Settimana prossima il Presidente della Banca Centrale Europea Mario Draghi lascerà il suo incarico all’istituto di Francoforte: a succedergli, come stabilito già nel giugno scorso, l’ex direttrice del Fondo Monetario Internazionale Christine Lagarde. Mario Draghi è forse la figura italiana più importante in termini di prestigio internazionale che l’Italia possa vantare: prestigio che a livello politico gli è sempre stato riconosciuto quasi all’unanimità. Draghi infatti potrebbe essere interpretato come il perfetto erede di Carlo Azeglio Ciampi, con il quale ha lavorato negli anni Novanta al Tesoro. Entrambi, governatori della Banca d’Italia ed europeisti. Vista la nuova maggioranza parlamentare, non è da escludere che il successore di Sergio Mattarella – da eleggere nel 2022 – possa essere proprio l’ex Presidente della BCE.
È quantomeno bizzarro definire– come è stato fatto negli anni da alcuni maghetti e lievitatori di consenso – Draghi come “nemico” dell’Italia: per il Belpaese, il Presidente della BCE si è speso moltissimo e ha contribuito a tenere alto – per quanto possibile – l’onore italiano, nell’era dei sorrisetti del tutto fuori luogo di Nicolas Sarkozy e Angela Merkel, interpretati da tutti come un’umiliazione non solo nei confronti del Presidente del Consiglio italiano di allora, Silvio Berlusconi, ma di un intero paese. Era il 2011: l’estate si era surriscaldata quando il Presidente della BCE di allora, Jean-Claude Trichet e quello della Banca d’Italia Mario Draghi avevano mandato al governo italiano la lettera sulle riforme strutturali. Rimasta, ovviamente, quasi del tutto lettera morta allo stato attuale, otto anni dopo.
C’è da dire che l’appoggio del Cavaliere alla candidatura di Draghi a Francoforte è stata decisiva. Succeduto a Trichet, nell’autunno 2011 – quando al posto di calare la temperatura dei mercati stava per raggiungere le vette inesplorate degli oltre 570 punti di spread tra il BTP italiani e i BUND tedeschi – Draghi si trovò ad affrontare la crisi dell’Eurozona. Dimessosi Berlusconi, arrivò Mario Monti. Sette mesi dopo, il neo-Presidente dell’istituto di Francoforte disse che avrebbe fatto tutto il possibile – lo storico «whatever it takes» – per salvare l’Euro. Sette anni dopo possiamo dire che Draghi ha certamente fatto tutto il possibile, ma il target d’inflazione non è ancora soddisfacente, nonostante – piano piano – l’Unione Europea – salvo le solite e ben note eccezioni – si è tirata fuori dalla crisi. Il prezzo è stato alto: molti paesi fanno ancora fatica a raggiungere i livelli di produttività pre-crisi.
Per quanto si sia attirato negli anni le aspre critiche di molti tedeschi, Draghi ha sempre goduto di un rapporto privilegiato e di stima con Merkel. Difficile sarebbe stato azionare il cosiddetto bazooka – l’iniezione massiva di liquidità materializzatasi nell’acquisto mensile di titoli di Stato dei paesi ue (Quantitative Easing) – senza l’appoggio della prima economia dell’Unione. Il QE è stato “copiato” dalla Federal Reserve, la banca centrale americana, che ha comprato una quantità enorme di titoli di Stato – circa quattromila miliardi di dollari – inondando il mercato di liquidità, consentendo credito facile, a buon mercato. Ci vorranno anni per “smaltire” la liquidità iniettata nel mercato dalla BCE (la polemica se questa fosse una politica scellerata o meno è aperta), ma se quasi tutti i paesi hanno approfittato nella marea di liquidità – pian piano dosata col passare del tempo – per rilanciare la propria economia interna, è anche noto che l’Italia ha perso l’occasione per rilanciarsi.
«Il debito oggi» ha scritto Lucrezia Reichlin sul Corriere della Sera – «è molto conveniente […] ma chi lo può chiedere, perché ha un profilo a basso rischio, continua a mostrare “timidezza”, mentre agli altri che presentano maggiori rischi le banche non lo danno. Ci sono molte ragioni per questa avversione al rischio. In parte l’invecchiamento della popolazione, in parte l’incertezza dovuta a mutamenti tecnologici […], e naturalmente l’incertezza legata a un ordine mondiale che fa i conti con la fine dell’egemonia esclusiva degli Stati Uniti. In Europa c’è qualcosa in più. La crisi ha lasciato ferite e diffidenze reciproche.» Tutte le politiche monetarie espansive – che verranno pagate duramente negli anni a venire secondo certi osservatori – potrebbero rivelarsi inutili se c’è una mancanza di fiducia nei cittadini nei confronti del credito facile, che istiga e promuove il consumo.
La liquidità sparsa sul mercato dal QE ammonta ad un totale di 2600 miliardi di Euro. Nel 2016 Francoforte ha azzerato i tassi di interesse; ora sono in territorio addirittura negativo: il che è un ulteriore stimolo a spendere la moneta. «La realtà è che abbiamo goduto, in questi lunghi e tormentati anni, di un ombrello monetario protettivo eccezionale», ha scritto Ferruccio de Bortoli su L’Economia (15 luglio 2019). «Abbiamo finito però per considerarlo uno “stato naturale” […] Ci siamo adagiati sui nostri difetti, finendo poi […] per coltivarli, mettendo a rischio la tenuta del sistema pensionistico, riscoprendo le suggestioni dello Stato imprenditore.»
Se molti paesi europei – specialmente gli ex “colleghi” PIGS (Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna) dell’Italia – hanno optato per più o meno dolorose riforme – tra cui l’innalzamento dell’età pensionabile e l’abbassamento del debito tramite spending review – Roma ha preferito galleggiare. Il risultato? Aumento del deficit e del debito, ma soprattutto la quasi totale assenza di riforme strutturali, nonostante le condizioni eccezionali che la Banca Centrale Europea diretta da Draghi aveva predisposto. Che sia di monito ai politici. «Una politica monetaria espansiva non rinvia le riforme, ma crea lo spazio per fare le riforme» ha detto il Presidente uscente il 20 settembre scorso all’università Bocconi in occasione dei settant’anni dell’amico Francesco Giavazzi. Draghi è stato responsabile: lo sono stati molto meno quelli che avrebbero dovuto incentivare i benefici di politiche monetarie eccezionali, nonché una revisione delle spese inutili e dannose.
1 comment
Condivido completamente. Draghi sarebbe l’ideale un domani come Presidente della Repubblica. Oserei aggiungere: abbiamo un governo che sì, ha migliorato i rapporti con l’Europa ed è importantissimo, ma sta vivacchiando tra infiniti contrasti ed è privo, a mio avviso, di un progetto strategico imperniato su quelle riforme che in Italia sembra impossibile fare. VaRenzi riuscisse ad avere una consistenza tale da contare un po’ di più in termini di consenso e non siolo sul numero di parlamentari fedeli, un Draghi alla Presidenza del Consiglio per il tempo necessario ad impostare una politica di risanamento dei conti e di avvio delle riforme non sarebbe male. Ci vorrebbe poi un lasso di tempo per cominciarne a vedere i risultati, per poi farlo salire alla Presidenza della Repubblica.
Un quesito che mi piacerebbe trovasse una risposta da parte delle forze politiche è perché le sempre citate riforme sembrano impossibili in Italia, quando anche Spagna e Portogallo le hanno pur fatte.