Che è successo nel 1923? Giovanni Gentile, all’epoca ministro del Pubblica Istruzione del governo Mussolini, varò una vera e propria riforma del sistema scolastico italiano. Egli voleva innanzitutto ridefinire le finalità della scuola ed il suo ruolo nella società. E ci riuscì: le diede un nuovo volto − più efficiente, diffuso e gerarchico.
In molti hanno visto somiglianze tra il cosiddetto “preside-sceriffo” proposto dall’attuale Presidente del Consiglio ed il modello di dirigente che introdusse l’allora ministro fascista. E non hanno torto. Per Matteo Renzi è utile incaricare il preside di rispondere delle sue scelte e di quelle del suo istituto, e difende questa sua posizione riconoscendo che nel mondo della scuola vi è, come nella quasi totalità del servizio pubblico italiano, una crisi del concetto di responsabilità. Ciò proviene, a mio parere, dal movimento sessantottino, che ha indubbiamente portato delle migliorie, ma che altrettanto indubbiamente ha danneggiato nel profondo la scuola e la filosofia che vi sta dietro. Anche il premier non ha torto, quindi.
Ma allora dov’è la ragione? La riforma che propone il Presidente del Consiglio è qualcosa di buono e rivoluzionario, come sostiene lui, o si tratta di cambiamenti deleteri e nocivi per l’istruzione − come, al contrario, sostengono buona parte degli insegnanti?
Il tranello della musica.
Alcune delle proposte di Renzi sono difficilmente criticabili. Dallo stanziamento di denaro per l’edilizia scolastica alla famosa alternanza scuola-lavoro, dal potenziamento di materie come storia dell’arte e musica all’assunzione di precari che hanno acquisito, tramite concorso, il diritto ad entrare pienamente nel sistema scolastico come insegnanti di ruolo. A parole questi sono cambiamenti che contentano tutti, ma ecco che compare il peggior vizio del premier: non entrare nel merito. Ed invece, ce n’è proprio bisogno.
Se, giustamente, si vuole dare ai ragazzi una degna preparazione in ambiti culturali fondamentali quali l’arte, la musica e le lingue, bisogna tenere a mente che si parla anche di ore di lezione e docenti qualificati. Non si può quindi far finta che inserendo due ore di musica qui e due ore di storia dell’arte là, ciò non avvenga a discapito di altre discipline. Si può fare, ma si deve anche pensare a cosa tagliare: non si può vivere di ed a scuola. E poi non si può neanche dare per scontato che queste benedette due ore abbiano un reale fine nell’educazione del ragazzo, se vengono svolte in maniera superficiale, giusto per poter dire di aver riformato. Ricordo, ad esempio, le ore passate a tentare di produrre suoni con il flauto dolce alle scuole medie − attività svolta per far passare il tempo, visto che il professore non sapeva suonare lo strumento in questione e non era quindi in grado di istruire noi studenti. Ricordo però anche le ore pomeridiane, sempre nella stessa scuola, ad imparare a muovere le dita sulla chitarra con un’insegnante che sapeva suonarla e riusciva a trasmettere una passione che ancora oggi anima il mio rapporto con la musica.
Differenze? Tutti i compagni di classe, la mattina, soffrivano la superficialità dell’educazione musicale così affrontata, mentre pochi, iscritti all’indirizzo musicale, avevano la fortuna di poter crescere realmente attraverso la musica. È importante quindi entrare nel merito: ad un’educazione musicale utile e con dietro una finalità ben chiara sono favorevole, mentre all’inserimento di due ore di musica al liceo, organizzate come lo sono state per me alle scuole medie, ahimè mi trovo contrario. Perché invece di discutere sul mero numero di ore, non si riflette sugli argomenti e su come si intende svilupparli materia per materia?
Il duello.
È molto interessante guardare i due principali video che parlano dell’argomento: il filmato del Presidente del Consiglio, pieno di belle parole, progetti condivisibili (o meno) e pressapochismo, ed il video del docente mio concittadino Giovanni Cocchi che, con un tono a tratti fastidiosamente provocatorio, solleva temi e problemi su cui vale la pena riflettere. Sono particolarmente stimolanti i punti di vista − perlopiù filosofici − sui quali i due sono in disaccordo: merito, valutazione e libertà d’insegnamento.
Renzi vuole una scuola che valorizzi il merito, dove gli insegnanti vengano valutati e, nel caso, premiati dal dirigente, che è quindi più responsabile delle sue scelte rispetto ad ora. Cocchi vuole anch’esso una scuola che valorizzi il merito, però sostiene, a parer mio sbagliando, che gli insegnanti «sono già stati valutati una volta» e che a questo compito non possano adempiere il preside, i genitori e gli studenti, perché plausibilmente imparziali − e, su questo, non lo si può contraddire! Cocchi fa anche bene a parlare di libertà d’insegnamento, principio consapevolmente non toccato dal premier nel suo video. Il Presidente del Consiglio sa, infatti, che dare in mano al dirigente la possibilità di premiare o meno il professore potrebbe compromettere la libertà di quest’ultimo. Pensa però giustamente che il preside si assuma le responsabilità delle sue scelte, ma, per l’esperienza che questo paese ha da offrire a riguardo, pecca di buona fede. A onor del vero anche l’insegnante bolognese compie lo stesso errore: difendendo a spada tratta i concorsi, secondo lui trasparenti e con «nessuna possibilità di amico dell’amico».
Il reale problema è che i due non si comprendono: forse perché non vogliono? Renzi ha più volte dimostrato di non voler dialogare con ciò che vede vecchio ed inefficiente, come i sindacati della scuola. Cocchi però, nominando continuamente scuole private e denaro e vedendo la mancanza di quest’ultimo come causa del malessere della scuola pubblica, rimane fermo alle lotte nate − e morte − nel ’68. Egli pensa, ad esempio, che con il 6% del PIL per l’istruzione ci saranno «scuole coi fiocchi». Lungi da me il pensare che il sistema scolastico non meriti più fondi, ma se la scuola non si renderà conto che prima di tutelare il dipendente deve accudire il cliente, la storia sarà sempre la stessa. E purtroppo l’inerzia del cambiamento, in questo caso, viene dal sindacato, che molto assomiglia alle corporazioni fasciste: si è troppo salvaguardato docenti che non agivano nel bene dei loro studenti e si è troppo poco guardato ai ragazzi.
Scuola di vita o vita di scuola?
La scuola, così com’è oggi, non funziona. La mia ricetta per il cambiamento? Merito, formazione e progetti per il futuro.
Merito, ma merito vero. Chi è capace e meritevole deve avere la possibilità di andare avanti ed arrivare primo e prima, se è nelle sue possibilità. Questo vale per studenti, insegnanti, ma anche per i dirigenti − il cui operato deve essere valutato come quello di tutti gli altri. Quindi basta, ad esempio, con il valore legale del titolo di studio, che, vista la diversità degli ambienti scolastici italiani, è un vero e proprio insulto alla meritocrazia.
Formazione, reale ed efficace. I ragazzi vanno formati, non visti come semplici scatoloni da riempire di conoscenze. Ed è per questo che per me ha poco senso discutere anni sul perché la nostra scuola non funzioni: i ragazzi non vengono educati alla vita ed i professori non sono in grado di farlo perché, a loro volta, nessuno ha istruito loro. Siamo uno dei pochi paesi europei dove, per diventare insegnante, “basta” vincere un concorso. Sicuramente questo metodo assicura − più o meno − la buona preparazione del docente nella sua materia: ma si tratta di una condizione necessaria, e non sufficiente. Pedagogia, scienza dell’educazione e psicologia non rientrano nel vocabolario del mondo scolastico italiano. Perché i professori prima di entrare in cattedra non devono sostenere nessun colloquio che stabilisca se è il loro mestiere quello che stanno iniziando ad approcciare? I danni di queste mancanze sono evidenti sotto gli occhi di tutti. Perché un insegnante magari meritevole (secondo il concorso), ma non capace, rovina generazioni.
E poi i progetti. Mi piace l’idea del premier di iniziare i ragazzi già dal periodo scolastico al mondo del lavoro. Sono due pianeti differenti che non si sono mai avvicinati nella nostra storia nazionale, quindi ben venga. Ma io sogno anche altri progetti. Sogno che ogni persona che esca dalla scuola abbia almeno provato a suonare uno strumento, a dibattere con qualcuno su temi d’attualità ed economia e, perché no, a capire cosa sia l’energia nucleare. Perché, oltre a leggere e far di conto (altri ambiti in cui comunque non eccelliamo), la scuola, e la vita, sono anche questo.
Il motivo del mio titolo non è evidenziare le somiglianze tra la riforma che attuò Gentile e l’attuale, bensì criticare la staticità del sistema. Io, come tutti i ragazzi che nell’ultimo secolo hanno frequentato la scuola, sono entrato nel modello d’istruzione pensato da Gentile − prettamente umanistico e (divenuto) puramente nozionistico. A mio parere il vero problema di questa “riforma” è che non riforma, checché ne dicano il premier ed i sindacati. I giovani continueranno ad uscire della scuola avendo ricevuto quel modello che, evidentemente, non funziona. Tutte le lotte a cui ho assistito negli ultimi mesi mi sembrano su piccoli temi rispetto alle grandi rivoluzioni di cui avrebbe bisogno la nostra istruzione. Quindi basta discutere rimanendo fermi: rompiamo il conservatorismo che regna nell’ambiente scolastico, cambiamo e facciamolo subito.