L’Unione europea non si è mai dovuta preoccupare tanto quanto ora delle sue condizioni di salute strutturali. Un Paese membro, turbolento, a volte contraddittorio, ma essenziale per l’Unione, rischia di abbandonare il gruppo dei 28. Il 19 febbraio il Consiglio europeo ha concluso con l’UK un accordo che, almeno nelle intenzioni del fronte non europeista britannico, avrebbe dovuto inaugurare una riforma dell’Unione secondo le linee guida volute da Londra e contribuire così a evitare la c.d. Brexit. In effetti il testo dell’accordo – incentrato su immigrazione, sovranità, competitività e governance economica – contiene numerosi riferimenti allo status “speciale” del Regno Unito nella costruzione europea. Ma davvero si preannuncia potenzialmente capace di riformare in profondità il sistema comunitario?
Anzitutto va precisato che l’accordo non avrà alcun effetto se nel referendum del 23 giugno prossimo il fronte a favore della permanenza dell’UK in Europa uscirà sconfitto. Non è un ostacolo di poco conto, anche perché l’esito del referendum è in parte legato alla possibilità di far leva sull’accordo stesso per influenzare il voto. Meno l’accordo è portatore di riforme, meno facile sarà convincere gli euroscettici o parte di essi. D’altra parte, più l’accordo è innovativo, più è possibile che l’acquis comunitario sia messo in serio travaglio.
Partiamo dall’immigrazione e dalla libera circolazione: ritenendo il massiccio numero di lavoratori comunitari un onere per il proprio sistema previdenziale, a Londra si è puntato a rendere meno attraente il mercato del lavoro britannico proponendo i c.d. “freni d’emergenza”, ossia riduzioni sui contributi versati ai lavoratori non nazionali (benché comunitari). Dato l’effetto limitativo alla libera circolazione, queste riduzioni sono stati concepite come una deroga temporanea basata su esigenze imperative a salvaguardia dell’integrità interna dello Stato (riconosciute come tali dai Trattati e soprattutto dalla Corte di Giustizia), tra cui figura la salute del sistema di sicurezza sociale.
Tuttavia, due ordini di problemi possono ostacolare l’entrata in vigore di tale sistema. Il primo è di ordine procedurale ed è chiaramente rilevabile nel testo dell’accordo. La possibilità per l’UK di applicare i “freni” è soggetta a una serie di condizioni: prima, ovviamente, il voto al referendum; ma non sarà finita lì. Bisognerà a quel punto modificare la legislazione comunitaria, e benché con dichiarazioni allegate all’accordo la Commissione si sia impegnata a proporre una modifica in tal senso e il Consiglio si sia impegnato a supportarla, resta la possibilità che il Parlamento europeo si opponga. Inoltre, anche se la modifica venisse approvata, l’UK – come qualsiasi altro Stato – dovrà ottenere uno specifico nulla osta dal Consiglio prima di poter procedere. Il secondo problema attiene alla compatibilità del sistema dei “freni” con il diritto comunitario. Nonostante la Corte abbia in più occasioni permesso eccezioni anche ampie alla libera circolazione, non si può prevedere con certezza l’approccio che adotteranno i giudici di Lussemburgo in caso di ricorso.
Il vento riformatore annaspa anche in tema di sovranità. Sì, l’accordo riconosce l’esistenza di due prospettive diverse e divergenti nel campo dell’integrazione, e statuisce che non va compromessa la decisione di alcuni Paesi di non procedere a forme di approfondimento comunitario in determinati settori. Però questa non è una novità, visto che l’istituto della cooperazione rafforzata esiste da tempo; non innova di per sé la struttura, aggiungendosi solo a numerose dichiarazioni già emesse in tal senso negli ultimi anni. Di impatto dubbio è anche il rilievo che al Regno Unito non si applicherà il riferimento a “un’Unione sempre più stretta” (art. 1 TUE): al di là del fatto che questo rilievo troverà applicazione solo in una futura riforma dei Trattati, le sue conseguenze sono materia di feroce speculazione; francamente, non pare in grado di aggiungere davvero qualcosa alla capacità di Londra di tenere al riparo parte della propria sovranità tramite gli strumenti di cui già dispone a livello comunitario.
In prospettiva più incisivo, soprattutto perché non limitato alla Gran Bretagna, pare essere il meccanismo c.d. del “cartellino rosso”, voluto per dare più poteri ai parlamenti nazionali nei confronti del processo decisionale europeo. Il 55% delle assemblee degli Stati membri potrà infatti sostenere un parere motivato incentrato sul principio di sussidiarietà e costringere il Consiglio ad abbandonare la discussione di una proposta legislativa comunitaria, se essa non avrà nel frattempo subito adeguate modifiche. Anche qui, però, guardiamo alla realtà dei fatti e alla storia: fino a ora i Parlamenti nazionali non sono mai riusciti ad avviare nemmeno una procedura c.d. di “cartellino arancione”, che prevede una soglia leggermente più bassa rispetto alla quella appena descritta.
Effetti tangibili potrà invece avere la sezione dell’accordo dedicata alla governance economica. Si afferma infatti che eventuali interventi volti a ristrutturare le istituzioni della zona Euro non potranno gravare sul bilancio di Stati che non ne fanno parte, e che va garantita l’assenza di qualsiasi discriminazione tra Paesi membri fondata sull’appartenenza all’Eurozona. In più, in una Decisione del Consiglio, si introduce un meccanismo di non scarsa importanza: un Paese membro, anche non facente parte dell’Eurozona, potrà sollevare un dibattito in seno al Consiglio per far riconsiderare l’adozione a maggioranza qualificata di un atto legislativo in materia di unione bancaria; si tratta di un’arma di rilievo che insiste sulla volontà non integrazionista di alcuni Stati e in particolare dell’UK, specialmente in ambito economico-finanziario, sebbene vada tenuto conto che anche questa Decisione avrà efficacia solo dopo un voto favorevole nel referendum.
Di segno esclusivamente declaratorio è infine la sezione sulla competitività, ma si tratta della materia meno problematica, e – anzi – una delle poche in cui Unione e Gran Bretagna condividono quantomeno un’ispirazione e un obiettivo di fondo.
Qual è il bilancio finale? Se si eccettua la sezione sull’economia, le riforme proposte dall’UK sono, da un lato, limitate a dichiarazioni di tipo internazionalistico; dall’altro, in alcuni settori non si presentano sicure né politicamente né giuridicamente. In effetti il Regno Unito ha ottenuto una gran buona parte dei propositi che il governo, sapendo di non poter forzare troppo la mano, aveva messo sul tavolo, mentre i fronti euroscettici si aspettavano molto di più. Da parte sua, non è che l’Unione abbia fatto grandi passi indietro. O meglio, probabilmente ne ha fatti in passato garantendo posizioni privilegiate, ma in questo accordo pare aver concesso non più di quanto poteva permettersi tenendo conto della necessità di tenere dentro i britannici. Gli equilibri dunque non sembrano essersi più di tanto spostati; ciò vale anche e soprattutto in Gran Bretagna, dove il governo, per convincere la popolazione a implementare un accordo forse non sufficiente a placare gli animi interni, farà probabilmente meglio a evidenziare i vantaggi tangibili, sul campo, della membership britannica più che le flebili conquiste, sulla carta, ottenute a Bruxelles.