Due avvenimenti avvenuti negli ultimi giorni in Turchia rilanciano, anche se indirettamente, il tema della posizione del Paese nelle sue relazioni con il vicinato, in primis con l’Unione europea. Le dimissioni del primo ministro Ahmet Davutoglu e la condanna a 70 mesi di reclusione inflitta per violazione del segreto di Stato a Can Dundar, direttore di un giornale di opposizione, non fanno altro che rafforzare i dubbi sulla capacità della Turchia di mostrare una qualche sorta di affinità con i valori e gli interessi europei. Lo fanno da due prospettive diverse: le dimissioni (o l’allontanamento) dell’ormai ex primo ministro rischiano di privare lo scenario politico turco di una figura capace di esercitare una qualche sorta di contrappeso allo spiccato autoritarismo isolazionista del presidente Erdogan; la condanna di Cundar rigetta un’ombra inquietantemente ampia sulla tutela della libertà di stampa, in Europa annoverata saldamente tra i principi cardine dei sistemi democratici.
Non che fossero necessari questi ultimi episodi per far emergere rilevanti perplessità in ordine all’allineamento della politica turca agli interessi dell’Unione: oltre alla questione di Cipro e a tutte le eloquenti testimonianze in tema di diritti umani, sarebbe sufficiente analizzare le strategie turche nella guerra allo Stato Islamico in Medio Oriente. Eppure, gli eventi di questi giorni impongono di non nascondere la testa sotto la sabbia e di porsi domande in un certo senso “esistenziali” che non possono più attendere.
Da ben 11 anni si protraggono i negoziati formali per l’ingresso a pieno titolo della Turchia nell’Unione, ma questo obiettivo era già stato individuato molto tempo prima, da quando – a fine anni ’80 – il governo turco aveva presentato all’allora Comunità Europea la propria candidatura all’adesione. Ora, sui 33 capitoli che compongono il negoziato, ad oggi solo 3 risultano in stato “allineamento completo”: ciò vuol dire che, su 33 diversi settori della politica e dell’economia, soltanto in 3 di essi la Turchia si è adeguata in maniera soddisfacente agli standard comunitari. Un po’ poco per un paese che aspira ad ottenere la membership. Alcuni di questi capitoli interessano il nucleo duro, il “disco rigido” di ciascun paese: se si è in presenza uno stato di diritto effettivo, unito al rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali, bene; se no, molto meno bene. La Turchia presenta gravi carenze sotto questo profilo, ampiamente documentate; si tratta di principi su cui nessuna deroga può essere ammessa, sia perché esemplificano una precisa scelta dell’Unione nel concepire le strutture politiche e i rapporti tra potere e cittadini, sia perché sono le condizioni senza cui tutto il resto del “software” (mercato interno, concorrenza, tutela ambientale, ecc.) non può funzionare correttamente perché strettamente dipendente dal linguaggio scritto nei principi di cui sopra. Basterà un esempio: una tutela efficace dell’imprenditore nei confronti dell’amministrazione presuppone che la magistratura sia indipendente e non influenzata dall’amministrazione stessa. Almeno.
Peraltro, la Turchia non è un paese europeo nel senso pieno del termine. Si potrebbe discutere lungamente sul significato del termine “europeo”, ma credo che la posizione geografica e le tonalità culturali e religiose più diffuse tra la popolazione siano sufficienti per suffragare l’affermazione. Nei Trattati europei non c’è ostacolo formale all’adesione di uno stato a maggioranza islamica; c’è però, a mio avviso, un ostacolo indiretto, di sostanza, individuabile in numerose formule tra cui quella che allude a una unione sempre più stretta, la quale implica valori comuni e un sostrato storico-culturale, addirittura psicologico, in cui possano identificarsi gli abitanti dei diversi Paesi membri. Lo credeva fermamente Valéry Giscard d’Estaing, che nel 2002 affermava: “On ne peut pas discuter, comme nous le faisons, de la législation interne de l’Union, sur des points extrêmement sensibles de la vie quotidienne uniquement européens, et dire que certaines discussions seraient étendues à des pays qui, pour des raisons tout à fait estimables, ont une autre culture, une autre approche, un autre mode de vie.” Giscard non aveva in mente solo la Turchia.
Va detto, in effetti, che la riflessione sulla Turchia è solo una parte – benché forse la più consistente e d’attualità – di una riflessione ben più ampia che merita di essere svolta sul tema dell’allargamento della membership comunitaria a nuovi stati, che a sua volta propone di interrogarsi sull’obiettivo stesso della costruzione europea. Perseguito soprattutto per accelerare il processo di stabilizzazione di aree europee/euroasiatiche dal passato travagliato e per ingrandire le dimensioni del mercato comune, l’allargamento è tuttavia stato per l’Unione anche fonte di grattacapi strutturali, dalla soluzione difficilmente concepibile. Lo si è visto lo scorso anno – e lo si sta riconstatando in queste settimane – con il rischio di default della Grecia e la sua evidente incapacità di rispettare i requisiti dell’Eurozona; in questo caso si tratta dell’allargamento di una sotto-area dell’Unione, ma il concetto di fondo è lo stesso: farsi troppo morbidi sui requisiti di ammissione in un sistema, come è stato con la Grecia, presenta rischi gravissimi quando subentrano motivi di turbativa che richiedono risposte omogenee e stabili.
In sostanza, l’azione esterna dell’Unione decisa a livello politico è sembrata perdere memoria di quale fosse e sia l’obiettivo dell’integrazione europea, ossia – al di là del garantire la pace nel continente – sviluppare un’area economicamente e politicamente coesa nonché forte e competitiva sulla scena internazionale. Si sono travisate le riecheggianti parole sull’apertura internazionale della “potenza civile europea”. Si sono sottostimati altri strumenti di cooperazione meno impegnativi e definitivi dell’adesione completa. Si è forse perso di vista cosa implica il concetto di adesione per un sistema come l’Unione europea, ossia un sistema che fa dell’omogeneità, della condivisione e della reciprocità i propri punti di forza. All’Unione serve distinguersi, serve rimarcare una frontiera esterna, perché il mantenimento della distinzione rafforza l’identità e solidifica l’unità interna. Dato il livello di integrazione raggiunto dai suoi membri, e dato che questa unità interna si deve raggiungere tra popolazioni che hanno tutte un certo, legittimo, sentimento nazionalistico, è ancora più prezioso tenerne conto.
D’altra parte lo vediamo in questi mesi anche tra i membri core dell’Unione: quanto è duro far partire i motori della solidarietà e della leale cooperazione in materia di politica economica e politica migratoria tra gli stessi Paesi fondatori? Tornando alla Turchia, l’interrogativo si porrebbe fin da subito, e non solo in caso di crisi. Dal massiccio allargamento ad Est si sono susseguiti problemi di recepimento del diritto comunitario, difficoltà procedurali dovute a membri troppo numerosi e troppo diversi, persistono differenze socio-economiche allarmanti (si pensi al costo del lavoro). Possiamo aspettarci che la Turchia, con l’aggravante delle tradizioni socio-culturali e del numero di abitanti, si dimostri un membro più virtuoso?
Dobbiamo quindi fermarci un attimo e domandarci se quanto è stato fatto e quanto è in programma sia o meno in accordo con la priorità massima dell’Unione, vale a dire preservare e rafforzare la propria forza identitaria. Oggi più che mai serve concentrarsi su quali scelte possono portare più vantaggi e meno destabilizzazione. In breve, ogni tanto serve un po’ più di sano egoismo.