in persone di spiccato buonsenso. Perché è vero: anche se non fosse un prolungamento secco ma una rimodulazione ben studiata, con giornate scolastiche più brevi e sopportabili e con l’estensione “alla francese” di ponti e altri momenti di vacanza, resta il fatto che i ragazzi varcherebbero i cancelli della scuola – fisici o virtuali – almeno una decina di volte in più rispetto agli altri anni. E capisco che la cosa può far storcere il naso.
Proverò quindi a spiegare in due parole perché il prolungamento estivo, quantomeno alle superiori, è non solo possibile ma anche necessario.
Cominciamo da un dato che non tutti conoscono. Noi professori, compresi i supplenti con contratto fino a giugno, siamo considerati a disposizione fino al 30 di quel mese.
Di solito i nostri unici impegni a scuola nel mese di giugno sono gli scrutini, le prove scritte della maturità e alcune assemblee dei docenti, ma in teoria sarebbe pienamente legittimo chiederci di tenere lezioni e verifiche in quel periodo, tanto più se, come è probabile, la prova di maturità dovesse essere di nuovo solo una.
– E tra luglio e agosto come funziona?
Un altro dato che vi sorprenderà è che i famosi “due mesi di ferie” esistono di fatto ma non di diritto. I giorni di ferie sono 36, ai quali si aggiungono 9 domeniche: in linea teorica, quindi, di tempo residuo per allestire qualche attività estiva per far fronte a un’emergenza pandemica ce n’è in abbondanza.
Certo, per sconfinare su luglio andrebbe prorogato di un paio di settimane il contratto ai supplenti, ma il costo per le casse pubbliche non sarebbe proibitivo e i diretti interessati sarebbero tutt’altro che scontenti.
– Ma nel concreto non si tratta di lavoro aggiuntivo?
Sì, ma soltanto se l’istituto in cui si lavora ha mantenuto le lezioni di 60 minuti per l’intera durata della pandemia, il che non è avvenuto in nessuna parte d’Italia.
Già solo la didattica a distanza di ottobre, novembre e dicembre e quella “mista al 50%” di gennaio e febbraio hanno dato ai presidi la possibilità di ridurre l’orario fino a 20 ore settimanali, scarnificando ogni lezione fino a 40 minuti.
Sono rare le scuole che non hanno tagliato almeno un sesto, se non addirittura un terzo, della durata delle loro attività.
Nel caso più ottimistico, quindi, già solo le dodici settimane tra il 19 ottobre e l’8 febbraio hanno inflitto una perdita di orario equivalente a due settimane: proprio quelle che Draghi, a Dio piacendo, ci farà recuperare nel giugno 2021.
E la perdita degli ultimi mesi, per quanto grave, è niente se paragonata al baratro della scorsa primavera.
Se ricordate, fra la serrata del 23 febbraio e l’arrivo delle prime linee guida su come proseguire le lezioni online trascorsero ben tre settimane, durante le quali soltanto in pochissimi ci attivammo con Zoom, Meets, Teams, Youtube o Instagram.
Peraltro, anche dopo l’uscita delle linee guida, fare didattica online non era un obbligo legale per noi professori. Alcuni sparirono fino a settembre con tanti saluti.
Quanto ai ragazzi, sono noti i dati impietosi di Save the Children: il 53% ha avuto problemi di connessione o di device, il 43% ritiene che la sua preparazione sia stata danneggiata, il 60% che sia stata danneggiata la sua capacità di socializzare.
La rarefazione e la bassa qualità dell’apprendimento durante quei mesi giustificherebbero in pieno due ulteriori settimane di scuola nell’estate 2021.
Alcuni colleghi obietteranno che è umiliante calcolare l’apprendimento in minuti di orologio.
Sono d’accordo.
È per questo che da anni sostengo che il nostro lavoro di insegnanti dovrebbe essere misurato con altri parametri.
Peccato che abbiamo scatenato la guerra civile contro ogni tentativo di misurare con obiettività i nostri risultati. E adesso ne paghiamo le conseguenze: se per gli studenti fosse stato obbligatorio fare un test d’inizio, di metà e di fine anno quantomeno sulle materie dell’Invalsi (italiano, inglese, matematica, geografia e logica), avremmo avuto tutte le carte per dimostrare l’impatto catastrofico della didattica online, per mettere il mondo politico di fronte ai numeri e per costringerlo a reagire.
Invece abbiamo scelto di barricarci nella sensazione soggettiva, nell’impressione, nel giudizio personale, facendone trincee degli spiriti liberi in lotta contro la tecnocrazia senz’anima.
Magari avremo pure sconfitto la tecnocrazia, ma ci siamo ritrovati a mani nude contro il Covid.
In assenza di test periodici come l’Invalsi, non c’è alcun termometro oggettivo per misurare i danni inferti dalla pandemia all’apprendimento dei ragazzi?
In realtà un altro criterio esiste, anche se molto più rustico, e sono i programmi ministeriali. Quante quinte superiori arriveranno alla fine del Novecento in storia e in letteratura, come i programmi di scuola in teoria prevedono?
Ma già da prima del Covid i programmi erano carta straccia. Perché mai adesso si dovrebbe cominciare a prolungare i corsi fino all’estate per completare i programmi, se non lo si faceva neanche prima?
Insomma, resta sempre il sospetto che in fondo a noi professori piaccia l’idea che il nostro lavoro venga misurato soltanto in minuti di orologio.
Niente obiettivi, niente risultati, solo giri di lancette durante i quali possiamo fare sostanzialmente quello che ci pare. Gli scatti di stipendio vincolati solo all’anzianità, ovvero ai giri di lancette, sono il simbolo più deprimente di questa mentalità.
Per una volta assumiamoci la responsabilità delle nostre scelte.
Abbiamo combattuto per anni affinché il nostro lavoro fosse misurato e pagato a ore? Bene, quest’anno c’è almeno un sesto delle ore da recuperare.
Diamo questo esempio di coerenza. Tanto il mare non scappa.
2 comments
Tutto giusto. Ho insegnato solo tre anni, ma un’idea della scuola me la sono fatta. Sono stato per lavoro (nell’ambito “culturale”) anche in Germania, Finlandia, Libia e Canada quindi una vaga idea di dove si possa collocare l’Italia ce l’ho, dunque buona fortuna Draghi, il che vuol dire nel deprecato stato attuale, buona fortuna a noi.
articolo impietoso ma corretto. La vedo dura per Draghi
sono un medico di medicina generale in pensione e, per questa categoria, valgono le stesse considerazioni. Alla fine tutti si battono per “rendite di posizione” senza merito e senza indicatori.
Sarà òungo e difficile risalire.
buona fortuna a tutti i nostri figli e nipoti