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Politica interna

Italicum guida ragionata per orientarsi nel dibattito sulla legge elettorale

 

Non è certo un tema che suscita la passione dell’opinione pubblica ma è di fondamentale importanza. Visto che grande è la confusione e i termini necessariamente tecnici della questione appaiono incomprensibili ai più, proviamo a fare chiarezza sulla legge elettorale.

Partiamo da una considerazione di metodo: la legge elettorale è la legge politica per eccellenza. Stabilisce la modalità di traduzione dei voti in seggi ed  in più influisce sulle scelte degli elettori e sul numero dei partiti. Essa è quindi il principale elemento di strutturazione del sistema politico.

L’Italicum, questo l’appellattivo infelice con cui si è voluto chiamare la legge elettorale attualmente in discussione, è una buona riforma.

Non è certamente, come vedremo, l’obbrobrio che descrivono un po’ grossolanamente i suoi detrattori (salvo alcune storture gravi che devono essere risolte), purtuttavia non sarà copiata in Europa come asserisce Renzi.

Da noi è prassi consolidata che si modifichi la normativa elettorale a seconda delle convenienze politiche di chi è al governo (dal 1861, anno dell’unificazione italiana, si sono succedute finora ben 12 m0difiche al regime elettorale, più che in ogni altro paese europeo).

I sistemi elettorali in Europa sono invece consolidati e non si modificano all’occorrenza, nemmeno quando il sistema politico subisce momenti di crisi prolungata (attualmente sembra essere il caso della Spagna, del Regno Unito, della Francia).

Prima che la Consulta decretasse l’incostituzionalità della legge Calderoli (ribattezzata da Sartori con il nomignolo spregiativo di “porcellum”) sono stati diversi i tentativi di cambiare la legge elettorale: mediante un referendum cassato dalla stessa Consulta che intendeva ripristinare la legge elettorale Mattarella precedentemente in vigore (dal 93 al 2005); una proposta (scombiccherata, molto peggio dell’attuale) elaborata durante la sedicesima legislatura da Bersani-Violante e mai presa seriamente in considerazione; infine, una nuova proposta indirizzata al parlamento dai tecnici nominati da Napolitano per le riforme istituzionali, durante il governo Letta. Tutti tentavi destinati all’insuccesso. Troppo vasta la distanza ideologica degli attori politici in campo, manifesta la volontà di entrambi gli schieramenti di non agevolare la vittoria dell’avversario, troppo incerti gli scenari futuri. “C’è stata poi per anni la tendenza dei partiti a subire un’agenda dettata da attori meno significativi (la Lega nel centrodestra, Di Pietro nel centrosinistra) e pertanto l’impossibilità di mettersi d’accordo su un regime elettorale che non si prendesse cura della tutela a ogni costo di tutte le minoranze” – scrivono i politologi Maurizio Cotta e Luca Verzichelli.

Finché, di fronte a questo stallo perenne e stante una legge elettorale, ciò che rimane del Porcellum dopo la sentenza della Consulta, il cosiddetto Consultellum, che imporrebbe quasi certamente l’ennesimo governo di grande coalizione impedendo la possibilità di una vera alternanza, Renzi si è assunto il compito di realizzare e approvare un modello di legge elettorale funzionale agli interessi del sistema politico italiano. Il testo era alla base degli accordi con Berlusconi il quale prima di arrivare alla rottura ne aveva concordato minuziosamente i dettagli e, incomprensibilmente, ne aveva avallato anche aspetti per lui svantaggiosi come il doppio turno o la soglia del premio al 40%; nel frattempo sono occorse innumerevoli modifiche: il testo è notevolmente cambiato (e migliorato) e ora attende l’approvazione definitiva.

Questo significa che ha ragione Bersani quando denuncia il metodo autoritario, obiettivamente poco collegiale con cui Renzi sta gestendo l’iter di un provvedimento così importante? Sì e no. Le richieste delle minoranze, dal doppio turno all’innalzamento della soglia minima prevista per il raggiungimento del premio di maggioranza, sono state accolte tutte e ciò ha portato a un compromesso tutto sommato apprezzabile. Poche settimane fa, il ministro Boschi assicurava nel programma della Gruber Otto e mezzo che la maggioranza del partito sarebbe andata incontro ad ulteriori richieste della minoranza volte a migliorare la riforma. Qualche giorno fa Renzi ha invece dichiarato che non accetterà veti o modifiche perché si è già discusso abbastanza nelle sedi opportune. Spiace constatare che un ministro venga sconfessato così dal suo premier senza che nessuno la richiami agli impegni presi. Per carità, ha ragione Renzi quando sostiene che si discute per giungere alla fine a una decisione e quando denuncia la pretestuosità – che è innegabile – delle ragioni della minoranza Pd.

Però su temi che coinvolgono tutte le forze politiche la discussione sui vari aspetti non è mai troppa (dato che ne va della qualità delle decisioni implementate). Sarebbe una grave forzatura, molto peggiore del legiferare in un ambito che in teoria sarebbe di stretta osservanza del parlamento, se, come ha ventilato, il presidente del consiglio ponesse la fiducia sul testo da votare in parlamento.

Ma veniamo alla legge elettorale analizzandone per sommi capi le caratteristiche salienti.

Diversamente da ciò che ha scritto sul Sole 24 Ore  Roberto D’Alimonte, massimo esperto italiano di leggi elettorali e consigliere in materia di Renzi (di fatto l’ideatore dell’italicum è lui), la legge elettorale di cui parliamo non è maggioritaria.

L’impianto è proporzionale. Il fatto che esista un premio di maggioranza lo avvicina a un sistema maggioritario perché l’esito è in parte disproporzionale. Detto in altri termini: gli effetti sono simili a quelli del maggioritario. Ma l’allocazione dei seggi degli altri partiti che non ottengono il premio – che è ciò che conta per stabilirne la formula – avviene secondo un criterio proporzionale.

Quindi quando si sente ripetere da più parti che questa è una legge elettorale nettamente maggioritaria, si dice una cosa scorretta.

È molto rara la presenza nei sistemi elettorali vigenti di premi di maggioranza. Di solito, piuttosto che adottare leggi proporzionali corrette da un premio,  si preferisce istituire un sistema maggioritario puro, dove il premio, cioè il seggio in palio, scatta a livello di collegio (e non a livello nazionale come nel proporzionale).

L’Argentina fino al 1962 aveva un premio di maggioranza, il Paraguay ha un sistema elettorale proporzionale con un premio di maggioranza schiacciante. E pochi lo sanno ma anche nell’Italia della prima repubblica il sistema elettorale comprendeva un premio di maggioranza al Senato (che non scattava quasi mai perché era previsto ad una soglia improba del 65% dei voti).

C’è poi da considerare che l’effetto “maggioritario” garantito dal premio è molto limitato: assegna infatti al partito vincente una modesta maggioranza del 55%, ovvero 340 seggi, ma comunque garantisce la possibilità di governare sulla carta con una maggioranza certa.

Improponibili quindi i paragoni che taluni fanno con la legge Acerbo del periodo fascista (1924), che distorceva, questa sì, la rappresentanza in maniera non democratica.

Si è stabilito che il premio venga conferito non più alla coalizione di partiti risultata vincente, come era col Porcellum, ma ad un unico partito o lista. Ciò è di importanza capitale. Il premio al partito dovrebbe portare infatti ad una consistente riduzione della frammentazione partitica e a governi  non più di coalizione ma di partito, costituiti cioè da un solo partito, perché i partiti non saranno più incentivati a presentarsi in coalizione per ottenere il premio. Col porcellum, si formavano ampie ed eterogenee coalizioni per prevalere sugli avversari, salvo poi non riuscire a governare a causa di un elevatissima polarizzazione ideologica tra i partiti che componevano la coalizione (governi Prodi 2 e Berlusconi 4).

Il merito di un meccanismo siffatto è di generare una spinta all’accorpamento dei partiti prima coalizzanti e quindi una maggiore semplificazione a livello di sistema partitico. In questo modo il potere di ricatto dei partitini (che conservano però con la soglia di sbarramento un diritto di tribuna) viene, se non impedito, largamente depotenziato.

Inoltre, e non è un aspetto trascurabile, venendo meno i veti all’interno dei partiti della coalizione si riuscirebbe a produrre un maggiore mutamento delle politiche pubbliche, che è la precondizione di un governo ben funzionante ed efficiente. Esiste sempre la possibilità che i partiti più piccoli si aggreghino in un unico listone e poi si disgreghino in parlamento. E’ un’eventualità che non si può scongiurare: l’eccessiva frammentazione partitica è una caratteristica insita al sistema politico, con cui dobbiamo convivere. E non si può nemmeno escludere che seguitino a formarsi comunque governi di coalizione.

In un sistema proporzionale per contrastare l’eccessiva frammentazione del sistema partitico si stabilisce sempre una soglia di sbarramento, cioè un limite numerico sotto il quale non si accede al parlamento.

La soglia di sbarramento dell’italicum è fissata al 3%.

Angelo Panebianco in un fondo sul Corriere ha paventato il rischio che una soglia così bassa produca eccessiva frammentazione, opposizioni divise e quindi ininfluenti. E in effetti il rischio di una polverizzazione di tante piccole opposizioni inconciliabili tra loro esiste. Una soglia così congegnata era pensata per permettere ad Alfano e al suo partito di approdare in parlamento (e allo stato attuale non è comunque detto che la superi). La soglia di ammissione alla rappresentanza andrebbe aumentata almeno al 4-5%. E’ necessario cercare di impedire la proliferazione dei partiti e a questo fine una soglia così bassa diviene inutile (si pensi che, soprattutto grazie alla – dissennata – legge sui rimborsi elettorali che era allora in vigore, alle ultime elezioni si sono presentati 83 partiti!).

Un altro aspetto innovativo dell’italicum è dato dalla possibilità che nel caso nessun partito raggiunga il 40% dei voti si vada al ballottaggio tra i due più votati per l’assegnazione del premio. Il doppio turno che è adottato con successo in Francia presenta grossi vantaggi. L’elettore al primo turno può esprimere liberamente il proprio voto; al secondo può esercitare un voto strategico: votare cioè il candidato a lui più congeniale o comunque più accettabile e punire l’alternativa che ritiene il “male peggiore”.

Come dimostrano le recenti elezioni pronvinciali francesi, il doppio turno penalizza fortemente i partiti antisistema (in quel caso il Fronte Nazionale di Marine Le Pen).

Recentemente Luca Ricolfi ha ipotizzato uno scenario molto irrealistico per cui se applicato in Italia il doppio turno vedrebbe vincente il Movimento 5 stelle sul Pd. Gli consigliamo di smettere di perdere tempo a lambiccarsi in fantasiose quanto improbabili congetture e lasciare queste analisi a chi studia la politologia per mestiere.

Sin qui la critica più dura all’Italicum si è incentrata sulla presenza di “nominati” all’interno dei collegi plurinominali.  Una parte minoritaria del Pd, che prima, con Bersani in testa, lamentava, giustamente, la presenza nella legge elettorale delle preferenze, ora biasima il contrario, e cioè una presenza eccessiva di “nominati” a fronte di una quota troppo scarsa di eletti con le preferenze. Questa considerazione è condivisa anche da Corrado Passera, che, coadiuvato dai Radicali, ha diffuso un appello dai toni altisonanti, contro il rischio di una dittatura incipiente del partito unico renziano, provocata a suo dire dalla riforma istituzionale del governo (cioè riforme costituzionali e della legge elettorale).

Su questo punto occorre far chiarezza.

Nell’Italicum i candidati vengono eletti all’interno di piccole circoscrizioni.

In ognuno dei 100 collegi plurinominali vengono eletti circa 6-7 candidati. I primi della lista sono definiti “capolista bloccati”, vengono imposti dal partito e la loro elezione è automatica. I restanti della lista aperta vengono invece scelti tramite le preferenze. Secondo i calcoli: 240 su 630 sarebbero scelti con le preferenze, quindi tutti appannaggio del partito vincente, 390 su 630 apparterrebbero alla lista bloccata. Nel testo attuale vengono mantenute le pluricandidature, pratica deleteria introdotta col Porcellum: ogni candidato si può presentare fino a 10 collegi per poi eventualmente scegliere in quale essere eletto, decidendo chi far promuovere al suo posto nei collegi in cui si è artatamente presentato e buggerando così l’elettore il cui voto alla fine non conta nulla.

Le liste bloccate in Italia sono impopolari. Ad esse si attribuisce la colpa di aver portato all’elezione di personaggi inqualificabili quali i vari Razzi, Scilipoti ecc all’interno dell’assemblea legislativa. La Corte costituzionale con una sentenza molto discussa e discutibile le ha dichiarate incostituzionali, di fatto aprendo alle preferenze. Ora, l’unico modo di aggirare la sentenza e soddisfare i rilievi della Corte è prefissare liste bloccate corte, cioè pochi candidati in ogni collegio, in modo da mantenere una maggiore riconoscibilità del candidato rispetto all’elettore, ed è quello che si è fatto.

Le liste bloccate esistono in molti regimi politici democratici e funzionanti(Spagna, Germania ecc.) senza che si metta in discussione la loro validità. A far la differenza, evidentemente, sono i partiti, che lì non sono comitati elettorali dei vari leader o presunti tali. Ma allora il problema non sono le liste, ma i partiti italiani che privilegiano troppo spesso politici inetti, mediocri, servili o, peggio, moralmente impresentabili.

Personalmente ritengo che le liste chiuse, bloccate non siano affatto uno strumento che peggiora la qualità degli eletti. Dipende dall’uso che ne fa il partito. Alcuni candidati di grande levatura, accademici, intellettuali non verrebbero mai eletti con le preferenze.

Con le liste bloccate il controllo del partito sulla selezione e l’elezione dei suoi candidati è massimo. Si possono trovare forme di bilanciamento attraverso la consultazione degli iscritti (non però con il metodo delle primarie aperte all’italiana, che andrebbero abolite all’istante).

Rimane che la selezione e il reclutamento del personale politico costituisce una prerogativa indefettibile dei partiti politici; altrimenti non si capisce a cosa servano questi strumenti insostituibili in una democrazia.

A questo proposito la polemica sui “nominati” è a dir poco assurda. Chi dovrebbe nominarli i candidati delle liste? Nel Mattarellum a scegliere chi candidare nei collegi erano le segreterie di partito e nessuno ha mai bollato la cosa come stravagante o perniciosa.

L’aspetto peggiore dell’Italicum non sono le liste ma le preferenze. L’elettore può esprimere un voto di preferenza; due nel caso opti anche per una donna.

In nessun sistema democratico (ad eccezione della Grecia e forse non è un caso) si utilizzano le preferenze per eleggere i candidati. Le preferenze aumentano notevolmente la corruzione e le spese per la campagna elettorale, indeboliscono la struttura dei partiti stimolando una competizione intrapartica, sono scarsamente impiegate. Alle ultime elezioni regionali meno di 2 elettori su 10 al nord (in Lombardia il 14%) le ha usate; mentre al sud, ed è un dato eloquente, ne fanno ricorso in media 6 elettori su 10 (con punte del 90% in Calabria).

La sinistra che oggi le caldeggia è la stessa che negli anni 90 si batteva con forza per la loro eliminazione. Sarebbe bene rammentare l’esperienza italiana del voto di preferenza, perché come ricorda Sartori “si ha qui un caso che è andato al di là di ogni normale deviazione”. E il fatto che per le elezioni locali e regionali sia prevista la possibilità di impiegarle, non costituisce una buona ragione per reintrodurle a livello nazionale. Anzi, l’enorme quantità di scandali che investe gli amministratori locali eletti con questo strumento facilmente manipolabile dovrebbe indurre a sopprimerle anche per questo tipo di competizioni. Sulle preferenze Renzi ha detto, come è suo solito, tutto e il contrario di tutto, ma alla fine le ha rimesse spacciandole per un’esigenza democratica. Decisione scellerata la sua.

Lo strumento migliore di selezione dei candidati alle cariche pubbliche in parlamento rimangono i collegi uninominali: nel collegio si presenta un unico candidato per ogni partito, chi prende più voti vince il seggio. Li abbiamo sperimentati nel periodo 93 – 2005 col mattarellum e hanno dato buona prova. Essi consentono di migliorare la qualità dei candidati alle cariche pubbliche: per assicurarsi il voto degli elettori si dovrà puntare sul miglior candidato possibile. A beneficiarne è la qualità della competizione. Crea poi un legame virtuoso tra elettori e eletto. Aumenta la capacità di controllo degli elettori e quindi il grado di accountability perché l’elettore dovrà renderà conto del suo operato ai suoi elettori.

E’ un voto alla persona come per le preferenze ma non espone a un rischio così imponente di clientelismo e corruzione.

Vuol dire che il sistema diventa maggioritario? Poco male.

Stupisce che nessuno dei nostri incompetenti policy maker li abbia presi in considerazione.

Se le riforme costituzionali del governo andranno in porto e l’attuale senato verrà soppresso per far spazio ad un’inutile Camera delle Regioni e dei Comuni, la legge elettorale si applicherà solo alla Camera. Altrimenti, si potrà correre il rischio già manifestatosi col Porcellum di avere maggioranze diverse tra le due camere, con quel che ne consegue in termini di governabilità e stabilità.

Quando verranno risolti gli errori non indifferenti riguardanti la modalità di elezione dei rappresentanti politici, che abbiamo menzionato sopra, solo allora potremmo dire che questa è un’ ottima legge.

Sugli effetti che questa legge elettorale determinerà sul sistema politico è invece questione più complessa e difficile da stabilire (bisognerà aspettare di vedere cosa succederà e come si svilupperà il processo di apprendimento dei partiti rispetto alla nuova legge elettorale). L’Italicum porterà all’elezione quasi automatica del Presidente del Consiglio, così che le consultazioni per la formazione del governo saranno una mera formalità; il sistema rimane parlamentare: nulla vieta che il governo venga sostituito dopo una crisi parlamentare e il governo necessita comunque del sostegno della maggioranza parlamentare.

I governi dovrebbero essere più stabili e duraturi come avviene nelle maggiori democrazie europee (Germania e Regno Unito). Non è poco. Ed è ciò di cui ha bisogno il paese.

Si sostiene che l’Italicum condurrà a un sistema bipartitico ma ciò è difficile se non impossibile almeno allo stato attuale mancando una destra moderata competitiva che possa ragionevolmente aspettarsi di contendere il governo a una sinistra moderata come quella plasmata da Renzi. Il sistema partitico uscito dalle elezioni del febbraio 2013 era perfettamente tripolare (tre partiti più o meno della stessa entità). Dopo solo due anni stiamo assistendo all’emergere di un sistema politico diverso, molto simile a quello della prima repubblica, che Sartori definiva del pluralismo polarizzato: un unico grande partito di centro che guarda ora a sinistra ora a destra (il Pd renziano), due partiti medi come la Lega Nord e Il Movimento 5 Stelle, spiccatamente antisistema (così in termini politologici si chiamano quei partiti che puntano alla rottura dei limiti di compatibilità del sistema) e una serie di altri piccoli partitini che orbitano intorno al partito di maggioranza (Ncd, Scelta civica). L’unica eccezione è rappresentata da Forza Italia, un partito in crisi irreversibile, che dopo le prossime regionali potrebbe implodere e scomparire.

Il partito principale dello spettro politico è inamovibile dal governo perché senza valide alternative. La polarizzazione elevata perché i partiti antististema che si situano agli estremi delle ali politiche, non potendo concorrere per la conquista del governo, sono irresponsabili. Non c’è alternanza né – molto più importante – un’aspettativa di alternanza e dunque il sistema è bloccato.

La Prima Repubblica è durata 45 anni prima di collassare. Quanto durerà questo nuovo assetto, di transizione, che è ancora prematuro definire Terza Repubblica?

4 comments

Franco Puglia 04/04/2015 at 12:53

Ottimo articolo, come sempre, Elia, che ho trascritto e commentato e che posterò in alcuni gruppi FB tra cui quello mio di ALTERNATIVA PER L’ITALIA oltre che nel gruppo di Immoderati.

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Daniele 17/05/2015 at 08:21

davvero ottimo articolo – analisi lucida e obiettiva.
Anche se un maggioritario uninominale porta con se parecchie distorsioni (ad esempio piccoli partiti di autonomie locali sovrarappresentati a discapito di partiti più grandi).

Avrei solo un dubbio sulle pluricandidature.

L’ articolo segnala che il seggio lasciato libero da un capolista pluricandidato viene occupato da persona indicata dal pluricandidato stesso. Siamo sicuri di questo? Leggendo il teso mi sembrava di capire che in ogni caso il posto verrebbe preso dal candidato che ha ottenuto più prefrenze. Mi sbaglio?

Grazie

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Elia Dall'Aglio 18/05/2015 at 12:42

La ringrazio innanzitutto. Ha ragione sui collegi uninominali: avvantaggerebbero le forze radicate sul territorio e decreterebbero una quota molto più alta di seggi per i partiti più votati (ad esempio, ad oggi, il pd stravincerebbe coi collegi in quasi tutto il territorio). Infatti il proporzionale corretto non è di per sé malvagio come sistema elettorale, per il contesto Italiano. Sono anni che si cerca di realizzarlo (dalla legge De Gasperi, 1953, in poi).
Venendo al suo dubbio. Forse non mi sono espresso correttamente.
Le multicandidature c’erano anche nelle due precedenti legge elettorali (nella legge Calderoli senza limiti).
E’ corretto quello che scrive. Il candidato opta per un solo collegio tra quelli in cui si è candidato; chi gli subentra negli altri è il primo eletto con preferenze.
Cordiali saluti

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L’ITALICUM E LA DEMOCRAZIA NEI PARTITI – FdP_WP 15/03/2016 at 22:41

[…] Non è certo un tema che suscita la passione dell’opinione pubblica ma è di fondamentale importanza. Visto che grande è la confusione e i termini necessariamente tecnici della questione appaiono incomprensibili ai più, proviamo a fare chiarezza sulla legge elettorale.Partiamo da una considerazione di metodo: la legge elettorale è la legge politica per eccellenza. Stabilisce la modalità di traduzione dei voti in seggi ed  in più influisce sulle scelte degli elettori e sul numero dei partiti. Essa è quindi il principale elemento di strutturazione del sistema politico.L’Italicum, questo l’appellattivo infelice con cui si è voluto chiamare la legge elettorale attualmente in discussione, è una buona riforma.Non è certamente, come vedremo, l’obbrobrio che descrivono un po’ grossolanamente i suoi detrattori (salvo alcune storture gravi che devono essere risolte), purtuttavia non sarà copiata in Europa come asserisce Renzi.Da noi è prassi consolidata che si modifichi la normativa elettorale a seconda delle convenienze politiche di chi è al governo (dal 1861, anno dell’unificazione italiana, si sono succedute finora ben 12 m0difiche al regime elettorale, più che in ogni altro paese europeo).I sistemi elettorali in Europa sono invece consolidati e non si modificano all’occorrenza, nemmeno quando il sistema politico subisce momenti di crisi prolungata (attualmente sembra essere il caso della Spagna, del Regno Unito, della Francia).(…)Italicum guida ragionata per orientarsi nel dibattito sulla legge elettorale […]

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