Angela Merkel, lo testimonia la sua biografia, è donna di scienza non di chiacchiere, come invece la gran parte delle infelici comparse della commedia politica italiana ed europea. In questi anni di crisi, mentre i suoi avversari, succedendosi uno dopo l’altro sulle tribune, proclamavano a gran voce che, abbattuto il cancelliere tedesco, avrebbero sistemato il continente a modo loro – salvo poi cadere essi stessi uno ad uno – lei è rimasta invece in piedi a difendere imperterrita i principi del rigore e della competitività contro ai ciarlatani e ai banditori di elisir finanziari vari.
Ai fautori di improbabili piani di spesa pan-europei a carico dei contribuenti, Berlino ha sempre replicato che, se gli squilibri commerciali interni all’Eurozona erano stati causati dalle bolle inflattive e dall’esplosione dei costi unitari del lavoro sviluppate dalla periferia dell’unione monetaria, per aggiustarli, occorreva riportare indietro le lancette dell’inflazione in tale area, piuttosto che sostenerne artificialmente la domanda interna pompandovi ulteriore liquidità; anche a costo di sacrificare per almeno un lustro uno dei principali mercati di sbocco delle eccedenze produttive tedesche. Di qui la ferma opposizione della cancelliera alle risposte reflattive alla crisi incessantemente reclamizzate dal partito trasverale europeo dell’interventismo pubblico con la parola “crescita”.
Nonostante la caciara mediatica sollevata intorno al cosidetto “fallimento delle politiche di austerità”, i dati stanno confermando la correttezza di tale strategia. In perfetta simmetria con l’azzeramento del surplus commerciale intra-Euro della Germania, i saldi con l’estero di Spagna, Portogallo e Irlanda sono ormai costantemente in pareggio o in attivo (rispettivamente -0,2%, -0,1% e +4,0% in rapporto al PIL nel 2014), a dispetto delle accuse di mercantilismo ripetutamente mosse a Berlino. La consueta obiezione che tale correzione sarebbe avvenuta unicamente a causa del collasso della domanda interna degli stati in crisi, e quindi delle loro importazioni, trascura la forte crescita delle esportazioni registrato dai Paesi iberici negli ultimi 4 anni [vedi grafico a destra] e la loro risalita negli indici internazionali di competitività, che ne documentano inequivocabilmente il graduale ritorno a un modello di crescita sostenibile.
Sul fronte della finanza pubblica e del ritorno allo sviluppo, la strada è ormai in discesa: Irlanda e Portogallo – la prima in virtù di una robusta crescita, il secondo grazie anche alla sua encomiabile tenacia – ridurranno probabilmente il disavanzo al 3% già nel 2015; ed entrambi sembrano aver superato il picco del debito nel 2013. Meno univoca è la situazione a Madrid, ma i forti segnali di crescita percepiti negli ultimi mesi fanno pensare che le previsioni verranno corrette in meglio e la Spagna raggiungerà il 3% di deficit e arresterà la crescita del rapporto debito/PIL già il prossimo anno. In ogni caso possiamo asserire che, con buona pace dei falsi profeti del deficit spending, la “spirale recessiva”, cioè quel paradosso per effetto del quale il consolidamento fiscale avrebbe portato ad una contrazione di queste economie tanto grave da deteriorarne in fine la stessa finanza pubblica, non si è materializzata e che le politiche di rigore, lungi dall’aggravare gli squilibri interni, li stanno in realtà correggendo: i Premi Nobel e i Professori di Princeton, invece di dare lezioni, prendano appunti.
Passando ad un confronto tra macroaree [vedi grafico a destra], notiamo che l’intera Eurozona sui conti pubblici batte gli USA – che pure hanno fruito in questi anni della manna del gas di scisto – col 2,3% contro il 2,8% di disavanzo e col 92% contro il 102% di debito/PIL rispettivamente. Il gravame di questo titanico aggiustamento è stato temporaneamente scaricato sul saldo con l’estero, che ha raggiunto un attivo tanto gigantesco (€ 240 Md. nel 2014) da apparire quasi sinistro, sebbene anche i commentatori più lucidi negassero che ciò potesse accadere[1]. Tale dato, nella sua spettacolarità, misura perfettamente la follia degli apprendisti stregoni dell’autarchia, che vorrebbero isolare l’Europa da quello sviluppo dei commerci globali di cui essa è invece uno dei maggiori beneficiari. È vero che la crescita complessiva dell’Eurozona rimane debole, ma il dato è viziato dalla stagnazione proprio di due Paesi tra i più renitenti alle riforme, Francia e Italia, che assommano quasi il 40% del volume economico del blocco. Resta da sciogliere il nodo della disoccupazione, in forte calo nell’ultimo anno e mezzo, ma ancora su livelli decisamente troppo alti (11,2% a Gennaio 2014). A pesare è soprattutto il mercato del lavoro spagnolo, le cui prospettive, grazie alla ripresa ormai in atto, stanno però rapidamente cambiando, facendo ben sperare anche per un miglioramento del dato generale.
Si consideri infine che questa analisi verte pressoché interamente sulla situazione anteriore alla decisione della BCE di operare un massiccio intervento di allentamento quantitativo (QE), che da un lato porterà ulteriore ossigeno alle finanze degli stati in difficoltà e – almeno sul breve termine – ne migliorerà prospettive di crescita; dall’altro darà luogo alle consuete mistificazioni per cui l’aggiustamento degli squilibri raggiunto negli anni passati sarà ricondotto alla pioggia di Euro di Draghi invece che alle politiche di rigore.
Possiamo quindi concludere che, nonostante rimanga molto da fare, i risultati sin qui conseguiti sono incoraggianti e non offrono alcuno spunto razionale in favore del cambio di direzione chiassosamente invocato dai tribuni nazional-populisti. Chi scrive sa bene che i commedianti non verranno meno alla loro parte; ma i numeri sono cocciuti e non si lasceranno persuadere. E i numeri per ora incoronano Regina Angela.
[1] Parlando di commentatori lucidi, ci riferiamo ovviamente a Seminerio non a Fassina.
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[…] Angela Merkel più di due anni orsono avevamo elogiato non solo la metodologia dell’azione politica, ma anche e soprattutto la tenacia esercitata nel […]