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Economia & Finanza

La Cina e l’indebolimento (non svalutazione) del Renminbi: Parte 2°

Oltre ai dati macroeconomici negativi, l’obiettivo principale di Pechino è quello di “trasformare” il Renminbi in una valuta di riserva.

Nella prima parte di questa nostra breve discussione abbiamo messo in evidenza come la motivazione più rilevante legata alla decisione della Banca Popolare Cinese di indebolire il Renminbi riguardasse il deterioramento di tutte le principali variabili macroeconomiche del “dragone”.

La seconda (ma più realistica) causa che ha portato all’intervento della PBoC è invece – certamente – da ricercarsi nella volontà da parte di Pechino di trasformare il Renminbi in una valuta che svolga a tutti gli effetti un ruolo di riserva, al pari delle quattro grandi valute mondiali: il Dollaro statunitense, l’Euro, la Sterlina e lo Yen.

In un certo senso, Pechino, forte della strepitosa crescita e dell’incredibile sviluppo economico ottenuto nel corso di questi ultimi due decenni, ha deciso di forzare le tappe e candidarsi ufficialmente per l’ingresso nei così detti “Diritti Speciali di Prelievo” (DSRs).

Il governo cinese, non solo sembrerebbe quindi aver intuito il momento di difficoltà della propria economia, ma sembrerebbe aver trovato una interessante “contropartita tecnica” da giocare per poter accedere al paniere dei DSRs: attuazione di riforme strutturali e ad un’ulteriore apertura del conto capitale in cambio dell’ingresso del Renminbi come valuta di riserva.

Una piccola digressione storica è doverosa. I “Diritti Speciali di Prelievo” furono creati dal Fondo Monetario Internazionale nel 1969 ed il loro scopo iniziale era quello di fungere da bene detenuto come riserva valutaria nel sistema a cambi fissi di Bretton Woods. A partire dal 1972 (a seguito della fine del sistema di Bretton Woods) i DSRs hanno incominciato a svolgere un ruolo più centrale, in modo particolare per quanto riguarda i paesi in via di sviluppo che spesso, nel corso di questi ultimi decenni, hanno utilizzato i Diritti Speciali di Prelievo come linea di credito “più economica”. Oggi, i DSRs risultano essere l’unita di conto del Fondo Monetario Internazionale.

Tornando invece al discorso odierno, il Fondo Monetario Internazionale potrà esprimere il proprio parere riguardo l’inclusione del Renminbi tra le valute di riserva entro la fine del 2015. È inutile dire che tali decisioni sono altamente politicizzate. Al di là dell’ovvio parere negativo che dovrebbe giungere dal governo americano e – molto probabilmente – anche dal Giappone e dal Regno Unito, nel caso in cui la decisione del FMI fosse negativa, la Cina dovrebbe aspettare altri cinque anni prima di poter “assaporare” l’idea di vedere il Renminbi entrare a far parte dei DSRs. Infatti, le decisioni riguardo l’inclusione di nuove valute nell’unità di conto del Fondo Monetario Internazionale avvengono quinquennalmente.

Ecco quindi spiegato, in parte, il perché della fretta e della retorica del governo cinese a voler implementare riforme strutturali che ulteriormente liberalizzino finanziariamente ed economicamente il “gigante asiatico”.

Come spiega in modo molto chiaro l’ex presidente della FED di Dallas, Bob McTeer, osservando l’esperienza del Dollaro nel corso degli ultimi 70 anni, ottenere lo “status” di valuta di riserva porta indubbiamente a dei grandi vantaggi, uno su tutti la possibilità di aumentare la libertà di azione del governo nel perseguire obiettivi strettamente nazionali, ovvero ridurre notevolmente i requisiti per mantenere l’equilibrio del contro delle partite correnti. Al tempo stesso, però, una valuta di riserva può creare anche alcuni importanti svantaggi di lungo periodo, come – ad esempio – il fatto che il governo sia più invogliato (rispetto ad altri) a basare lo sviluppo e la crescita economica del proprio paese su un debito sempre maggiore e/o riducendo i beni esteri.

Vista l’attuale decrescita dell’economia cinese; visto il costante aumento del suo debito totale, che tra il 2007 e la fine del 2014 è quadruplicato, passando dai circa 7 trilioni di dollari agli attuali 28 trilioni (e che equivale ad oltre il 280% del PIL e supera il valore totale di molte economie avanzate come gli Stati Uniti, la Germania, l’Australia ed il Canada); vista la complicata situazione del settore immobiliare; visto l’attuale crollo del mercato azionario; vista la possibilità (che spero possa realizzarsi già a Settembre – ne riparleremo sicuramente) di un rialzo dei tassi da parte della FED e constatato il fatto che i dati riportati dalle autorità di Pechino spesso con corrispondano alla realtà, qualche dubbio riguardo al futuro di un paese ormai troppo grande ed importante per l’intera economia globale dovrebbe incominciare a sorgere.

Al fine di armonizzare il proprio “atterraggio” e di conseguenza ridurre gli effetti collaterali per l’intera economia internazionale, il governo cinese, nel caso in cui venisse deciso di non far entrare il Renminbi tra le valute di riserva, non ne dovrebbe fare un dramma (soprattutto poiché tale inclusione avrebbe più un valore simbolico che altro) ed anzi, dovrebbe incominciare a riformare in modo molto profondo e strutturale un’economia che si basa ancora su un modello di sviluppo ormai rotto.

Al momento, però, tra gli analisti le quotazioni che vedono il Renminbi entrare a far parte dei DSRs rimangono molto alte. Bisognerà quindi solo attendere cosa accadrà nel corso dei prossimi mesi, sia all’interno della Cina che a livello globale.

Le sfide che attendono il governo cinese sono tutt’altro che semplici da risolvere. Le autorità di Pechino si trovano davanti a un grosso dilemma: continuare a rattoppare un modello economico ormai vecchio e in fase di spegnimento oppure avviare un intenso e serio programma di liberalizzazione del conto capitale che miri a ridurre i controlli sui flussi di capitale in uscita, a rendere – gradualmente – il Renminbi liberamente utilizzabile e ad accrescere l’accesso straniero al proprio mercato azionario e al proprio mercato delle obbligazioni on-shore. La seconda opzione sarebbe ovviamente il percorso più giusto e naturale da scegliere e seguire per proseguire il lungo cammino di avvicinamento alle economie avanzate. Per istituzioni poco inclusive come quelle cinesi, però, tale percorso economico risulta – forse – essere anche il più difficile da implementare.

Al di là di ulteriori considerazioni riguardanti la Cina, una cosa è certa: il dibattito per modernizzare un sistema monetario internazionale che ormai ha fatto il suo corso deve continuare e deve farsi sempre più rumoroso.

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