Il dibattito tra le forze politiche successivo al voto del 4 dicembre si sta distinguendo per superficialità, personalismi, letture facili o distorte della nostra Costituzione, passi falsi e gaffes di vario genere; un po’ gli stessi toni sui quali si era svolta la campagna in vista del referendum. Pare sia stata aperta una competizione per la forza politica più brava a spegnere la fiducia dell’elettore informato e bilanciato e a conquistare quella degli hooligans di turno. Il Parlamento italiano non si contraddistingue da un bel po’ di anni per dibattiti interessanti e punti di vista acuti, però in questi tempi si sta diffondendo la pericolosa tendenza da parte di tutti i poli di arroccarsi in prospettive campanilistiche il più possibile di breve periodo, come se fossero rimasti entusiasti (o si fossero arresi) all’idea che l’elettorato lo si nutra meglio per hashtag e frecciatine, e che a spiegare le cose con una visione d’insieme ci si perda solo.
Partiamo con il Partito Democratico. Questo partito sta soffrendo tremendamente la frattura fra una certa tradizione primo-repubblicana, facente capo non solo all’ala di centro ma anche alla nuova sinistra italiana, e la perentoria strategia di media-exploiting e personalizzazione adottata dalla leadership del partito e inaugurata da Matteo Renzi. Il risultato è un partito stanco, disomogeneo, che adesso, dopo il momentaneo ritiro di Renzi dai vertici, punta a tenere un basso profilo per celare le proprie contraddizioni interne. Queste contraddizioni si riflettono anche nell’elettorato: a parere di chi scrive, solo una parte di coloro che voteranno PD alle prossime elezioni supporta il progetto renziano – che peraltro è ben poco definito – ed è pronta a supportare un eventuale programma in almeno parziale continuità con tale progetto; una parte non secondaria voterà PD adottando una prospettiva di un voto di protesta al contrario, ossia, un voto che ricade sull’unico partito forte considerato “accettabile” di fronte a delle opposizioni addirittura meno convincenti.
Le opposizioni, al contrario, appaiono come l’unica ancora di salvezza per una fasca di popolazione molto eterogenea per classe, ideologia e posizione geografica. Si tratta spesso di persone stanche, indignate, in difficoltà economiche più o meno serie; è un ceto medio-basso che condivide parecchio con le fasce di popolazione che hanno decretato la vittoria del “leave” in Gran Bretagna e quella di Trump oltreoceano. Due esempi talmente visibili da abbagliare? Forse, perché sembra che da parte dell’attuale compagine al governo, e dell’opinione pubblica che in qualche modo la sostiene, non ci siano la capacità né la volontà di intercettare questa categoria di elettori. Ne è una dimostrazione il dibattito, ormai assurto a rango di tormentone invernale invece che estivo, sul governo eletto dal popolo. Dopo la nomina di Gentiloni le opposizioni si sono precipitate ad infiammare i loro elettorati a suon di “quarto governo non eletto dai cittadini”, “vogliamo votare subito”. Ora, è facile riscontrare come molti elettori di Lega Nord, Movimento 5 Stelle e Fratelli d’Italia si sono radunati intorno a questo inatteso denominatore comune invocando un diritto a scegliersi il proprio governo; ed è altrettanto facile immaginare che queste rivendicazioni ignorino in molti casi il basilare principio costituzionale secondo cui il voto popolare in Italia non è diretto ad eleggere i membri del governo, bensì quelli del Parlamento, cui è devoluto il compito post-elettorale di garantire un governo stabile.
Tuttavia, se chi ha fiducia in questi slogan semplicistici dovrebbe attivarsi per meritare un po’ di più la condizione di cittadino della Repubblica, certo è che le repliche più diffuse hanno ben poco da insegnare. E’ una corsa a chi diventa il professore più facebook-friendly di diritto costituzionale: non si contano più le rispostine che o citano pedissequamente l’art. 92 Cost. (“voi non eleggete il governo!”), o rinfacciano agli oppositori di non conoscere la Costituzione che hanno appena rifiutato di cambiare al referendum (“ma come, sapete almeno per cosa avete votato no?”). Perché sì, formalmente il Presidente Mattarella non ha violato alcuna norma della Costituzione nell’affidare a Gentiloni l’incarico per la formazione del nuovo governo; e sì, con altissima probabilità parte dell’elettorato di opposizione averebbe urgente bisogno di sottoporsi a un corso intensivo di educazione civica. Però parecchi, dall’altra parte, potrebbero anche evitare di (fingere di?) accontentarsi del compitino leggendo l’articoletto della nostra Carta da una sicura posizione di giudice costituzionale improvvisato (per l’occasione, ci mancherebbe), malcelando in qualche caso la soddisfazione nel zittire un’ignoranza che c’è, è innegabile, ma non deve essere inutilmente ridicolizzata.
Vero, è il Presidente della Repubblica che formalmente individua il capo dell’esecutivo dopo le elezioni. Ma la norma costituzionale che permette questo meccanismo sottintende che debba esservi un legame tra la scelta del governo e la volontà della maggioranza: ciò discende dal fatto che, secondo gli schemi del parlamentarismo compromissiorio (ossia post-elettorale), sono i partiti a dover negoziare l’esecutivo con più possibilità di ottenere e mantenere la fiducia – a questo servono le consultazioni con il Capo dello Stato. I partiti, ossia le formazioni sociali che interpretano la domanda politica dal basso. C’è di più: in teoria la nostra Costituzione ben si adatta anche a un sistema in cui i probabili Presidenti del Consiglio sono chiari fin dall’inizio all’elettorato, cioè a un sistema in cui la legittimazione politica dell’esecutivo è meno mediata dal Parlamento. Appare chiaro dunque che non ci si può nascondere dietro la forma per voltare la faccia alla realtà, che presenta un legame traballante tra palazzo e consenso popolare.
Bisogna intendersi: chi scrive non afferma che dopo l’esito del referendum e le dimissioni di Renzi si sarebbe dovuto ricorrere ad elezioni anticipate. Ciò sarebbe stato infattibile per via di una legge elettorale, il c.d. Italicum, attualmente al vaglio della Corte costituzionale. Va detto però che non può l’impossibilità di indire elezioni immediate fornire un alibi inattaccabile per un reimpasto di governo rispettoso solo e unicamente della Costituzione formale. L’art. 1 Cost., in cui si afferma che la sovranità appartiene al popolo, può essere letto come una valvola di collegamento tra la Costituzione formale e quella c.d. materiale, che supera il pur essenziale tecnicismo giuridico e influenza direttamente la forma di Stato italiana, ossia l’insieme di rapporti tra governanti e governati. Accertare violazioni della Costituzione materiale è difficilissimo perché spesso non c’è una norma cui far riferimento; nel nostro caso, però, l’aver conferito l’incarico a un “fedelissimo” del governo dimissionario, dopo che la maggioranza della popolazione votante ne aveva bocciato una riforma esistenziale, e dopo che lo stesso ex Presidente del Consiglio aveva legato a quel voto la sopravvivenza del suo progetto politico, dipinge il Presidente della Repubblica più come un avvocato (maldestro) che come un politico serio.
E quindi, quali erano le alternative? Naturalmente, senza elezioni la crisi di governo va gestita dentro al Parlamento. Ma è qui che le consultazioni tra Presidente della Repubblica e partiti avrebbero potuto produrre risultati migliori. La Costituzione lascia un’ampia discrezionalità in capo a questi attori per la soluzione delle crisi di governo, proprio perché sottintende che sia la Costituzione materiale a fornire le linee guida. Il conferimento dell’incarico, e l’accordo dei partiti intorno ad esso, non possono fermarsi al riscontro della distribuzione dei seggi in Parlamento, ma devono aggiungere l’ingrediente della legittimazione dal basso, a maggior ragione in casi del genere visto che il canale principale – le elezioni – è chiuso. E allora, è vero che il PD detiene la maggioranza relativa nelle due camere; ma è altrettanto vero che vi erano squadre di governo alternative. Si sarebbe potuto fare qualche sforzo in più per cercare un accordo intorno a un Presidente del Consiglio che non fosse in perfetta continuità con il precedente. Perché non concentrarsi ad esempio su Pietro Grasso, che non difetta di legittimazione più di Gentiloni, e che, data la sua opposizione alla riforma costituzionale, avrebbe potuto fornire al Paese il segnale che il sistema non è del tutto insensibile agli indicatori di domanda politica? Europeista convinto, peraltro, quindi niente scossoni dall’estero.
Insomma, dall’opposizione arrivano messaggi degni di condanna, che inneggiano al quarto governo non eletto dal popolo nulla facendo per spiegare le circostanze in cui questo slogan va letto; i più vogliono il voto subito, ma né Lega né Fratelli d’Italia avrebbero i numeri per governare, neppure assieme, neppure con un Italicum “renziano” (chissà perché non lo dicono mai); in più, non accettano categoricamente il nuovo governo Gentiloni, ma invece di coalizzarsi per sfiduciarlo e costringere il centro-sinistra a una soluzione più di compromesso – cosa che gli avevano in pratica intimato in precedenza – si ritirano dal voto perché “la sfiducia l’hanno mostrata i cittadini il 4 dicembre.” Ok. Oppure perché votando la sfiducia si caricherebbero di troppe responsabilità? E dire che non abbiamo nemmeno la sfiducia costruttiva, altrimenti sai che Paese dittatoriale saremmo… D’altro canto, dal Partito Democratico in questi giorni arrivano segni di chiusura, di prudente ma esitante ripiegamento; si dimostra scarsa volontà di dialogare e di rendersi conto che l’interesse del Paese va ascoltato e non dato per acquisito grazie alla banale aritmetica in Parlamento. La credibilità del partito sta scemando sotto i colpi di ingenuità quali facili promesse spicciole non mantenute – vedi i casi Boschi e Fedeli – ultimatum lanciati a caso per ricattare (con che leva poi?) il Paese su una riforma, e la stessa faciloneria di cui accusa le opposizioni. Perché la Boschi avrebbe categorizzato tutti i sostenitori del “no” come “coloro che non vogliono migliorare l’Italia”, se non per mettere ancor più in cattiva luce chi, anche per motivi di merito, non la pensava come lei?
Oltre alla credibilità, anche l’efficacia del partito è in crisi per via della ricerca di un’identità interna forte, che era stata acquisita repentinamente da Renzi ma non aveva veramente attecchito, non aveva convinto tutti, e ha palesato le sue più forti debolezze nella campagna per il referendum e nei giorni successivi al voto. Il compito che aspetta il PD è quello che attende un po’ tutto il fronte democratico-centrista europeo. Nell’Europa di oggi la compagine populista viene affrontata da partiti tradizionali frammentati, incapaci di coagularsi, e impigliati in lotte reciproche che si riverberano sulle ormai desuete distinzioni tra sinistra, centro-sinistra, centro-destra, destra. Non esiste un centro liberale forte, coeso, europeista ma al contempo critico dei difetti della costruzione europea attuale. A Renzi va riconosciuto il non secondario merito di aver riservato una costante attenzione al fronte europeo, sollevando critiche ma anche facendo proposte (in economia, in materia di immigrazione). Adesso che però la macchina si è fermata, anche perché troppo sicura dei propri limiti di stabilità, da dove trarrà il partito l’energia necessaria per compattare un elettorato convinto e arginare un fronte di opposizione popolare nientemeno che rivoluzionario?
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[…] Se esistono tali poteri forse dipende anche dal fatto che nella costituzione italiana vi sono concetti, che contraddicono in taluni casi l’essenza stessa della democrazia. […]