Difendere Israele non significa difendere Netanyahu, ma farsi promotori della democrazia. I Salvini siedono anche nel Parlamento israeliano, ma è proprio nella costituzione di un’aula rappresentativa della nazione e nel sistema di contrappesi giuridici e amministrativi tipici delle democrazie che la libertà viene custodita e coltivata. Israele, pur non essendo immune alla deriva nazionalista che ha caratterizzato tutti i paesi occidentali, è l’unico Stato del medio oriente che può vantare d’aver raggiunto questo traguardo, importando i valori fondativi della cultura democratica e lavorando ogni giorno per 70 anni al fine di conferirle formale riconoscimento e pratica applicazione. Come scriveva Ugo La Malfa all’indomani della Guerra dei Sei Giorni, la libertà dell’Occidente si difende sotto le mura di Gerusalemme.
Andiamo con ordine: la Palestina non è uno Stato ed i palestinesi non sono mai stati un popolo. Un’affermazione assolutamente scontata che oggi tuttavia deve apparire agli occhi di coloro che dei paesi arabi conoscono solo Le Mille e Una Notte come offensiva e finanche tendenziosa.
Eppure fu proprio uno dei maggiori leader dell’OLP, Zuhayr Mushin (anche traslitterato Zoheir Moshen), a confermarlo lucidamente nel 1977 in un’intervista rilasciata al quotidiano olandese Trouw: “Il popolo palestinese non esiste. La creazione di uno Stato palestinese è solamente un mezzo per continuare la nostra lotta per l’unità araba contro lo Stato d’Israele. In realtà oggi non c’è differenza tra giordani, palestinesi, siriani e libanesi. Oggi parliamo dell’esistenza di un popolo palestinese per ragioni politiche e strategiche poiché gli interessi nazionali arabi richiedono che venga assunta l’esistenza di un distinto “popolo palestinese” da opporre al sionismo. Per ragioni strategiche la Giordania, che è uno Stato sovrano con confini ben definiti, non può vantare diritti su Haifa e Jaffa mentre io, come palestinese, posso senz’altro vantare diritti su Haifa, Jaffa, Beersheva e Gerusalemme. Comunque nel momento in cui i nostri diritti saranno riconosciuti non attenderemo nemmeno un minuto per unire la Palestina alla Giordania“.
Un’altra illustre testimonianza fu rilasciata dal vicedirettore del servizio di spionaggio della Romania comunista, il Generale Ion Mihai Pacepa: “l’OLP (Organizzazione per la Liberazione Palestinese) era stata una invenzione del KGB, che aveva un debole per le organizzazioni di liberazione. […] Nel 1964, il primo Consiglio dell’OLP, composto da 422 rappresentanti palestinesi scelti con cura dal KGB, approvò la Carta nazionale palestinese, un documento che era stato redatto a Mosca. Anche il Patto Nazionale palestinese e la Costituzione palestinese nacquero a Mosca, con l’aiuto di Ahmed Shuqairy, un influente agente del KGB che divenne il primo presidente dell’OLP“. In un importante articolo scritto nel 2003 dallo stesso Pecepa per il Wall Street Journal si ripercorrono i rapporti dello storico leader palestinese Yasser Arafat con il Cremlino: “Egli era un borghese egiziano, […] il KGB distrusse i documenti ufficiali che certificavano la nascita di Arafat al Cairo, rimpiazzandoli con documenti falsi che lo facevano figurare nato a Gerusalemme e, pertanto, palestinese di nascita“
Che i palestinesi non fossero un popolo era già assodato anche nel 1843, quando il reverendo Alexander Keith D. D. pubblicò la celebre frase “A land without a people for a people without a land“, che iniziò a diffondersi moderatamente anche al di fuori degli ambienti sionisti, non tanto per indicare l’assenza di abitanti in Palestina, quanto per denotare come la popolazione araba ivi residente non potesse vantare le caratteristiche distintive ed unitarie di un popolo, essendo suddivisa in comunità tribali, nomadi, che spesso non avevano alcunché in comune, nemmeno il dialetto parlato.
Andando a ritroso nella storiografia incontriamo un documento chiave datato 1714, il trattato Palaestina Ex Monumentis Veteribus Illustrata, redatto dall’orientalista danese Adriaan Reland. Nel testo latino, composto da più di 1500 pagine divise in due volumi, non viene mai menzionato un popolo palestinese, una nazione palestinese, un reperto storico di origine palestinese o una qualsivoglia eredità di qualsiasi tipo prodotta da una cultura palestinese. Al contrario viene sottolineato come tutti gli insediamenti conosciuti abbiano nomi ebraici, greci o latini e siano abitati da ebrei o da cristiani.
Lungi dal voler negare il tardivo diritto del popolo palestinese alla costituzione, occorre anzitutto ammettere che quel popolo non può esistere in virtù di un’antica rivendicazione storica, dal momento che storicamente non è mai esistito, se non in funzione anti-israeliana dal 1948. Il nome stesso Palestina (in arabo فلسطين, Falasṭīn) deriva dall’ebraico Peleshet (פלשת) e fu utilizzato primariamente dagli ebrei che di quella terra erano gli unici residenti stanziali. Vi era anche una popolazione araba, nomade, forse maggioritaria agli inizi del ‘900, ma indistinguibile per cultura ed etnia dalle popolazioni arabe residenti ad est del fiume Giordano, a nord delle alture del Golan o ad ovest del Golfo di Aqaba, che sulla terra non aveva mai rivendicato diritto alcuno. Questa apparteneva infatti a pochi sceicchi, che la vendettero spontaneamente, indisponendosi poi quando gli ebrei dalla pietraia inospitale che spesso pagarono a peso d’oro ricavarono boschi, pascoli e coltivazioni.
La narrazione che vedrebbe un pre-esistente Stato palestinese privato della sua terra dalla formazione di Israele è un falso storico intollerabile
Una narrazione di comodo, per giunta d’importazione occidentale, dal momento che i palestinesi erano assolutamente consci di non essere né uno Stato né un popolo, come lo erano anche gli arabi dei paesi circostanti. Non è un caso infatti che dal 1948 al 1967 nessuno dei leader arabi rivendicò mai il diritto all’autodeterminazione del supposto popolo palestinese.
Ripercorrendo la Storia dall’inizio del ‘900 occorre sottolineare come in tempi antecedenti al 1917, durante il dominio ottomano (1299 – 1922), la regione geografica della Palestina fosse suddivisa in due governatorati che non ricalcavano i confini attuali. Il nome Palestina non figurava nemmeno: il primo, Vilayet di Beirut, era a sua volta suddiviso nelle province di Beirut, Acre, Nasra e Nablus; mentre il secondo, Mutasarrifato di Gerusalemme, era composto da una regione più a Nord – comprendente oltre a Gerusalemme anche le città di Betlemme, Jaffa, Hebron, Beersheba e Gaza- ed una regione più a sud, che si estendeva lungo il deserto del Negev comprendendo l’intera penisola del Sinai fino al Golfo di Suez, dove tramite l’area ad est dell’istmo di Suez confinava con il Chedivato d’Egitto, anch’esso regione amministrativa dell’Impero Ottomano, passato sotto il diretto controllo della corona britannica nel 1883.

A seguito della Prima Guerra Mondiale, con la caduta degli Imperi Centrali, il Medio Oriente (più propriamente Vicino Oriente, la regione compresa tra la sponda orientale del Mediterraneo ed il Golfo di Persia) venne affidato al cosiddetto Mandato Britannico, che comprendeva la Cis-Giordania, ovvero quel lembo di terra dalla stessa parte dell’Europa rispetto al fiume Giordano (come nelle molecole), la Trans-Giordania (attuale Giordania, ad est del fiume) e la Mesopotamia (attuale Iraq).
Negli anni seguenti gli ebrei europei, forti della Dichiarazione di Balfour (1917), iniziarono una lenta e progressiva migrazione verso la terra promessa. L’allora Ministro degli Esteri britannico aveva infatti appoggiato la creazione di una dimora nazionale per gli ebrei nei territori del Mandato. La decisione, miope ed interpretabile, finì in breve tempo per essere ostracizzata dalle stesse autorità britanniche, che consapevoli dell’incompatibilità culturale tra arabi ed ebrei posero limiti via via più stringenti all’immigrazione ebraica nei territori del Mandato Britannico soprattutto attraverso i tre Libri Bianchi, disposizioni legislative che stabilivano i requisiti richiesti agli ebrei per trasferirsi in Palestina e fissavano delle quote annue massime per l’immigrazione.
Con l’ascesa del nazismo tuttavia la fuga degli ebrei dall’Europa si intensificò e il numero di coloro che cercavano rifugio, anche clandestinamente, negli insediamenti ebraici in Palestina crebbe vertiginosamente. Alcuni rifugiati scampati alla shoa che cercavano di raggiungere illegalmente i territori della Cis-Giordania furono internati a Cipro dal governo britannico.
Il dominio inglese sulla Cis-Giordania cessò con la risoluzione ONU n.181, che prevedeva l’istituzione nell’area geografica della Palestina di uno Stato ebraico e di uno Stato arabo. Lo Stato ebraico, formato da una popolazione di 500mila ebrei e 400mila arabi, ebbe assegnata una porzione lievemente maggioritaria di terra, il 56,4%. Allo Stato arabo, che contava 800mila abitanti, in larghissima maggioranza arabi, vennero di conseguenza assegnate il 42,8% delle terre. Il restante 0,8% comprendette l’area internazionale di Gerusalemme (tutta), che restò sotto il controllo ONU. La risoluzione fu contraddistinta dall’astensione della Gran Bretagna, che si era già scontrata con le difficoltà della questione e intendeva svincolarsi dalle proprie responsabilità coloniali, passando il testimone alla sempre più influente comunità internazionale. Fu appoggiata da 33 paesi, non solo – come spesso ricordato – del blocco occidentale (USA, Canada, Francia, Olanda, Australia, Sudafrica…), ma anche di quello orientale (Unione Sovietica, Polonia, Bielorussia, Cecoslovacchia ed Ucraina), ai quali si aggiunsero diversi Stati centro- e sudamericani. Mentre gli ebrei accettarono la risoluzione, nonostante alcuni attriti non indifferenti con gli elementi più estremisti, gli arabi la rifiutarono in toto.
Lo stesso 15 maggio 1948, giorno previsto per il termine del Mandato Britannico, 5 giovani Stati arabi attaccarono il neonato Stato di Israele, sferrando il colpo d’inizio della prima guerra arabo-israeliana e confermando, qualora ve ne fosse bisogno, quanto acerbi fossero i tempi per una pilatesca ritirata dell’Occidente dalla regione:
- Egitto (indipendente dal 1922)
- Iraq (indipendente dal 1932)
- Libano (indipendente dal 1941)
- Siria (indipendente dal 1946)
- Trans-Giordania (indipendente dal 1946)
L’offensiva araba venne bloccata dall’esercito israeliano, che circa un anno dopo sconfisse gli aggressori e assicurò i suoi confini occupando diversi villaggi palestinesi. Furono invece Egitto e Trans-Giordania ad invadere rispettivamente la Striscia di Gaza e la Cis-Giordania, territori palestinesi che si trovarono quindi sì sotto un’occupazione militare, ma non di natura israeliana.
Mentre gli ebrei costituivano con arduo sacrificio le proprie istituzioni, difendendole dalla furia araba, di uno Stato palestinese ancora non v’era alcuna traccia. Nessuno si stava preoccupando di costruirlo, né gli Stati arabi né gli arabi-palestinesi residenti in Palestina
Gli arabi nei territori palestinesi finirono con l’essere facilmente sobillati dalle vicine nazioni arabe, che in nome del panarabismo li schierarono contro Israele avantaggiandosene durante la guerra, ma senza mai concedere ai 700mila profughi arabo-palestinesi piena assistenza, cittadinanza e spesso negando loro l’ingresso nei propri confini. I fedayyin furono mandati allo sbaraglio, fomentati contro un nemico comune con l’unico orizzonte di una vittoria comune (la distruzione dello Stato di Israele) che non arrivò mai. Circa 900mila ebrei furono cacciati dai paesi arabi ed islamici in cui vivevano da generazioni, trovando rifugio nello Stato di Israele, raddoppiando la popolazione del paese.
Da qui in avanti è difficile ricostruire in qualche battuta le tappe di una vicenda estremamente intricata, che ha visto ambo le parti violare ripetutamente le risoluzioni ONU, corroborando la fragilità del diritto internazionale. Di seguito vengono riportati gli avvenimenti salienti, con particolare attenzione alla politica estera, dal momento che uno Stato esiste tanto più è riconosciuto dagli altri Stati e tante più solide relazioni intrattiene con essi:
- Seconda guerra arabo-israeliana. A seguito di un progressivo distanziamento del neonato regime egiziano di Nasser dalla corona britannica l’Egitto intraprese un rapido riarmo sostenuto dalla Cecoslovacchia e vietò il transito attraverso il canale di Suez alle navi israeliane. Israele, alleato di Francia e Uk (preoccupate azioniste del canale), sferrò un attacco preventivo che sbaragliò l’esercito egiziano, annettendo oltre alla Striscia di Gaza anche l’intera penisola del Sinai. L’URSS sventolò la minaccia nucleare e gli USA intervennero fermamente per imporre – più che mediare – una pace, che purtroppo non si rivelò duratura. Il dietrofront della Gran Bretagna, richiesto a gran voce dagli Stati Uniti nel contesto noto come Crisi di Suez, segnò la fine dell’imperialismo britannico e l’affermazione degli USA come super-potenza
- Terza guerra arabo-israeliana. Dopo alcune avvisaglie di palpabile tensione, nel 1967 Egitto, Siria e Giordania ammassarono inequivocabilmente truppe a ridosso del confine israeliano. Israele rispose nuovamente con un attacco preventivo, conquistando il dominio dei cieli in appena 6 ore e sbaragliando le forze nemiche in 6 giorni (Guerra dei Sei Giorni). Gerusalemme Est, che nonostante fosse stata classificata come zona internazionale era controllata dalle truppe giordane, venne attaccata e conquistata. Le truppe israeliane continuarono poi ad avanzare: Cis-Giordania, Gaza, Penisola del Sinai (Egitto) e Alture del Golan (Siria) vennero invase. Nonostante diverse centinaia di sfollati, gli arabi residenti nelle zone conquistate non dovettero di norma lasciare le proprie case, anche perché gli israeliani erano perfettamente consapevoli che non sarebbero stati accolti in toto nei paesi limitrofi. Gli abitanti delle zone occupate non ottennero mai, tuttavia, i pieni diritti dei cittadini israeliani, ma solo quelli riservati ai residenti permanenti. Poterono votare per le elezioni amministrative, ma non per il Knesset, il Parlamento
- Quarta guerra arabo-israeliana. Nel 1973, durante la festività ebraica dello Yom Kippur, Egitto e Siria attaccarono a sorpresa Israele che inizialmente fu colto alla sprovvista e si trovò in grande difficoltà, perdendo terreno prezioso soprattutto nel Golan. Dopo alcuni giorni le truppe israeliane riuscirono a riorganizzarsi e contrattaccarono rispedendo, non senza ingenti perdite, le truppe nemiche oltre i propri confini. Quella dello Yom Kippur fu la più grande battaglia di carri armati dalla seconda guerra mondiale e nuovamente la pace mediata da USA e URSS arrivò sull’onda della paura di un conflitto mondiale. Golda Meir, donna di Stato israeliana e all’epoca degli eventi Primo Ministro, scelse stavolta di non attuare un attacco preventivo, nonostante le minacce di un conflitto imminente riportate dai Servizi. Nel mezzo della Guerra Fredda era imperativo che Israele non venisse incolpato d’aver dato il via ad un conflitto. La decisione, inizialmente criticata, si rivelò in seguito ponderata e lungimirante nonché fondamentale per garantire l’appoggio degli USA
- Accordi di Camp David. Nel 1978 con uno storico accordo che segnò il punto di svolta nella storia del Medio Oriente Israele si impegnò a liberare la penisola del Sinai, occupata dal 1967. L’Egitto in cambio riconobbe per la prima volta lo Stato Israele, fu l’unico Stato confinante a farlo e fu per questo espulso dalla Lega Araba. Il punto d’incontro arrivò dopo anni di mediazioni e dopo 12 giorni di negoziati segreti. Fu un indiscutibile successo americano, nonché un enorme passo avanti per la pace nella regione, promosso dal Presidente Jimmy Carter.
- Accordi di Oslo (1993). Nel tentativo di normalizzare i rapporti tra Israele ed i territori palestinesi l’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) venne designata come rappresentante ufficiale del popolo palestinese con l’obbiettivo di governare, seppur limitatamente, la Cis-Giordania e Gaza. La mancanza di unità tra i gruppi palestinesi ed il crescente successo di organizzazioni paramilitari come Hamas resero de facto impossibile l’amministrazione unitaria della Palestina, sancendo ancora una volta la difficoltà della costituzione di un popolo palestinese e l’impossibilità di formare uno Stato palestinese pienamente riconosciuto. Nonostante il leader dell’OLP Arafat avesse riconosciuto Israele e fosse stato a sua volta accettato come interlocutore legittimo, influenti frange oltranziste del mondo arabo-palestinese non si sentirono rappresentate dall’OLP e sfiduciarano prontamente gli accordi, che da subito mostrarono le falle derivanti dal non poter giungere a un qualsivoglia compromesso in assenza di una controparte ufficialmente riconosciuta da tutti i palestinesi come rappresentanza. Promotori dell’accordo furono ancora una volta gli USA, tramite il Presidente Bill Clinton.
- Pace con la Giordania. Nel 1994 la Giordania, anche per paura di restare esclusa dal “Grande Gioco“, siglò un accordo di pace con Israele, promosso nuovamente dagli USA. Da quel momento tra i due paesi si instaurarono progressive e solide relazioni commerciali, che ebbero come unico punto d’attrito il veto USA (su richiesta israeliana) sull’impiego di combustibile nucleare nelle centrali elettriche giordane.
- Ritiro da Gaza. Nel 2005 Israele si ritirò unilateralmente dalla Striscia di Gaza, l’exclave palestinese rimane isolata dalla West Bank, l’area di Cis-Giordania occupata dagli israeliani e composta da 167 isole amministrate dalla popolazione palestinese. Ancora oggi, a Gaza, l’OLP non esercita alcun controllo. Il vero leader della Striscia è Hamas, organizzazione classificata come terroristica da larga parte degli Stati occidentali, Unione Europea inclusa.
- Primavere arabe. Nel 2011 l’instabilità crescente in Siria sfociò in una lacerante e complessa guerra civile, che divise il paese in diverse aree di controllo. Ad oggi non essendoci stati accordi di normalizzazione con la Siria le alture del Golan restano occupate da Israele, che rivendica la sovranità anche sulle fattorie Shebaa, area di 25km2 strategicamente importante perché militarmente significativa e ricca di sorgenti d’acqua, rivendicata anche dal Libano.
- Accordi di Abramo (2020). Durante l’amministrazione Trump venne raggiunto un accordo tra Emirati Arabi Uniti, Bahrein ed Israele per il mutuo riconoscimento e la proficua collaborazione, che sancì formalmente un mutamento dei rapporti di forza nella regione in atto da tempo ed a cui diversi funzionari avevano dedicato gran parte della loro carriera. A seguire anche Giordania, Marocco e Sudan, mantenendo lo spirito dei negoziati intrapreso con i primi paesi arabi, normalizzarono la loro posizione con Israele. L’allontanamento di questi Stati , in particolar modo quelli del golfo, dalla jihad, dal Qatar e dalle mire ottomane di Erdogan è ritenuto da diversi analisti un tassello molto importante per la stabilità nella regione, sebbene altri conservino posizioni più scettiche, sottolineando come il finanziamento di Hamas e altri gruppi radicali da questi Stati possa continuare segretamente.

Ad oggi non esiste ancora un popolo palestinese se non in funzione anti-israeliana e non esiste uno Stato palestinese in grado di esercitare una piena sovranità nell’intero territorio che dovrebbe amministrare, nonostante gli ingenti fondi per lo sviluppo della Palestina stanziati nei decenni: tra il 1994 ed il 2017 circa 40 miliardi di dollari, in larga parte provenienti dagli USA e dall’UE.
A scapito della vuota retorica del genocidio di cui spesso si è letto, la popolazione palestinese dal 1960 ad oggi è quintuplicata. Lo stesso è avvenuto per la popolazione israeliana, che tuttavia ha visto calare la presenza araba relativa. Attualmente circa il 20% dei cittadini israeliani è arabo e non sembra essere intenzionato ad ottenere la cittadinanza di un eventuale Stato palestinese, né a vivere in Palestina. Mentre complessivamente gli arabi israeliani non appaiono vittime di discriminazione lo stesso non si può affermare per coloro che abitano i territori occupati. Gli insediamenti ebraici in Cis-Giordania aumentano ogni anno di numero, sottraendo spazio e risorse alla popolazione palestinese, che spesso non ha accesso ai servizi essenziali come sanità, istruzione ed assistenza legale, risultando quindi impossibilitata ad esercitare i propri diritti.
Il malcontento della popolazione arabo-palestinese residente nei territori palestinesi è spesso fomentato dalle frange fondamentaliste in chiave antisemita, oltre che antisionista. Gli scontri tra musulmani ed ebrei si sono intensificati negli anni, raggiungendo il culmine a più riprese e poi scemando. L’ultimo è occorso nelle scorse settimane.
Il principale nodo riguarda la fame di terra dei coloni israeliani, che contravvenendo alle risoluzioni ONU costruiscono insediamenti nei territori palestinesi, spesso allontanando la popolazione locale, rivendicando un diritto sulle case un tempo appartenute ai loro avi e abbandonate dagli ebrei a seguito dell’invasione giordana del 1948. I punti cruciali riguardano l’assenza di un maturo Stato palestinese e la sconfitta dei paesi arabi che invasero la Palestina.
I territori palestinesi furono de facto subordianti ad una resa incondizionata, ma se da un lato non vennero mai completamente invasi e assorbiti dall’apparato amministrativo israeliano, dall’altro non furono mai in grado di completare il processo che avrebbe dovuto portarli ad eleggere una rappresentanza universalmente riconosciuta ed un governo capace di esercitare la sua autorità su tutta la Palestina
Ad oggi rappresentano una zona grigia inesplorata, frutto di un bizzarro incrocio tra la filosofia colonialista del ‘900 e lo spirito progressista del diritto internazionale nel nuovo millennio, per la quale ogni soluzione proposta appare insostenibile, tanto che negli ultimi anni diversi analisti hanno sostenuto l’infattibilità della soluzione dei due Stati e la necessità che Israele arrivi progressivamente ad amministrare civilmente l’intera Cis-Giordania (oggi in larga parte area C, controllata militarmente dagli israeliani), in concerto con la popolazione locale palestinese, come previsto per le aree A e B degli accordi di Oslo. Queste ultime sono infatti le uniche porzioni di terra che i palestinesi sono riusciti ad autogovernare negli ultimi secoli. L’ingresso nelle aree A e B è fortemente sconsigliato ai cittadini ebrei.
A sancire le recenti escalation sono state le azioni di Hamas, che colpiscono indistintamente (tramite razzi e droni) i civili israeliani, compreso il 20% di arabi (e il 18% di musulmani). Occorre ribadire che mentre le operazioni militari israeliane, pur causando vittime civili, sono sempre dirette su obbiettivi specifici, i razzi lanciati da Hamas sono totalmente privi di sistemi di guida e di conseguenza possono colpire solo obbiettivi molto estesi, come le città. L’organizzazione terroristica ha dimostrato di averne nascosto nella Striscia di Gaza un intero arsenale e di essere in possesso anche di razzi a lunga gittata, capaci di colpire a 200km dal sito di lancio. Questi razzi sono a tutti gli effetti vettori balistici a lungo raggio, che possono colpire la totalità del territorio israeliano senza preavviso e senza poter essere guidati verso obbiettivi militari.
Tra una popolazione israeliana spaventata e diffidente dell’opinione internazionale la dura risposta militare consolida la traballante posizione del premier nazionalista Netanyahu, politicamente al termine della sua parabola e minacciato da tre gravi capi d’imputazione (corruzione, frode e abuso di potere).

L’imputazione del Primo Ministro, per quanto disattesa, si rivela in realtà un’interessante test: occorre ricordare infatti che non esiste altro paese della regione dove il Premier possa davvero temere un intervento della magistratura a suo sfavore, in particolar modo per i reati di cui sopra. La democrazia moderna inizia con Montesquieu ed è garantita anzitutto dalla separazione dei poteri.
Israele è uno Stato certamente non scevro di difetti, ma è uno Stato compiuto, che può vantare istituzioni democratiche solide, dotate di pesi e contrappesi, cosa di cui i palestinesi oggi avrebbero estremamente bisogno
Possiamo contestarne la politica espansionista che viene dettata dalla linea securitaria (cosa che personalmente non intendo fare per una serie di motivi espressi più avanti), ma non possiamo mettere in discussione lo sforzo sovrumano che gli israeliani, giorno dopo giorno, hanno compiuto per costruire dal nulla uno Stato, né ignorare la cultura democratica che fin dalle prime ore ne ha guidato la difficilissima costituzione e che oggi, al termine di una straordinaria avventura, lo distingue nettamente da tutti gli altri Stati con cui confina.
L’esacerbazione dei conflitti negli anni ha creato un divario incolmabile tra israeliani e palestinesi, culturale prima ancora che economico, che rende la soluzione dei due Stati (uno palestinese ed uno israeliano) semplicemente inattuabile. Rilanciare ad oggi tale soluzione è solo una comoda quanto popolare posizione politica, un cerchiobottismo che ha come unico vero effetto quello di destinare ai territori palestinesi montagne di fondi, anche europei, pronti ad essere gestiti più o meno direttamente da Hamas e da organizzazioni che non hanno alcun interesse ad investire nella costruzione uno Stato palestinese, perché preferiscono regnare incontrastate nel caos delle macerie. Non è un caso che buona parte della popolazione di Gaza, amministrata esclusivamente da Hamas dal 2005, si stia progressivamente allontanando dalla volontà di controllo politico sulla Striscia dell’organizzazione terroristica.
Conseguenza del finanziamento di Hamas è l’acquisto di armamenti, in buona parte di produzione russa o sovietica -spesso tramite l’intercessione delle milizie siriane – e la dura reazione militare israeliana. Ad ogni schermaglia una parte dei territori palestinesi viene occupata dai coloni e dall’esercito israeliano che giunge per proteggerne gli insediamenti irregolari. Questo genera malcontento tra la popolazione araba, tensione sociale e conflitto, anche armato, che alimenta un circolo apparentemente senza fine dove a perdere è solo la popolazione palestinese, mentre Hamas fortifica la sua causa e Israele guadagna terreno.
Il destino della Palestina è definitivamente segnato: mentre l’area C della West-Bank, sotto il controllo militare israeliano, si riempirà progressivamente di coloni ebrei, la popolazione della Striscia di Gaza tenterà di uscire dalla morsa di Hamas, anche invocando un difficoltoso protettorato egiziano o addirittura un diretto controllo militare israeliano. La Palestina tuttavia, ad oggi, non ha ancora intrapreso con sufficiente decisione il percorso necessario a diventare uno Stato pienamente riconosciuto, dotato di un esercito e di forti relazioni diplomatiche. Nonostante alcuni progressi buona parte della popolazione palestinese è ancora totalmente priva non solo della cultura democratica, ma anche del senso dello Stato (quale che sia). Naturale conseguenza di questo è una Palestina sempre più isolata sul fronte delle relazioni internazionali. Il massimo a cui l’OLP potrà ambire è un aumento del numero e del grado di autonomia delle aree A e B, le isole amministrate esclusivamente e parzialmente dai palestinesi sancite dagli accordi di Oslo. Se esigerà di più perderà autorevolezza sia con il governo israeliano che con la popolazione palestinese, frammentando ancor più una già frastagliata situazione politica. Non è per altro garantito che richieste meno ambiziose possano essere soddisfatte. Anni di sterile ideologia comportano un peso non indifferente.
Nonostante tutto, quella di un Occidente che controlla e si spartisce il mondo è una narrazione ormai anacronistica. Nuove superpotenze sono sorte, insieme a nuovi Stati cardine della geopolitica. La nostra realtà sempre più connessa è anche sempre più segmentata in macro-aree di influenza, e a dimostralo c’è la palpabile frammentazione della rete già in atto da anni.
L’intero mondo islamico, negli ultimi decenni, ha subito le forti pressioni delle frange più radicali e intransigenti. Talvolta ha saputo resistere, talvolta ha ceduto alla radicalizzazione.
Nei miei viaggi ho avuto la fortuna di poter osservare da vicino queste dinamiche: in Pakistan (3 anni dopo l’11 settembre), così come nel Tatarstan Russo, nel Nordafrica, negli Emirati, in Cina, a Singapore e traversando la Malesia da cima a fondo fino alle province islamiche separatiste thailandesi. Dinamiche che una certa sinistra occidentale, anche intellettualmente formata, arabista e spesso terzomondista, non conosce o tende a nascondere.
Soltanto chi è cresciuto nella comoda convinzione di un atlantismo invulnerabile può oggi permettersi di sodalizzare ciecamente con il mondo arabo in blocco, di auspicarsi un dialogo con posizioni oltranziste e criticare duramente la concezione occidentale del mondo, come un adolescente critica il padre per sfida mentre questi lo protegge, senza rendersi minimamente conto della minaccia concreta che la crescente radicalizzazione dell’Islam (non solo nel mondo arabo) rappresenti per la società civile e senza voler vedere come lo Stato di Israele, pur con le sue evidenti criticità, rappresenti un avamposto della democrazia e un baluardo dei diritti umani nella regione. Basti dare un occhio nemmeno troppo attento, ma scevro di pregiudizi, agli Stati vicini per accorgersene.
Credo che molti di coloro che oggi critichino, anche legittimamente, la politica israeliana non conoscano nulla dei vicini di Israele, nemmeno la collocazione geografica. Sono profondamente convinto che non ne percepiscano il pericolo intrinseco e nemmeno, lo scriverò senza mezzi termini, la chiusura culturale che, non solo è facilmente visibile, ma in alcune aree va addirittura esacerbandosi, come chiaramente osservabile dalle fotografie di soggetti femminili a Kabul, a Baghdad, a Damasco, di oggi e di qualche decennio fa.
Il mondo arabo è incredibilmente affascinante, ma complesso e insidioso; tendiamo ad attribuirgli per inerzia, automaticamente, un tardivo processo di secolarizzazione tipicamente cattolico che, in realtà, in svariate regioni non solo non è mai complessivamente iniziato, ma si è fatto più difficile da intraprendere col tempo. Una visione democratica dove religione e Stato sono completamente separati non solo non esiste nella maggior parte dei paesi a maggioranza islamica, Asia orientale compresa, ma larga parte dei governi si sta progressivamente allontanando da essa. Questa è una realtà che a molti non piace dover leggere, ma con la quale nondimeno siamo già costretti a fare i conti se intendiamo intraprendere un’analisi proficua.
Non occorre per forza girare il mondo per avere contezza di questo. Non occorre parlare con decine di persone che da quel mondo che non conosciamo sono scappate appena hanno potuto. Basta guardare i reportage: ve ne sono d’ogni genere oggi, finanziati da agenzie di stampa indipendenti ed autorevoli.
I diritti umani sono la più grande conquista che l’uomo abbia mai raggiunto, ma sono giovani (1948) e restano un’invenzione occidentale, non applicata nella larghissima maggioranza del mondo
Sta a noi difenderli oggi. Sta a noi farci carico della cultura che ci hanno consegnato nostri padri ed implementarla con inclusività e continuità. Non esiste angolo della Terra, dagli Stati Uniti alla Cina, dalla Russia al Sudafrica, dal Sud America al Medio Oriente, dove questi diritti siano promossi e tutelati come in Europa. Israele ne è la diretta emanazione.
Le legittime discussioni politiche, anche accese, e il biasimo su un passato colonialista non possono oscurare la cultura della democrazia e l’uguaglianza de jure tra individui che qui è stata faticosamente sancita dopo secoli di rivendicazioni e sacrifici.
È tempo di uscire dalla sindrome tardo-adolescenziale che ci caratterizza ed iniziare a farci custodi di queste conquiste, perché nel mondo di oggi non c’è nessun altro che si prenderà l’onere di farlo.
2 comments
Mi piacciono le favole, raccontamene altre.
Ottima analisi!